Di mestiere faccio il linguista 21. La sindrome dei pesci rossi


Si spiega così l’allestimento di una applicazione che sia in grado di attenuare (o che almeno provi ad attenuare) la dipendenza individuale dallo smartphone. Anche questa (come tutte le dipendenze da cui ci difendiamo: droga, alcol, gioco) può generare conseguenze negative nelle abitudini di vita, nell’attività lavorativa, nei rapporti sociali. L’idea di partenza è relativamente semplice: si presenta come un gioco che premia coloro che riescono a staccarsi per più tempo dal proprio cellulare. Due o più giocatori competono nella sfida di non utilizzare il proprio dispositivo per il maggior tempo possibile. In particolare, lo smartphone dovrebbe essere messo in pausa nei momenti in cui è necessaria una concentrazione elevata: nelle ore di studio, durante la guida, quando si è al lavoro o nei momenti di socializzazione. Premi e sconti sarebbero assegnati agli utenti vincitori delle sfide. Siamo ancora alle tappe iniziali. Aspettiamo che l’applicazione venga perfezionata; e soprattutto, aspettiamo di vederne la diffusione. Alla fine tireremo le somme, verificheremo se avrà avuto successo o meno. In attesa, proviamo ad ampliare il ragionamento.
Un dato è certo. Si moltiplicano gli allarmi legati a un uso eccessivo del cellulare e della rete, il nostro giornale ne ha trattato più volte. Si intitola La peste un brano dell’ultimo disco di Vinicio Capossela. Il cantautore se la prende con quella che a lui pare una vera e propria pestilenza morale, etica, di linguaggio che corre nella rete, diffondendo a man bassa pulsioni primitive e tendenze corruttive. In tempo di peste si può fuggire dalla città per rifugiarsi in contado e nel racconto, come scelse di fare la gentile brigata di donne e uomini protagonisti del Decameron di Boccaccio, nel tentativo di fronteggiare la mortifera pestilenza che imperversava a Firenze nel 1348. Capossela non ha timore di gridare al mondo la propria denunzia: «Manda male-odore, / meravigliosa peste / che ci fa liberi e uguali, / e trovalo il nemico / mettigli un hashtag / e dagli all’untore, / lei, intanto, / individualista e collettiva / lavora tutto ai fianchi / in una rivolta inerte di notizie piene di niente, / di dirette Facebook che vengono prima delle cose serie, / di livore, / di fornicazione, / di cadaveri di parole che scorrono a fiumi nelle rete, / tutti uniti contro niente, / senza parlare, senza ragionare, / foto, selfie, stop».
L’allarme non viene solo dal visionario e profetico cantautore di successo. Da dieci anni il 2 marzo si celebra la giornata mondiale del #NoPhoneDay, una giornata intera senza il cellulare che, nelle intenzioni degli organizzatori, dovrebbe contribuire alla serenità collettiva. L’iniziativa, nata in America, prende lentamente piede anche in Europa. Non attecchisce granché in Italia, dove pure siamo sempre pronti a scimmiottare le mode d’oltre oceano, come dimostra il successo crescente di Halloween, una festa che nulla ha che vedere con la nostra tradizione. Se imitassimo gli americani con il #NoPhoneDay non sarebbe male, per una volta.
Rivolgendosi agli scout, papa Francesco ha detto: «La libertà non arriva stando chiusi in stanza col telefonino e nemmeno sballandosi un po’ per evadere dalla realtà». Il Papa ha ragione, i ragazzi sono i più esposti, la giovane età li rende vulnerabili. Sono i giovanissimi e gli adolescenti a preoccupare, in particolare quelli nati in questo secolo, quando il cellulare e Internet costituiscono realtà così largamente consolidate che nessuno può farne a meno. Alcuni ragazzi utilizzano i dispositivi elettronici in maniera ossessiva, non trovano tempo per altro. Poco spazio alla lettura, ai film, persino alle uscite con gli amici. E invece disconnettersi anche solo per poche ore può far bene.
Una parola etichetta questa generazione, l’anglolatinismo post millennial, coniato a partire da millennial , termine trasparente formato a partire dal nome latino millennium con l’aggiunta del suffisso -al, che in inglese serve a formare aggettivi. Al plurale possiamo scrivere millennial (i millennial, le millennial) senza -s finale se consideriamo la parola già entrata nell’italiano (e quindi non declinabile, come non decliniamo bar, computer, film), o millennials (i millennials, le millennials) con -s finale invece se la consideriamo straniera, non pienamente integrata nel lessico italiano, ancora crudo forestierismo (come a me pare preferibile. E quindi per quanto mi riguarda al plurale scriverò millennials). Si tratta di categoria di difficile definizione che comprende sia ragazzi che hanno appena terminato il percorso scolastico e che si affacciano al mondo del lavoro, sia bambini che hanno da non molto intrapreso l’attività scolastica, sia i piccolissimi.
Ricerche accurate informano sugli effetti che, in non pochi casi, le nuove tecnologie producono sul sistema neuronale: ne risulta rimodellata la percezione del mondo e si producono significativi cambiamenti nella mente. Molti giovani e giovanissimi mostrano un indebolimento cognitivo delle abilità analitiche e delle competenze concettuali, dell’apprendimento critico e articolato. L’attività di comprensione piena di un testo letto (libri scolastici, di narrativa, giornali) implica processi certamente più meditati della rapidità sensoriale a cui ci abituano le nuove tecnologie. Ipnotizzati e presi dalla rete (come osserva Raffaele Simone), quando scrivono i nativi digitali producono un tipo di italiano digitato (e-taliano propone Giuseppe Antonelli, dove e- allude all’iniziale di e-mail) ellittico, frammentario, incerto, che si contenta di espressioni generiche e poco articolate, spesso vacillanti nell’ortografia e nella sintassi.
Di fronte a fenomeni così complessi, sarebbe banale demonizzare i computer e la rete. È sbagliato, non ci si può sottrarre alla sfida dei tempi, in nessun caso. Leggo che nelle scuole, a partire dal prossimo anno, i docenti, che per ovvie ragioni anagrafiche solo parzialmente sono educati alla cultura del digitale (“migranti digitali” propone di definirli Sergio Lubello), dovrebbero a loro volta addestrare gli allievi all’uso consapevole della rete, a distinguere tra verità e falsità, a selezionare l’alluvione di dati tra i quali essi navigano a caso, incapaci di rielaborare le mille notizie e informazioni disponibili. Buoni propositi, ma non basta. Non commettiamo l’errore di delegare solo alla scuola (sovraccaricata da mille impegni diversi) un compito che è di tutti. Non sottraiamoci agli impegni collettivi. Raggiungere un uso equilibrato e meditato delle nuove tecnologie è obiettivo irrinunciabile che appartiene anche alle famiglie e all’intera società. Su questo ci giochiamo il futuro. Rosario Coluccia

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