Il sonno della ragione

di Paolo Maria Mariano

È del 1797 un’acquaforte e acquatinta di Francisco José de Goya y Lucientes, larga 16,7 cm e alta 21,6 cm, conservata nella Biblioteca Nazionale di Spagna, inclusa in un portfolio di 80 incisioni pubblicate nel 1799 e dedicate alla rappresentazione allegorica, umoristica e fantastica dei vizi e delle miserie umane, un’acquaforte e acquatinta infinitamente meno nota del suo titolo, Il sonno della ragione genera mostri, che è diventata una frase paradigmatica che si cita dimentichi della sua origine e spesso anche di chi ne fu l’autore. Nell’Helman, un manoscritto conservato nella stessa biblioteca e dello stesso Goya, a proposito del titolo il pittore scrive (p. 221) che “la fantasia priva della ragione genera impossibili mostri: unita alla ragione è madre delle arti e origine di meraviglie”.

Alla percezione immediata, quella collegata all’esperienza giornaliera, al cumulo delle conoscenze individuali, per quanto traballanti e diverse da persona a persona esse siano, il titolo di Goya non fa sollevare immediate obiezioni e, in questo, pare portatore di un contenuto istintivamente universale; apre, però, una serie di questioni la cui analisi può difficilmente terminarsi in poche righe, utili forse solo a elencare alcuni problemi al titolo stesso connessi.

Che cosa intendeva Goya per “ragione”? Il suo tempo era quello dell’Illuminismo. Dalla sua Königsberg, in una provincia prussiana che oggi è un’enclave russa tra Polonia e Lituania, Immanuel Kant aveva pubblicato a Riga nel 1781, stampata da Hartknoch, la prima edizione della Critica della Ragion Pura, che aveva ritenuto di perfezionare nella seconda edizione del 1787; l’anno successivo aveva dato alle stampe la Critica della Ragion Pratica; il 1790 era stato l’anno della Critica del Giudizio. Kant considerava terminato, almeno nei suoi aspetti essenziali, il programma di analizzare la ragione con gli strumenti che essa stessa ha come propri. E possiamo qui intendere per “ragione”, in senso molto ampio e probabilmente piuttosto impreciso, la capacità di esprimere un ragionamento logico (qui penso a una logica causa-effetto), di risolvere problemi, di valutare, di criticare, di raggiungere una comprensione concreta e verificabile del mondo. