Di mestiere faccio il linguista 25. Contro l’abuso del cellulare

di Rosario Coluccia

L’articolo di due settimane fa in cui prendevo posizione contro la presenza del cellulare a scuola ha suscitato molte reazioni, di consenso e di rifiuto. Gli insegnanti sono in maggioranza contrari al cellulare in classe. Riferiscono episodi quasi incredibili, abusi da parte degli studenti, spesso incoraggiati da genitori che si ritengono amorevoli avallando qualsiasi comportamento dei propri figli. Un professore (che mi chiede di non essere nominato) scrive: «Un giro nelle scuole aiuta a capire la situazione. La metà degli studenti è sprezzante verso gli insegnanti, di cui non riconoscono l’autorità. Non si può consentire l’introduzione del cellulare in aula e poi delegarne il controllo ai professori. I ragazzi protesterebbero ad ogni divieto, spalleggiati dai genitori (a loro volta accompagnati da avvocati)». Il professore non esagera. «Quotidiano» degli ultimi giorni riferisce episodi allucinanti che avvengono nelle scuole. Nel disinteresse generale.

Poniamoci una domanda: davvero il cellulare è lo strumento al quale adolescenti, giovani e adulti non possono in nessun modo rinunziare? Neanche per qualche ora, se non vi sono urgenze o necessità improrogabili? La questione non riguarda solo la scuola, il problema è generale, investe l’intera società. Secondo una statistica del gennaio 2018, l’Italia è il terzo Paese al mondo per numero di telefonini in rapporto al numero degli abitanti. Dopo Corea del Sud e Hong Kong il popolo italiano è quello più legato ai dispositivi mobili. Un sondaggio su utenti dai 16 ai 64 anni assicura che il 75% degli intervistati si collega abitualmente ad internet, il 57% frequenta uno o più social, l’85% utilizza per finalità varie un dispositivo mobile. Sempre più versatile e abilitato a mille funzioni il cellulare è diventato un vero e proprio assistente tascabile in grado di darci una mano nelle più disparate attività. Viene utilizzato per scrivere e leggere messaggi, per cercare notizie e informazioni, per trasmettere e riprodurre musica e foto, per attivare un contatto, per richiedere aggiornamenti sul meteo, per ricevere suggerimenti di itinerari.

Fin qui nulla da obiettare, si sfruttano a fondo le potenzialità di uno strumento ad alta tecnologia. I problemi nascono se consideriamo altri aspetti. Gli utenti consultano i propri telefoni mobili in media circa volte 50 al giorno. I consumatori più giovani (da 18 a 24 anni) controllano il telefono 85 volte al giorno. L’89% guarda il proprio telefonino entro un quarto d’ora dal risveglio e l’81% lo controlla fino a un momento prima di andare a dormire. Il 37 % controlla il cellulare nel bel mezzo della notte per vedere che ore sono (20%), per leggere i messaggi di WhatsApp (15%) e per leggere le mail (9%). Il tempo speso in rete dagli italiani è complessivamente di 6 ore e 8 minuti al giorno (di cui 2 ore e 20 minuti su mobile, 1 ora e 53 minuti sulle piattaforme social).

Altre statistiche danno percentuali un po’ più basse. Le statistiche sono quel che sono, insicure nei dettagli quando non poggiano su rilevazioni oggettive e si limitano a riferire autovalutazioni. Ma, in ogni caso, i numeri sono significativi e non possono lasciarci indifferenti, indicano le tendenze generali. L’eccesso digitale fa male ad ogni età. Tra gli adulti si registrano comportamenti parapsicotici. In aereo, appena toccata terra, quasi tutti prima d’ogni cosa riaccendono il cellulare che si è stati obbligati a disattivare durante il volo. In treno la maggior parte dei viaggiatori è concentrata sul cellulare, pochi leggono giornali, ancor meno leggono libri. Anche a cinema o ai concerti di musica classica si ascoltano trilli di chiamata o squittii di messaggi in arrivo. Mi capita di osservare gruppi al bar o in pizzeria, molti sono intenti a consultare separatamente il proprio cellulare senza scambiare una parola. Perché stanno insieme? È impressionante l’immagine, diffusa nell’ottobre 2017, di un gruppo di turisti giapponesi in gondola a Venezia, concentrati tutti a guardare il cellulare. Vieni dal lontano Oriente a visitare una città unica al mondo, paghi per fare un giro in gondola tra chiese e palazzi grondanti di storia e guardi il cellulare!

