Il Novecento di Mario Marti

di Antonio Lucio Giannone

Prima di entrare nel merito del discorso, è necessario fare una breve premessa. Nel maggio 2009 fui invitato a tenere una conversazione nella sede del Circolo culturale «Galileo» di Trepuzzi, in occasione del novantacinquesimo genetliaco di Mario Marti. Accettai subito l’invito non solo con grande gioia ma anche con un pizzico di emozione, perché è dal 1968, cioè da quando mi iscrissi alla Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Lecce, che ho il piacere di conoscere il professore Marti. Durante i quattro anni di corso, seguii assiduamente le sue lezioni, partecipai ai seminari da lui organizzati, sostenni con lui gli esami di Letteratura italiana. Poi, attratto dalla modernità letteraria, decisi di laurearmi con Donato Valli in Storia della letteratura italiana moderna e contemporanea, con una tesi sul petrarchismo novecentesco, della quale egli era il correlatore. Ma Marti è rimasto sempre, per me, un punto di riferimento costante dal lato metodologico e un esempio di serietà e rigore scientifico a cui ho cercato di improntare la mia attività, un vero maestro, insomma, nel campo dell’italianistica. Ho continuato a frequentarlo, a seguire le sue conferenze, a leggere i suoi numerosi volumi, che mi ha donato sempre con dediche affettuose, ad avere un ininterrotto e proficuo rapporto con lui fino ad oggi. Tra l’altro, ha avuto la bontà di ospitare due miei lavori in collane da lui dirette: uno, la mia prima monografia in assoluto, Bodini prima della «Luna», nella «Minima» della casa editrice Milella di Lecce, nel 1982; l’altro, una raccolta di saggi, Futurismo e dintorni, nella collezione di studi e testi, «Humanitas», delle Edizioni Congedo di Galatina, nel 1993.

Ma, per tornare ora all’incontro in suo onore, decisi di trattare come argomento gli studi di Marti sul Novecento, e questo per vari motivi. Intanto perché mi occupo, in particolare, di letteratura italiana contemporanea; in secondo luogo perché questo tema, che io sappia, non era stato mai affrontato da nessuno fino ad allora; e in terzo luogo perché lo stesso professore Marti me ne aveva dato lo spunto. Qualche tempo prima, infatti, mi aveva inviato una lunga lettera, nella quale metteva a fuoco proprio i suoi rapporti col secolo passato.

Tutto era nato da un mio saggio sull’attività critica di Gino Rizzo, allievo di Marti, prematuramente scomparso nel 2005. In questo articolo, a proposito della tesi di laurea di Rizzo su Lavorare stanca di Cesare Pavese, facevo notare che la tesi era stata assegnata «nonostante una certa diffidenza del suo maestro Mario Marti, con cui egli [Rizzo] si laureò, verso la contemporaneità, poi nel corso degli anni attenuatasi al punto da trasformarsi in frequente attenzione verso autori e opere del Novecento»1. Marti, dunque, in questa lettera, datata «Lecce, 31 agosto 2007», dopo aver espresso un lusinghiero giudizio sul mio lavoro, riteneva opportuno «aggiungere e precisare qualche altra considerazione» riguardo a questo argomento, in modo – scriveva – che «se lo riterrai opportuno, potrai, se capiterà altra occasione, usufruire della vera verità sullo svolgersi dei miei rapporti col Novecento».

Ebbene, questa occasione ora è capitata e, per delineare questi rapporti, utilizzerò, almeno fino a un certo punto, proprio la sua lettera.

 

* * * * *

 

Scorrendo la bibliografia di Mario Marti che, com’è noto, conta ormai più di mille e cento titoli tra volumi, edizioni critiche, studi e saggi, articoli, rassegne, recensioni e schede2, non può non sorprendere che al secondo posto, in ordine cronologico, dopo un saggio su L’educazione del primo Leopardi, derivante dalla sua tesi di laurea, figuri un articolo intitolato La poesia di Salvatore Quasimodo. Entrambi questi scritti apparvero nel 1943 sulla rivista fiorentina «Leonardo», dove Marti quello stesso anno pubblicò anche recensioni e schede critiche di autori contemporanei (M. Curtopassi, R. Radice, N. Senesi, O. Dini, A. Benedetti, D. Maiotti, C. F. Ramuz, A. Bucci). Come si spiega questo esordio, da ‘militante’, dello studioso che s’era laureato alla «Normale» di Pisa su Leopardi ed era, come mi ha scritto nella lettera poc’anzi ricordata, «assolutamente digiuno di Novecento»? («Del resto – continua subito dopo – si era nel ’38 e le Storie si concludevano con la triade Carducci-Pascoli-D’Annunzio»). Si spiega col fatto che Raffaele Spongano, quando nel 1943 entrò nella redazione del «Leonardo» sansoniano, che era diretto da Attilio Momigliano, propose al suo vecchio allievo del Liceo «Colonna» di Galatina di occuparsi «proprio dei contemporanei, avendolo conosciuto lettore attento e acuto».

Questa esperienza prosegue a Parma nel 1946 e a Lecce, l’anno seguente, con la collaborazione rispettivamente alla «Gazzetta di Parma» e al settimanale salentino «Libera Voce», dove, il 24 maggio del 1947, apparve anche un articolo su Ungaretti professore. L’interesse per i contemporanei si protrae negli anni del servizio militare a Salerno, allorché Marti si dedica alla lettura costante e appassionata degli scrittori del Novecento, «e non solo dei Maggiori, ovviamente, – come scrive sempre nella sua lettera – (Ungaretti, Campana, Montale, Pirandello, ecc.) ma, per esempio, dei Crepuscolari (amatissimi), dei Vociani; e poi anche di Tozzi, Borgese, Palazzeschi, Bilenchi, Civinini, Chiesa ecc. fino a Tecchi e a Virgilio Brocchi. Per non parlare (se non rapidamente) dei miei allora carissimi Panzini, Baldini, Cecchi, Bacchelli, Moravia, Pavese, Calvino, Buzzati, e via dicendo. Del resto, – aggiunge – uno sguardo al settore Novecento della mia biblioteca (ora a Martano) documenta a sufficienza quella mia davvero famelica curiosità. E sono libri e opere che mi sono letti davvero davvero».

Poi, negli anni Cinquanta avviene una sorta di ‘conversione’. Marti a Roma diventa assistente (come straordinario) di Alfredo Schiaffini ed entra in contatto con grandi maestri della critica e della filologia (U. Bosco, N. Sapegno, A. Monteverdi, P. Toschi), conosce e studia testi fondamentali della linguistica e della critica stilistica (di Saussurre, Auerbach, Spitzer, von Wartburg, Dámaso Alonso, Menéndez Pidal, Vossler) e così si dedica allo studio della letteratura italiana dei primi secoli (Dante, la prosa del Duecento, i poeti ‘giocosi’, gli stilnovisti), senza mai tralasciare «il suo antico Leopardi».

 

Fatalmente, – continua nella lettera – e parallelamente, venne ad affievolirsi il mio ‘entusiasmo’ per il Novecento, anche per due altre pesanti ragioni: la convinzione della impossibilità che uno studioso, sia pure grandissimo, possa storicizzare un canone della contemporaneità ancora fluida, addirittura magmatica, vivendoci dentro fino alla cima dei capelli (il che mi fu sempre di remora a scrivere saggi, recensioni o altro del genere sui contemporanei che leggevo e che studiavo); e la mia netta sensazione che la letteratura ‘militante’, sicuramente in Italia, andava prostituendosi e commercializzandosi, perfino promovendo la schizofrenia linguistica a teoria della letteratura e a poetica (Gruppo ’63; Nanni Balestrini: Come si agisce).

