Una strada e una guerra

Siamo animali rappresentativi, hanno evidenziato Wittgenstein e Cassirer. La nostra conoscenza di ciò che ci circonda, degli eventi naturali e delle persone, è rappresentazione – e conseguente narrazione – non tanto del mondo in sé, quanto di ciò che del mondo percepiamo. Questa consapevolezza non è però motivo o invito ad abbandonarsi a una palude in cui tutte le possibili rappresentazioni e le loro interpretazioni siano sullo stesso piano e prevalga quella espressa da chi al momento è più forte, forse solo per ragioni accessorie. Semmai lo sforzo deve essere quello di cercare di raggiungere i fatti soggiacenti alla percezione, che è uno sforzo di verità, e, in questo, ha contenuto etico. Abbiamo bisogno di analisi, di consapevolezza, quindi della ragione, e ciò che esprimiamo deve potersi corroborare dal confronto con il mondo empirico. La logica dell’argomentare non deve essere disgiunta dall’analisi critica e dalla consapevolezza della natura di ciò su cui si basa l’argomentare stesso. Ciò, però, non cauterizza la fantasia o il sentimento. Semmai la commistione tra fantasia, sentimento e ragione genera l’arte; ci permette anche di astrarre dal dato sensibile a strutture concettuali neanche visualizzabili, come avviene nella matematica. Siamo animali congetturali. Scegliamo direzioni d’azione e per quanto l’idea che alimenta una scelta specifica sia rozza, essa nasce dalla ricchezza culturale di chi la esprime, dalle sue idiosincrasie, dalle inclinazioni, dall’intuizione, quest’ultima forse una forma di processo razionale sotterraneo, l’emergenza della macerazione e della riconnessione inconscia di conoscenze precedenti. E ogni scelta che esprimiamo esprime un valore percepito in qualche modo sfaccettato nel contesto sociale in cui operiamo, un valore che ci caratterizza nel rapporto con gli altri, ma forse soprattutto con noi stessi.

Pavimentare una strada, come fanno Four e Nine – ma poi, nei fatti, solo Four – è in sé piuttosto neutro. Quella strada può poi essere utilizzata per migliorare la vita oppure può diventare un elemento di forme creative di atrocità; dipende da come la si usa. È questo ciò che ricorda Eggers, ma lo sappiamo, o almeno dovremmo; il modo con cui Eggers lo dice ha, però, il ritmo e la forza della tragedia greca. Le conseguenze dell’uso dipendono dalle intenzioni, quindi dall’etica di chi quella strada ha voluto, e dagli accidenti possibili nel luogo e nel tempo loro pertinente. Etica e conoscenza dovrebbero essere guida delle azioni che s’intraprendono nei confronti delle guerre altrui e nel gestire le loro conseguenze. Sono fattori che richiedono riflessione, studio. Non possono prescindere dalla considerazione della dignità umana; devono lottare per non essere resi inefficaci dai tentativi d’indirizzare l’emozione, dalle istanze dell’egoismo, dalla paura. L’atto d’aggressione che apre una guerra corrode il senso che diamo alla parola umanità; sdrucciola verso l’ossessione, il delirio, la furia, l’esaltazione, il fumo, l’urlo e il sangue della battaglia; si nutre della distruzione, del desiderio di morte, di dominio; ha le sue radici nell’interesse; dal predatore prende lo sguardo attento; sfrutta l’ottundimento delle capacità critiche, indotto dal favorire l’ignoranza, non dal cercare di mitigarla. Sono proprio le conseguenze dell’esaltazione dell’ignoranza tra i fattori che più di altri scolorano la scena su cui attraversiamo i nostri giorni. E quella scena ha elementi certi: ciò che ciascuno ha dentro di sé, il mondo che gli è di fronte, il cielo sopra la testa, come in quella terra tropicale incognita, immaginata da Eggers, dove il cielo sembra così vicino che quasi pare di poter agitare le mani e raccogliere le stelle come fossero granelli di sabbia.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 22 ottobre 2019]

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