Che cosa significa tradurre

di Gianluca Virgilio

C’è una metafora particolarmente cara ad Antonio Prete, una metafora con la quale, meglio che in qualsiasi altro modo, l’autore riassume il senso del tradurre: l’esperienza amorosa. La si legge nel preludio intitolato Sulla soglia della sua ultima fatica, All’ombra dell’altra lingua. Per una poetica della traduzione, Bollati Boringhieri, Torino, febbraio 2011:  “C’è, in questa alchimia [la traduzione], qualcosa che somiglia all’esperienza d’amore, o almeno alla sua tensione: come poter dire l’altro in modo che il mio accento non lo deformi, o mascheri, o controlli, e, d’altra parte, come lasciarmi dire dall’altro in modo che la sua voce non svuoti la mia, il suo timbro non alteri il mio, la sua singolarità non renda opaca la mia singolarità” (p. 11). La metafora ricorre poi nella Premessa al saggio che chiude il libro, Dialoghi sul confine. Poeti che traducono poeti, uscito per la prima volta nel 2001 col titolo Dialoghi sul confine. La traduzione della poesia nel primo volume della Storia della Letteratura Italiana, Il Novecento. Scenari di fine secolo, a cura di Emilio Cecchi e Natalino Sapegno, Garzanti, Milano 2001: “La traduzione come azzardo amoroso: dire l’altro senza alterare il suo accento e, allo stesso tempo, lasciarsi dire dall’altro senza che si attenui il timbro della propria voce” (p. 90). Quest’ultimo scritto si può considerare come il laboratorio nel quale Prete ha sperimentato sui maggiori poeti italiani del Novecento quanto già veniva sperimentando da tempo su se stesso in qualità di poeta-traduttore di poeti: di Baudelaire, innanzitutto, di cui ha tradotto Les Fleurs du mal (in copertina significativamente v’è il Ritratto di Baudelaire di Gustave Courbert  del 1848) e poi di Rimbaud, Mallarmé, Verlaine … fino a Char, Jabés e Bonnefoy.  Che Prete fosse anche poeta, valendo il principio leopardiano che “senza essere poeta non si può tradurre un vero poeta”, ciascuno avrebbe potuto dedurlo da queste traduzioni, di cui l’editore Piero Manni di Lecce nel 1996 pubblicò un quaderno dal titolo L’ospitalità della lingua. Baudelaire e altri poeti; ma la prova inconfutabile si ebbe solo nel 2007 con la pubblicazione di Menhir presso la casa editrice Donzelli di Roma. Importerà, dunque, al lettore che l’autore di questo libro è poeta e traduttore di poeti, non semplice indagatore delle altrui tecniche di traduzione. L’opera che qui si recensisce nasce infatti alla confluenza di molteplici sperimentazioni ed è il frutto maturo di un sapere nato sul campo, nella pratica poetica, traduttiva e critica.

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