 

Ciononostante, nella bibliografia di Marti figurano numerosi studi sui contemporanei sui quali ora vorrei soffermarmi rapidamente. Intanto, quando riprende a occuparsi di autori del Novecento? Ebbene, a parte alcuni scritti dedicati a illustri critici e studiosi (Schiaffini, Fubini, Flora, lo stesso Croce) e recensioni e schede critiche relative a volumi sulla letteratura italiana del secolo passato (di noti specialisti quali Mario Petrucciani e Gaetano Mariani), che pubblicò nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta, e se escludiamo anche un occasionale saggio su Giuseppe Buttazzo, uno sconosciuto rimatore salentino del primo 900, apparso sulla «Rassegna Pugliese» nel 1960 e il documentatissimo studio su Leopardi nella critica del Novecento, letto a Recanati nel Convegno leopardiano del 1972, bisogna giungere al 1974, allorché negli Atti dell’Accademia dell’Arcadia ma anche sull’«Albero» esce un saggio dal titolo La poesia di Albino Pierro tra evasione e denuncia. Come mai allora questo ritorno di interesse verso la letteratura contemporanea e perché proprio Pierro, sul quale Marti ritornerà altre volte con studi e interventi giornalistici, fino a curare, nel 1985, il volume che raccoglie gli Atti di un Convegno dedicato al poeta lucano, svoltosi a Tursi, dal titolo Pierro al suo paese?

Pierro era stato conosciuto direttamente da Marti a Roma, dove vivevano entrambi, tra il 1959 e il 1960, e dopo era diventato suo vicino di casa. La frequentazione perciò da allora si fa abituale. Questo scrittore, com’è noto, aveva incominciato la sua carriera letteraria come poeta in lingua, ma nel 1960 aveva pubblicato la sua prima raccolta dialettale (nel dialetto antichissimo di Tursi), ‘A terra d’u ricorde. Ed è soprattutto la poesia in dialetto che attira l’attenzione, non a caso, oltre che di Marti, che a volte scrive i risvolti, non firmati, di alcune sue raccolte, anche di altri illustri critici e filologi, da Petrocchi a Folena, da Bosco a Figurelli, fino a Contini che lo inserisce nella sua famosa antologia Letteratura dell’Italia unita 1861-19683. Ecco, lo studioso salentino segue Pierro, come scrive lui stesso, «non come lettore, sia pure intimamente compartecipe, ma come sodale e quasi come contubernale»4, soprattutto negli anni romani, ma anche dopo, fino ― si può dire ― alla morte del poeta avvenuta nel 1995.

Quali sono allora i punti principali dell’interpretazione di Pierro da parte di Marti, che egli stesso sottolinea in uno scritto di carattere quasi riassuntivo, risalente al 1992? In estrema sintesi, sono i seguenti: 1) non esiste alcuna frattura tra il Pierro in lingua e quello in dialetto; 2) il ‘mondo’ poetico di Pierro è sempre uno e compatto; 3) in Pierro esiste una complementarità tra poetica della memoria e quella della realtà; 4) Pierro è poeta di cultura ma anche di natura e d’istinto5.

Questo interesse per la poesia in dialetto (anche del Novecento) prosegue negli anni seguenti, allorché Marti, insieme a Donato Valli e Oreste Macrì, ha il merito di scoprire, valorizzare e imporre all’attenzione nazionale i due maggiori poeti in dialetto salentino del secolo passato, Nicola G. De Donno e Pietro Gatti, i quali, non a caso, sono i soli che compaiono nelle due principali antologie della poesia dialettale italiana, quella curata da G. Spagnoletti6, dove figurano entrambi, insieme a un altro salentino, Erminio G. Caputo, e l’altra a cura di F. Brevini7, nella quale c’è solo Gatti.

