Memoria e nostalgia all’ombra della Torre

di Antonio Errico

Probabilmente, fra i libri – i molti libri – di Antonio Prete, non ce n’è nemmeno uno che non abbia un riferimento, una riga, una parola, un’immagine, un’allusione alla terra, al Salento dal quale è lontano ed al quale costantemente ritorna: per affetto, per richiamo irresistibile, per memoria dolceamara.

Anzi, la terra e la memoria, la memoria della terra e delle creature che ad essa appartengono e che le sono appartenute, costituiscono da sempre il lievito della sua scrittura, indifferentemente dal genere adottato, senza che importi la differenza tra saggistica, poesia, narrativa.

La scrittura è il suo nostos, il suo ritorno alla casa del padre, il suo ininterrotto colloquio con la madre, la condizione attraverso la quale esprime il suo sentimento dell’origine, la profondità della radice esistenziale, intima.

Così non sorprende affatto Torre saracena, il viaggio sentimentale nel Salento che in questi giorni Prete pubblica con Manni. Anzi, lo si aspettava. Se lo è portato dietro, dentro, per tutta la vita, elaborandolo nella lontananza, appuntandolo forse nottetempo, forse nell’ora meridiana, probabilmente dentro il dormiveglia. Perché così appaiono le sue descrizioni: figurazioni generate fra veglia e sonno, con la precisione delle descrizioni che appartengono alla veglia e le dilatazioni della memoria che appartengono al sonno incerto, narrate con parole che si consegnano alla fluttuazione dei volti, allo scontornamento dei luoghi, alla fluidità del desiderio di ritorno e di scrittura.

Forse un libro così, che attraversa una terra con il passo mosso dal desiderio di una narrazione che riesca a rigenerare il narrato, si può scrivere soltanto nella lontananza, in un luogo che non è quello che si racconta, in una condizione che contempera la realtà e l’immaginario. Si può scrivere soltanto sentendosi in solitudine, in una condizione di ricercato esilio, in una differenza tra presente e passato, tra vicino e lontano.

Ma la distanza non è solo quella tra i luoghi. La distanza è soprattutto quella tra il tempo, tra l’ora e l’allora.

Senza alcun rimpianto, però; questo libro è tramato da una intellettuale nostalgia. Ma nell’opera di Antonio Prete, la nostalgia è sempre stata un metodo. Una maniera di guardare il mondo e la letteratura – che è un modo di guardare il mondo – e la scrittura, che è un modo di indagarlo.

In fondo ha fatto questo Prete, nel suo insegnamento e nelle sue ricerche di letterature comparate: ha messo insieme visioni del mondo, i concetti e le figure con le quali esso veniva rappresentato.

Con Torre Saracena rappresenta il suo Salento-Mondo, tutto ricondotto in un villaggio vivente nella memoria, in una periferia infinita, in una condizione dell’anima chiamata Finibusterrae, che Prete disegna fra realtà e immaginario. Era lì che il mondo trovava il suo confine, dice. Di là da Leuca, il mondo, lu munnu, non esisteva.

Il ritorno, dunque: a quel mondo che gli occhi dell’infanzia e dell’adolescenza acerba hanno configurato. Dopo quell’età tutto il mondo conosciuto non è stato altro che il secondo termine di paragone.

Ha ragione Cesare Pavese quando nei suoi Dialoghi con Leucò fa dire al mendicante che abbiamo tutti una montagna dell’infanzia, e per lontano che si vagabondi, ci si ritrova sul suo sentiero. Là fummo fatti quel che siamo.

Ma l’immagine, la metafora dell’infanzia per Antonio Prete è una pianura, una distesa di vigne, la luna sopra gli ulivi, i balconi su case bianche di calce, le corti barocche, le torri a strapiombo sul mare, le luminarie delle feste di paese, l’odore di caramello bruciato e il sapore dello zucchero filato, i bicchieri di granite e i piattini con lo spumone.

Ma molto spesso in una scrittura coerente, coesa, compatta nella sua ideazione anche se poi realizzata per frammenti, perché di frammenti è fatta la memoria, le immagini non emergono da sole. Hanno bisogno di qualcosa che le sommuova, attendono una sollecitazione, una provocazione.

Nella scrittura di Antonio Prete, la sollecitazione è costituita dalla parola. E’ la parola che penetra nella memoria, che si fa rocchetto intorno al quale si avvolgono le immagini, le scene, le riflessioni, i paesaggi, i volti, le voci, le storie.

Poi bisognerebbe forse chiedersi quale sia stato non il motivo ma il movente di questo libro, la ragione esistenziale quasi inconfessata, vorrei osare e dire quasi inconsapevole. Leggendo e collegando le sue pagine a quelle di altri libri, ho avuto la sensazione che quel movente sia stato la paura: la paura di dimenticare, di vedersi sfuggire le cose dagli occhi, dal pensiero.

Perché Prete sa perfettamente – per anni e anni lo ha studiato – che le stanze della memoria e dell’oblio hanno la stessa soglia. Su quella soglia si sofferma, volgendo lo sguardo, con caparbietà pacata, a quella parte in penombra in cui brillano i ricordi, come le stelle a notte chiara e fonda.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Lunedì 11 giugno 2017]

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