Inutili discussioni? Un saggio pirandelliano di Beatrice Stasi

di Gianluca Virgilio

Ho sempre pensato che ogni vero scrittore non sprechi mai le proprie parole e, qualunque cosa si trovi a scrivere, esse tornino sempre ad maiorem gloriam del suo mondo poetico, sebbene l’apparenza testimoni spesso in senso contrario. Il compito del critico sta nel saper riconoscere un centro per ogni fuga centrifuga, nel dare un senso al non-senso, una ragione alla stravaganza e un retto cammino alla digressione; senza alcun intento normalizzatore e senza forzature, dal che s’intende la bontà del critico, la sua capacità di discernere. Non guasta mai, nell’approccio all’opera, l’esercizio di una certa arte del sospetto, che, come hanno insegnato coloro che ne sono stati i maestri sin dall’Ottocento, ci consente di gettare lo sguardo sotto (sub-specere) la superficie delle apparenze e di vedere quanto rimane inevitabilmente nascosto a chi non ha pratica di quest’arte.

Conosce molto bene l’arte del sospetto, ovvero della critica, Beatrice Stasi, ricercatrice di Letteratura italiana dell’Università del Salento, che, a distanza di qualche anno dall’edizione critica de La Coscienza di Zeno di Italo Svevo (Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2008), opera che deve esserle costata non poca fatica, si cimenta con un altro grande scrittore della letteratura italiana tra Otto e Novecento, Luigi Pirandello. Il volume cui si fa riferimento ha per titolo “Veniamo al fatto, signori miei!”, con sottotitolo Trame pirandelliane dai “Quaderni di Serafino Gubbio operatore” a “Ciascuno a suo modo”, edito da Progedit  di Bari nel febbraio 2012, pp. 122, e rientra nella collana Letterature diretta da Ettore Catalano.

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