In questo caso, i suoi primi interventi risalgono alla fine degli anni Settanta-primi anni Ottanta, quando si assisteva a un vero e proprio revival della poesia in dialetto in campo nazionale che veniva apprezzata e ‘riscoperta’ anche di fronte alla crisi, all’impasse della coeva poesia in lingua. Ovviamente, è superfluo aggiungere che né in questi studi né negli altri dedicati a poeti e narratori salentini c’è in Marti un’intenzione o un atteggiamento di tipo provincialistico e meno che mai campanilistico. Tutti questi scrittori sono sempre esaminati con rigore critico e metodologico e messi costantemente in rapporto con la cultura nazionale secondo una prospettiva policentrica della storia della letteratura italiana che ha trovato l’esito maggiore, nell’attività dello studioso, nella fondazione e nella direzione della ben nota «Biblioteca salentina di cultura» (poi diventata «Biblioteca di scrittori salentini»).

Al poeta magliese Nicola G. De Donno Marti dedica vari saggi e interventi. Intanto, nel 1979, dopo l’apparizione della sua raccolta Paese, gli scrive una lunga lettera che De Donno pubblicherà quello stesso anno su «La Rassegna salentina». Poi, nel 1981, dà alle stampe un saggio dal titolo Un parere sulla poesia in dialetto di Nicola G. De Donno, mentre, nel 1987, gli presenta la raccolta La guerra guerra e infine recensisce ancora altre opere come Lu senzu della vita (1992) e Lu Nicola va alla guerra (1994), entrambe edite da Scheiwiller.

Ma qual è il De Donno che Marti sembra apprezzare di più? Ecco, non è né il poeta satirico-polemico del primo libro, Cronache e paràbbule (1972) e di altre plaquettes consimili, quello cioè che se la prende con i politici locali, con le autorità, con i ministri della pubblica istruzione, né il poeta-filosofo delle ultime raccolte, Palore (1993) e Filosofannu? (2002), sulle quali, non a caso, si astiene dall’intervenire con articoli o recensioni, ma il De Donno legato al «paese» che – a suo giudizio – è «la materia privilegiata»8 della sua poesia, anche se – precisa – «il paese reale rinvia costantemente a un “metapaese”, a un “paese” destoricizzato o meta storicizzato, che è il vero bersaglio della satira e della condanna»9, un paese insomma che diventa a un certo punto un vero e proprio «paese dell’anima»10.

Negli stessi anni, come s’è detto, si rivelò l’altra notevole figura di poeta in dialetto del Salento, il cegliese Pietro Gatti, al quale Marti riserva ugualmente una costante attenzione. Incomincia nel 1980, scegliendolo, addirittura, per rendere omaggio al suo maestro, Raffaele Spongano, in occasione dei suoi settantacinque anni e quindi della sua ‘quiescenza’ accademica. Questo corposo studio sulla prima raccolta di Gatti, dal titolo A terre meje (1976), apparve infatti, in origine, negli Scritti in onore di Raffaele Spongano. Ma dopo prende in esame i due successivi libri di Gatti, Memorie d’ajere i dde josce (1982) e ‘Nguna vite (1982), con due scritti successivamente compresi, col primo, nel suo volume Dalla Regione per la Nazione.

E se, nell’ultimo di questi saggi, Marti scriveva che le prime tre raccolte del poeta cegliese componevano «un trittico di tutto rispetto» e ancora che l’arte di Gatti era andata «raffinandosi e arricchendosi in essenzialità e potenza ed asciuttezza»11, nel primo di essi indicava già con sicurezza la vera molla generatrice del suo canto nell’«irrefrenabile impulso verso le cose, gli uomini, le vicende, gli aspetti naturali delle “terra”, terra di contadini, terra di sempre»12.

Recentemente è ritornato due volte su Gatti in occasione della edizione completa, in due volumi, delle sue poesie (Pietro Gatti poeta, San Cesario di Lecce, Manni, 2010), che ha accuratamente descritto nel primo intervento, confermando la sua interpretazione13. Nel secondo articolo, con la consueta acribia, ha messo in rilievo alcuni limiti di questa edizione e si è soffermato, in particolare, sugli Inediti che, a suo giudizio, rispecchiano «i vari tempi dell’operosità poetica di Gatti»14, sottoponendoli a una strenua analisi tematica, metrica e linguistica.