Nel nostro quotidiano caratterizzato da sovraccarico informativo si sono instaurate abitudini inaccettabili. Dobbiamo essere sempre reperibili, pronti a comunicare. È obbligatorio rispondere immediatamente a un messaggio o a un invio di foto, se questo non succede il mittente entra in ansia. E anche il ricevente si sente obbligato a rispondere all’istante, se non lo fa rischia di passare per maleducato. Invece è maleducato l’infernale meccanismo inventato da WhatsApp. Chi scrive può controllare il secondo in cui il messaggio inviato viene letto dal destinatario (a meno che quest’ultimo non attivi una funzionalità particolare per sottrarsi al controllo). Nei sistemi di posta elettronica esiste una funzione che si chiama “richiedi conferma di lettura”. Chi scrive intima al destinatario, più o meno: «garantisci che hai letto la mia comunicazione, ti controllo, voglio vedere quanto tempo impieghi a rispondermi». Molti usano questa funzione maleducata quando scrivono ad altri. Io per principio non dò mai la conferma di lettura, giudico la richiesta un atto di violenza. Voglio scegliere io i tempi di lettura e di risposta, assumermi la responsabilità delle mie azioni.

Possiamo difenderci? Sì, cambiando le regole di comportamento, lasciando passare un accettabile intervallo di tempo (qualche ora, uno o due giorni) prima di rispondere a un sms o a una mail. Un collega milanese ha inserito nella propria posta elettronica un intelligente messaggio automatico di risposta che dice: «non rispondo mai all’istante, non leggo la posta dalle 16 del venerdì alle 8 del lunedì». Per quanto mi riguarda non sono iscritto a nessun gruppo social, compresi quelli di condominio, di piscina, di palestra. Chi si trova iscritto a un gruppo può silenziare i messaggi quasi sempre futili o non partecipare alle insopportabili catene di commenti.

Gli effetti negativi si aggravano nei soggetti più giovani, bambini e ragazzi. Il profitto scolastico risulta indebolito dall’abuso del cellulare, ne abbiamo spiegato più volte i motivi. Molti adolescenti non sanno più scrivere a mano, sono incapaci di restare concentrati a lungo, di ragionare e di fare collegamenti logici. L’utilizzo intenso dei social indebolisce la capacità di socializzare nella vita reale e favorisce l’insorgere di problemi psicologici. La lingua certifica nuovi fenomeni. I sociologi britannici hanno coniato nel 1999 il termine Neet, acronimo di “Not (engaged) in Education, Employment or Training”. Indica persone che non studiano, non lavorano, non sono impegnate in attività formative. L’acronimo inglese comincia a entrare nella lingua italiana. Il Messaggero del 16 giugno, p. 16, titola: «Neet, Italia maglia nera UE: un giovane su quattro non fa nulla». L’art. spiega: in Europa siamo il Paese dove il fenomeno, che riguarda la fascia di età tra 18 e 24 anni, è il più diffuso in assoluto, raggiunge la percentuale del 25,7% contro una media europea del 14,3.

Dagli inizi di questo millennio è entrata nei nostri vocabolari una parola di origine giapponese: hikikomori. Il termine all’origine significa ‘stare in disparte’ e indica un ‘adolescente o giovane adulto che ha rinunciato a qualsiasi forma di integrazione e di realizzazione sociale, cercando livelli estremi di isolamento’. Giovani che non studiano, non lavorano, non hanno amici e trascorrono gran parte della giornata nella loro camera. A stento parlano con genitori e parenti. Dormono durante il giorno e vivono di notte, evitando qualsiasi confronto con il mondo esterno. Si rifugiano tra i meandri della rete e dei social con profili fittizi, unico contatto con la società che hanno abbandonato. Le generazioni degli anni Duemila sono a volte schiacciate dalle aspettative di realizzazione sociale. C’è chi riesce a sopportare la pressione della competizione scolastica e lavorativa e chi invece molla tutto e decide di auto-escludersi. Le stime parlano di 100mila casi italiani di hikikomori, un esercito di reclusi volontari che chiede aiuto in silenzio.

Questi tragici fenomeni non sono generati dalla rete ma trovano nella rete il proprio habitat naturale, come è l’acqua per i pesci. La lingua, come sempre avviene, trova le parole per rappresentare le nuove situazioni della società in cui viviamo.

Mi scrive il mio amico Roberto Costanzo. Roberto è un medico, è informato, misurato, ironico, appartiene a un tipo umano le cui tracce si vanno perdendo nell’Italia involgarita in cui viviamo. Si chiede. Come sollecitare i ragazzi a usare un po’ meno il cellulare, come convincerli? Suggerisce. Forse si potrebbero convincere dicendo loro che è poetico, controcorrente, “fico”, rinunziare per qualche ora al cellulare. Può essere una buona idea, ma non saprei in che modo attuarla. Apro il dibattito, scrivete al giornale.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 1° luglio 2018]

 

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