Di mestiere faccio il linguista 7. «Perché è utile tradurre gli anglicismi»

di Rosario Coluccia

Qualche settimana fa ho scritto di una vecchia copia del «Corriere della Sera illustrato», 12 maggio 1979. intitolata «Ma in Italia si parla ancora l’italiano?». Partivo dai pezzi li contenuti per paragonare la situazione dell’italiano di quarant’anni fa a quella di oggi, discutevo di cosa nel frattempo è cambiato nella lingua. Quella puntata di «Parole al sole» ha incuriosito i lettori, molti mi chiedono di continuare a confrontare ieri recente e oggi, capire cosa è successo, riflettere sulle tendenze di anni lontani compiutamente realizzate e sui fenomeni effimeri. Ci provo, riportando tra virgolette alcuni brani di quel supplemento giornalistico di decenni addietro e aggiungendo il mio commento.

Tra le tendenze che quattro decenni fa erano solo incipienti c’è l’onnipresenza dell’inglese nella lingua italiana, tema che allora appena si profilava e oggi colpisce e interessa molto. A partire dai linguaggi settoriali, veri e proprio laboratori di sperimentazione, gli anglicismi si travasavano nella lingua comune. «Parole come “cash”, “dispatching”, “trend” sono obbligatorie per un vero “boss del marketing”. È vero, si potrebbe anche parlare di cassa e di incasso, spedizione e linea di tendenza, che sono gli equivalenti italiani. Ma vuoi mettere la differenza tra il suono esoterico di “leasing” e il banalissimo affitto?».  

Non cambierei una parola, rispetto a quanto scriveva allora Walter Tobagi. Sì, proprio il giornalista che un anno dopo, il 28 maggio 1980, sarebbe stato ucciso a pochi passi da casa sua da uomini della Brigata XXVIII marzo, formazione terroristica di estrema sinistra. Era intuitivo, meticoloso, attento ai fenomeni che attraversavano la società italiana. L’abuso degli anglicismi inutili, allora incipiente,  è aumentato in maniera intollerabile ed è diventato pervasivo. Non esiste ormai possibilità di scegliere (come ancora si poteva fare tempo addietro) tra vocaboli italiani quali  «calcolatore» o «elaboratore» e il prestito «computer»:  quest’ultimo ha soppiantato ogni possibile alternativa, tutti diciamo computer e basta.

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