Ma, per concludere questo discorso sulla poesia in dialetto, iniziato con Pierro e proseguito con De Donno e Gatti, non posso non accennare a uno studio che per la prima volta delineava lo svolgimento della poesia dialettale salentina, dal titolo appunto Nicola De Donno e Pietro Gatti: per una linea della poesia dialettale salentina (1984), che in origine era una relazione presentata al Convegno di studi su «La letteratura dialettale in Italia», svoltosi a Palermo nel 1980. Ebbene, qui Marti partiva dalle prime testimonianze di poesia dialettale riflessa nel Salento e poi soprattutto da Francesc’Antonio D’Amelio, l’iniziatore di questo genere, per arrivare a De Dominicis, il maggiore esponente tra ‘800 e ‘900, e poi ancora a Giuseppe Susanna, Chimienti, Marangi, Bozzi, Pagliarulo, Oberdan Leone e gli altri più significativi, fino appunto a Gatti e De Donno, sui quali però rinviava agli altri suoi scritti.

Sempre per restare in questo campo, Marti, com’è noto, nel 1994 ha curato anche il volume sul Settecento della Letteratura dialettale salentina, che fa parte della già ricordata «Biblioteca di scrittori salentini» da lui diretta, mentre nel 2005 è tornato a occuparsi di Giuseppe De Dominicis (il Capitano Blak), in occasione di un Convegno di studi a lui dedicato, con un ampio e analitico studio sulla sua opera più famosa, i Canti de l’autra vita15.

Per passare ora agli altri argomenti novecenteschi trattati da Marti, dirò che spiccano in questo ambito gli studi su due scrittori, Girolamo Comi e Vittorio Bodini. Ho evitato di aggiungere stavolta la definizione di salentini perché, in questo caso, si tratta di due figure di letterati che operano, fin dall’inizio, in una dimensione nazionale, per non dire europea. Che poi Comi e Bodini siano anche i due rappresentanti di maggiore rilievo e prestigio, anzi i due numi tutelari, della letteratura salentina del Novecento, questo mi sembra un fatto secondario e anzi addirittura trascurabile. Comunque anche qui, in questa precisa scelta fatta dal critico, si può notare il criterio rigorosamente selettivo da lui seguito quando si occupa di autori contemporanei.

Incominciamo allora da Comi, al quale Marti ha dedicato quattro studi, che vanno dal 1977 al 1999, raccolti poi, nel 1999, col titolo Comi poeta dell’amore, in un opuscolo della collana «I grani» collegata all periodico «Presenza Taurisanese». Il primo di questi studi, Comi: notizie e problemi di un’edizione (1977), è un’accurata e analitica recensione dell’Opera poetica di Comi curata da Donato Valli nel 1977 per l’editore Longo di Ravenna, ricca di osservazioni filologiche e critiche, come succede spesso con le sue recensioni che diventano contributi originali, veri e propri saggi.

Il secondo, Un modesto tributo d’anamnesi comiana, vent’anni dopo (1988) è uno scritto, almeno all’inizio, di carattere autobiografico, perché con Comi, come d’altra parte con Pierro, De Donno e Gatti, Marti ebbe un rapporto diretto di conoscenza e di amicizia. Egli infatti fece parte, com’è noto, dell’Accademia salentina, dove però – come afferma lui stesso – ebbe una posizione di ‘isolato’, in quanto i suoi interessi filologici contrastavano con quelli creativi di Comi e degli altri membri. Nella prima parte, dunque, come dicevo, lo studioso rievoca questo rapporto e la sua partecipazione all’Accademia salentina e all’«Albero», poi, nella seconda parte, entra nel merito della poesia di Comi e nota la compattezza della personalità del poeta ma anche la presenza di aritmie metriche che, a suo giudizio, sono segni di una vita che è anche disarmonia e contraddizione.

