Il sottofinanziamento della ricerca scientifica e la ‘quarta rivoluzione industriale’

Si tratterebbe peraltro di un’inversione di tendenza radicale rispetto a quanto si è fatto in Italia negli ultimi quaranta anni. E’ stato stimato che la spesa pubblica e privata per ricerca e sviluppo ammontava, nel 1975, al solo 0.8% rispetto al Pil, passando a un modesto 1.3% nel 1990. La media OCSE era, in quel periodo, di circa il 2% di spesa pubblica e privata in ricerca scientifica in proporzione al Pil. In quegli anni, sebbene l’Italia spendesse per innovazioni meno della media dei Paesi industrializzati, si segnalava comunque una traiettoria di convergenza verso modelli più virtuosi. Questa traiettoria è venuta meno a partire dallo scoppio della prima crisi (2007-2008), alla quale il Governo Berlusconi ha reagito tagliando drammaticamente i fondi per la ricerca. Erano gli anni nei quali l’allora ministro Tremonti dichiarava che “con la cultura non si mangia”. Ed erano gli anni nei quali le Università erano descritte dai media come luoghi di corruzione, nepotismo, spreco. La traiettoria di convergenza si tramuta in una traiettoria di crescente divergenza: nel 1995, la spesa per ricerca e sviluppo scende all’1% del Pil, a fronte di una media OCSE del 2%. Nel 2010, l’Italia diventa ultima per finanziamenti delle innovazioni fra i Paesi industrializzati, superata anche dalla Spagna.

Questa dinamica trova la sua spiegazione nel fatto che l’Italia ha sempre cercato di competere su scala internazionale attraverso politiche di bassi salari o di svalutazione della lira. Per contenere la dinamica salariale, si è scelta la strada della dequalificazione della forza-lavoro (lavoratori con bassi livelli di istruzione ricevono, di norma, salari inferiori rispetto a lavoratori altamente scolarizzati). Per accresce le esportazioni si è scelta la strada della svalutazione della nostra moneta. Ed entrambe queste politiche – accentuate in particolare negli anni ottanta – se pure hanno prodotto risultati positivi di breve periodo, si sono rivelate drammaticamente nocive per la crescita di lungo periodo: sia perché bassi salari comportano bassi consumi e bassa domanda interna, sia perché – in una condizione, come quella attuale, nella quale non è più possibile svalutare unilateralmente – le nostre esportazioni finiscono per dipendere sempre più da ulteriori riduzioni dei salari (e dunque dei prezzi dei beni esportati) e dalla qualità delle nostre produzioni. Quest’ultimo fattore, nel caso italiano, non attiene all’uso di nuove tecnologie, ma al perfezionamento di tecniche di produzione fondamentalmente artigianali (si pensi al settore della moda o dell’agroalimentare), basate sulla conoscenza ‘tacita’, a basso valore aggiunto e con bassa intensità di capitale. Si tratta di un modello di crescita estremamente fragile, che poteva avere successo fin quando era possibile la svalutazione della lira e, soprattutto, fin quando non vi era la concorrenza manifatturiera dei Paesi asiatici (Cina e India in primis).

La rilevante decurtazione di finanziamenti ai centri di ricerca operata, in particolare, dall’ultimo governo Berlusconi si iscrive, dunque, in un andamento di più lungo periodo, che vede l’Italia arretrare sistematicamente – per quanto attiene alla produzione di innovazioni – rispetto ai suoi concorrenti su scala internazionale. In altri termini, il sottofinanziamento dell’Università è, nel caso italiano, un dato strutturale, del tutto indipendente da una risposta politica errata (quella appunto del Governo Berlusconi e dei governi che si sono succeduti) e del tutto indipendentemente dalla necessità di accrescere i risparmi del settore pubblico.

Anzi: mentre si tagliavano fondi alla ricerca, per l’obiettivo dichiarato di ridurre il rapporto debito pubblico in rapporto al Pil, questo stesso rapporto cresceva. E ciò accadeva del tutto indipendentemente dai Trattati europei e dei vincoli che questi impongono. Per converso, e per quanto l’Unione europea sia legittimamente criticabile (e lo era fin dall’atto della sua costituzione), va ricordato che essa incentiva la cosiddetta economia della conoscenza e, dunque, maggiore spesa per l’istruzione, la formazione professionale, la ricerca scientifica. L’Italia si muove in direzione contraria: come certificato da Eurostat, il nostro Paese è ultimo, fra i Paesi europei, per quanto attiene alla percentuale di laureati in rapporto alla forza-lavoro nella fascia d’età 30-34 anni e anche per numerosità di sedi universitarie.

La ricerca scientifica ha un impatto sulla crescita evidente, dal momento che la sua applicazione genera incrementi di produttività. In più, se essa comporta l’assunzione di giovani ricercatori, genera anche incrementi di domanda, a ragione della elevata propensione al consumo di individui in quella fascia d’età.

Recenti ricerche mostrano che, nell’ultimo decennio, le imprese private italiane hanno generato una bassa dinamica degli investimenti (imputabile soprattutto al peggioramento delle loro aspettative) e, soprattutto, che gli investimenti sono stati realizzati in settori poco produttivi. In particolare, l’orientamento alla spesa per investimenti nel settore delle costruzioni – dovuta all’attesa di rivalutazione degli immobili – ha generato bassi rendimenti e crescente indebitamento nei confronti del sistema bancario.

In tali condizioni, è da auspicare che il nuovo governo scommetta sulla transizione da un assetto di Stato regolatore (capace, per quanto si è fin qui visto, solo di generare ipertrofia normativa) a un assetto di Stato imprenditore e innovatore, potendone trarre numerosi effetti benefici: minore disoccupazione giovanile, maggiore propensione all’innovazione da parte del settore privato, maggiore capacità di competere con produzioni ad alta intensità tecnologica (in sinergia con le imprese private più innovative), maggiore crescita. Infine, il finanziamento del settore della formazione ha anche evidenti effetti positivi sulla selezione della classe dirigente. E’ un tema di non poco conto, dal momento che, particolarmente nel caso italiano, la ‘qualità’ delle istituzioni appare oggi una variabile cruciale per non precipitare nuovamente in una spirale di recessione.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 6 settembre 2019]

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