Le spiagge del mito e dell’archeologia

Guardando quello che succede a Roca nei mesi estivi intorno alla Grotta della Poesia, la piscina naturale più bella del mondo, dove centinaia di bagnanti, letteralmente, consumano la superficie della tenera roccia, ci si domanda se essi si rendano conto di trovarsi in uno dei luoghi più importanti dell’archeologia: non distante si trova la Poesia Piccola dove Cosimo Pagliara ha scoperto, incise lungo le pareti, centinaia di iscrizioni, in gran parte messapiche, ma anche greche e latine, che fanno di questo monumento la Bibbia della storia salentina. E accanto l’incredibile città protostorica, emporio durante tutta l’età del Bronzo dove, nel secondo millennio prima di Cristo, confluivano merci preziose dall’Europa centrale, dalla Grecia e dall’Oriente. Sembra che molti dei vasi micenei lì rinvenuti provenissero da Creta, convalidando le tradizioni che indicano i Cretesi come progenitori delle genti salentine.

Ma chi erano questi Cretesi? E da dove venivano? Ce lo spiega, nel pieno dell’età classica, Erodoto, considerato il Padre della Storia: essi facevano parte di una spedizione che si era recata in Sicilia per vendicare il loro re Minosse, ucciso dagli abitanti dell’isola. Per ritorsione avevano assediato la loro capitale Camico e devastato campi e villaggi. Nel viaggio di ritorno furono sorpresi da una violenta tempesta e fecero naufragio davanti alle coste salentine; ma, poiché le loro imbarcazioni erano perdute, si stabilirono nelle nostre terre e da Cretesi divennero perciò Messapi e da isolani (nesiotai) si fecero continentali (epeirotai). Come riferisce Virgilio, un altro cretese era sbarcato sui campi salentini, il re di Creta Idomeneo, dalla città di Lyctos. Come altri eroi ellenici aveva partecipato alla guerra di Troia e nel viaggio di ritorno (il nostos), incappato in una tempesta, aveva fatto voto di sacrificare il primo essere che gli si fosse fatto incontro, una volta sbarcato in patria: gli dei vollero che questi fosse suo figlio. Sia che avesse compiuto il sacrificio, sia che avesse risparmiato il figlio, il suo sacrilegio aveva provocato la pestilenza. Idomeneo, cacciato dalla sua patria, riprese la navigazione e sbarcò sulle nostre spiagge. Qui fondò una città, diventando anch’egli, da isolano, abitatore del continente.

Quanti racconti si dipanano sulla sottile striscia del bagnasciuga! Parlano di viaggi per mare e di naufragi, di scambi commerciali, di guerre ma anche di incontri amorosi. Ulisse, il naufrago per eccellenza, che le onde abbandonano sulla spiaggia dell’isola dei Feaci, forse la stessa Corfù, appare nudo di fronte ad uno stuolo di fanciulle e della principessa Nausica: “venne avanti come un leone cresciuto sui monti, ben forte, che va nella pioggia e nel vento, con occhi di fuoco” (Odissea, libro VI).

Altri miti abitano sulle spiagge a sud del Golfo ionico, dove giunsero i primi coloni greci per fondare la metropoli di Taranto. Ad essi l’oracolo di Apollo aveva indicato la spiaggia dello sbarco: Saturo “dove il montone respira con voluttà la salsedine marina, bagnando l’estremità della sua barba grigia”. Ma essi, invece del montone, videro soltanto una pianta di vite, abbarbicata ad un fico selvatico cresciuto in riva al mare: i suoi viticci “epitragoi” pendevano sino a toccare l’acqua. Compresero infine, ma dopo molte esitazioni, che l’oracolo alludeva ai viticci, parlando dei ciuffi lanosi della barba del montone “tragos”. Oggi ancora Saturo ostenta spiagge bellissime di sabbia rosata; non più i vigneti che bagnavano i loro rami nell’acqua del mare. Al loro posto un’informe colata di villette e, più verso l’interno, gli orrendi quartieri della periferia di una città industriale.

Alle spiagge salentine del Capo Iapigio allude Virgilio nel libro III dell’Eneide; dopo aver vagato nel Mediterraneo alla ricerca dell’Antica Madre, ossia del luogo alle foci del Tevere in cui avrebbero fondato la nuova Troia, erano giunti a Butrinto in Albania. Infine, dopo una traversata notturna, erano in vista della terra promessa: “fugate le stelle, arrossiva l’Aurora, quando vediamo lontano oscuri colli e, umile sull’orizzonte, l’Italia”. Un’emozione forte prende tutti gli uomini dell’equipaggio; sicuri di avere raggiunto la meta, invocano il sacro nome dell’Italia; il padre Anchise, dopo aver coronato un grande cratere, versa il vino nelle onde per ringraziare gli dei del mare, mentre sulla rocca si profila il tempio di Minerva. Le onde si infrangono sui “turriti scopuli”, le rocce che cadono a picco sul mare, come intorno alla grotta Palombara di Castro: sulla spiaggia pascolano quattro cavalli, candidi come la neve “equos in gramine vidi…candore nivali”. Sbarcati, i troiani fanno i sacrifici del rito, davanti agli altari, invocano la dea Atena, dopo aver velato il capo con i mantelli rituali che avevano portato da Troia: ma non è quella la terra a loro destinata e subito riprendono il viaggio verso Occidente, evitando le coste tarentine, abitate dai nemici greci. Tanto è il prestigio della testimonianza di Virgilio che molte città del Salento hanno, durante i secoli, rivendicato il privilegio di essere i luoghi dello sbarco. Solo a partire dal Duemila ho ricevuto lo straordinario privilegio di identificare a Castro, e di portare alla luce, il Santuario di Atena cantato da Virgilio, lungo il tratto orientale delle fortificazioni antiche, quello che guarda verso le coste dell’Albania e le isole greche, le cui sagome miracolosamente appaiono all’orizzonte nelle giornate prive di foschia. Dalla terra sono emersi oggetti molto rari come la scultura in avorio che raffigura una testa di ariete, e poi le armi che venivano donate alla bellicosa Vergine: scudi di bronzo, punte di freccia, di giavellotto e di lancia, ed infine i morsi di cavallo, segno di uno statuto più alto nella gerarchia dei guerrieri che venivano al santuario. Poi il ritrovamento della statua colossale della dea e dei grandi fregi scolpiti nelle lastre di pietra leccese; non c’è più dubbio ormai sul luogo del mitico sbarco di Enea, e l’antico nome di Castro lo dice chiaramente: Castrum Minervae.

Simbolo della dea era l’albero di olivo e in tutto il Salento gli ulivi centenari ricordavano la presenza di questa divinità dagli occhi azzurri come il mare. Oggi rimane solo la devastazione, con gli alberi ormai macchiati da chiazze di rami morti, e sterili, sempre più ridotti a scheletri. Se Minerva tornasse nelle nostre terre, non sarebbe in grado di riconoscerle e ci chiederebbe perché non è stato fatto nulla per arrestare il flagello e perché ciò sia avvenuto nella indifferenza generale. Avevamo i mezzi per porre rimedio! Di fronte alle nostre risibili scuse, sdegnata, fuggirebbe per sempre sull’Olimpo.

[Pubblicato nel “Nuovo Quotidiano di Puglia” di giovedì 15 agosto 2019
con il titolo: Il mito. Storie di eroi da Saturo a Castro. ]

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