Questa ipotesi viene sviluppata nel terzo saggio, Girolamo Comi, la vita, la poesia (1998), nel quale, di contro alle interpretazioni più consolidate, che insistono sull’armonia cosmica di Comi e sulla celebrazione di essa, Marti parla invece di aspirazione, di tendenza, di ansia verso questa armonia, la quale nasce dalla sua inquietudine religiosa. Ma anche qui l’ipotesi del critico è formulata sulla base di un elemento tecnico-formale, l’irregolarità della metrica comiana. Nel quarto studio, infine, intitolato «Canto per Eva»: Girolamo Comi poeta d’amore (1999) esamina quello che, a suo giudizio, è il capolavoro del poeta, Canto per Eva (1958), che Marti privilegia rispetto alla sua raccolta forse più rappresentativa, Spirito d’armonia (1912-1952), apparsa nel 1954. Qui il tema dell’amore prende il posto di quello ‘cosmico’, che aveva caratterizzato tutta la fase precedente, ma l’amore diventa – precisa lo studioso – «viatico verso Dio e ansia di conoscenza del trascendente, mentre la grazia, la conoscenza, la bellezza della donna diventano soltanto un segno, un simbolo, una testimonianza di Lui»16.

Ma passiamo ora a Bodini, su cui Marti, suo coetaneo (sono nati entrambi nel 1914), è intervenuto in più occasioni, dal 1980, anno di un memorabile Convegno di studi dedicato all’autore della Luna dei Borboni, fino al 2010, in cui si è occupato dell’edizione commentata della raccolta Metamor, curata da Antonio Mangione17. Pur essendo lontano da lui per sensibilità, formazione, esperienze biografiche e culturali, Marti ha cercato ripetutamente di penetrare nel complesso mondo dello scrittore leccese, tutto immerso nella più ribollente modernità letteraria, non riuscendo però sempre a entrare in sintonia con esso. Spesso, per questi interventi, ha preso spunto dalla pubblicazione di opere in versi e in prosa, curate da Oreste Macrì, Fabio Grassi, Mangione, con i quali, in qualche occasione, si è aperto anche un vivace dibattito.

Sarebbe lungo ripercorrere in questa sede tutte le tappe della sua interpretazione. Dirò soltanto che essa è basata, come egli stesso affermò in un suo intervento, sull’individuazione dell’«ulissismo» come «chiave centrale per comprendere tutto Bodini, la sua vita, la sua cultura e la sua poesia»18. Ma forse, in questo caso, ancora più di quelle esegetiche, sono notevoli le osservazioni di Marti sul piano filologico. Ricordo, ad esempio, quelle relative all’edizione mondadoriana delle Poesie di Bodini del 1972, curata da Oreste Macrì, le quali vennero fatte proprie, almeno in parte, dallo stesso Macrì allorché nel 1983 curò l’edizione di Tutte le poesie negli Oscar Mondadori.

Oltre che di Comi e Bodini, Marti si è occupato di altri letterati salentini del Novecento col consueto rigore filologico e critico e con l’animo e l’abito mentale dello ‘storico’ piuttosto che del ‘militante’, tanto per riprendere due termini da lui usati in un saggio su Macrì, nel quale invece, a suo giudizio, a fare aggio, a prevalere sullo storico è il «fervido e attivo militante […] furiosamente impegnato in prima linea, all’attacco, o in trincea, in difesa»19. Vediamo ora rapidamente qualche esempio.

Per quanto riguarda Vittorio Pagano, Marti mette in rapporto l’attività di poeta e quella di traduttore, al punto che egli – sostiene – è «traduttore anche quando crea, e magari poeta autentico quando invece traduce»20. Nel saggio su Salvatore Toma invece sottolinea il «falso storico» e l’«inganno ideologico»21 costituito dal Canzoniere della morte, raccolta apparsa presso Einaudi nel 1999 a cura di Maria Corti, ma che Toma non ha mai composto. E quindi fa notare le aporie filologiche e ermeneutiche che ne derivano, giungendo alla fine, in tal modo, a una più obiettiva valutazione di questa poesia, di contro a facili e acritiche esaltazioni. Ancora, di Francesco Politi, germanista e poeta, esamina l’Orazio vivo, in cui l’autore ci offre una «metamorfosi stilistica attualizzante»22, cioè una traduzione assai libera e inventiva che cerca di rendere attuale la poesia di Orazio attraverso la lingua, lo stile, la versificazione e che quindi cerca di reinventarla.

Più recentemente egli è intervenuto anche su Michele Saponaro, in occasione di un Convegno internazionale di studi, dal titolo Michele Saponaro cinquant’anni dopo, organizzato da chi scrive il presente articolo. In particolare, Marti, da leopardista di chiara fama, si è soffermato su una delle più note biografie di Saponaro, quella appunto su Giacomo Leopardi, della quale, nella sua relazione ha fornito una puntuale rilettura, offrendo anche una testimonianza personale a distanza di quasi settant’anni dalla sua prima ‘scoperta’. Ed è giunto alla conclusione che, nonostante i suoi indubbi e oggettivi limiti, dovuti anche al tempo trascorso, quest’opera risulta «gustosa e ancora piacevolmente leggibile» grazie alla capacità dell’autore di «far rivivere intorno al protagonista tutto il vario mondo di cose e di personaggi cui partecipava, direttamente e indirettamente, la sua vita»23.

A proposito della sua disposizione da ‘storico’, la prova maggiore offerta da Marti, per quanto riguarda il Novecento, è costituita forse dal lungo e impegnativo capitolo compreso nella Storia di Lecce, diretta da Bruno Pellegrino, e in particolare nel terzo volume, Dall’Unità al secondo dopoguerra, a cura di Maria Marcella Rizzo24. In questo scritto egli tracciava un quadro completo della vita culturale a Lecce dalla fine dell’Ottocento fino agli anni Cinquanta del Novecento, non trascurando alcun elemento che potesse in qualche modo illuminarla: dallo sviluppo urbanistico della città alle istituzioni culturali, dalla pubblicistica alla fioritura di studi giuridici, economici, scientifici, oltre che alla produzione letteraria, in lingua e in dialetto, con i principali esponenti e le riviste più significative.

Ma, per concludere, vorrei ricordare anche un aspetto particolare della produzione di Marti, relativa alla collaborazione a due periodici, il quotidiano di Taranto «Corriere del Giorno» e il settimanale leccese «Voce del Sud», fondato e diretto fino alla sua morte da Ernesto Alvino e poi proseguito dal figlio Leonardo. Ebbene, in questa fitta e varia produzione giornalistica, che risale agli anni Ottanta-Novanta del secolo scorso e in parte raccolta in alcuni volumi, Marti interviene su diversi aspetti dell’attualità culturale: recensisce opere di critica ma anche testi creativi di autori contemporanei; offre vivaci resoconti di convegni di studio (su Fenoglio, Scotellaro, ecc.); interviene su problemi di attualità, che riguardano, ad esempio, la scuola e l’università; traccia dei penetranti profili di scrittori, editori, artisti; fa delle puntualizzazioni di carattere linguistico; prende in esame aspetti antropologici, storici, artistici del Salento.

Anche questi scritti, che si possono considerare ‘minori’ nell’ampia produzione critica e filologica dello studioso, sono spesso ricchi di spunti, osservazioni, proposte, suggerimenti. Anche qui, insomma, sia pure in maniera più leggera e quasi dissimulata, si rivela la lezione perenne di Mario Marti, il suo ineguagliabile magistero.

[Il Novecento di Mario Marti, in A. L. Giannone, Sentieri nascostiStudi sulla Letteratura italiana dell’Otto-Novecento, Lecce, Milella, 2016, pp. 181-194. ].

 

 

1 Il saggio, dal titolo Gli studi novecenteschi di Gino Rizzo, apparso in origine in «Studi Salentini», LXXXIII, 2006 (ma pubblicato nel 2007), pp. 301-317, è compreso ora nel mio vol. Modernità del Salento. Scrittori, critici, artisti del Novecento e oltre, Galatina, Congedo, 2009, pp. 133-143 (la citazione è a p. 133).

2 Cfr. Bibliografia diacronica e tematica degli scritti di Mario Marti, in M. Marti, Ultimi contributi dal certo al vero, Galatina, Congedo, 1995, pp. 255-316 e la continuazione per gli anni 1995-2005, nell’altro suo vol., Da Dante a Croce proposte consensi dissensi, Galatina, Congedo, 2005, pp. 175-181. A questi volumi si rimanda per indicazioni bibliografiche più dettagliate degli studi di Marti citati nel corso del presente articolo.

3 Firenze, Sansoni, 1968.

4 M. Marti, Ancora su Pierro, quasi ricapitolando, in Id., Ultimi contributi dal certo al vero, cit. p, 226.

5 Cfr. ivi, p. 234.

6 Poesia dialettale dal Rinascimento a oggi, Milano, Garzanti, 1991.

7 La poesia in dialetto: storia e testi dalle origini al Novecento, Milano. Mondadori, 1999.

8 M. Marti, Un parere sulla poesia in dialetto di Nicola G. De Donno, in Id., Dalla Regione per la Nazione, Napoli, Morano, 1987, p. 376.

9 Ivi, p. 378.

10 Ivi, p. 382.

11 M. Marti, L’ultimo Gatti: «Nguna vite», in Id., Dalla Regione per la Nazione, cit., p. 372.

12 Id., La poesia di Pietro Gatti: lettera a Raffaele Spongano per i suoi settantacinque anni, ivi, p. 349.

13 Ora in M. Marti, Il trilinguismo delle lettere ‘italiane’ e altri studi d’Italianistica, a cura di M. Leone, Galatina, Congedo, 2012, pp. 107-124.

14 Ivi, p. 118.

15 «Pietru Lau»: ricognizione critica e proposta di ipotesi, in Giuseppe De Dominicis e la poesia dialettale tra ‘800 e ‘900, a cura di G. Rizzo, Galatina, Congedo, 2005, pp. 51-69; poi col titolo Ipotesi sul «Pietro Lao» di Giuseppe De Dominicis, in M. Marti, Salento, quarto tempo, Galatina, Edizioni Panico, 2007, pp. 23-43.

16 Id., Comi poeta dell’amore (quattro studi), «Presenza Taurisanese», Galatina, Editrice Salentina, settembre 1999, p. 40.

17 Questo intervento si può leggere ora in Id., Il trilinguismo delle lettere ‘italiane’ e altri studi d’Italianistica, cit., pp. 101-106.

18 Id., I fiori e le spade di Vittorio Bodini (a proposito di un’edizione degli “Scritti civili”), in Dalla Regione per la Nazione, cit., p. 319.

19 Id., Il Salento letterario di Oreste Macrì (a proposito di un libro di A. Macrì Tronci), in Salento, quarto tempo, cit., p. 53.

20 Id., Ipotesi per Vittorio Pagano, in Storie e memorie del mio Salento, Galatina, Congedo, 1999, p. 210.

21 Id., Salvatore Toma poeta: un Canzoniere inventato da Maria Corti, in Da Dante a Croce proposte consensi dissensi, cit., p. 140.

22 Id., L’«Orazio vivo» di Francesco Politi: una metamorfosi attualizzante, in Su Dante e il suo tempo con altri scritti di italianistica, Galatina, Congedo, 2009, p. 116.

23 ID., Rileggendo il «Leopardi» di Michele Saponaro, in Il trilinguismo delle lettere ‘italiane’ e altri studi d’Italianistica, cit., p. 78.

24 Bari, Laterza, 1992.

 

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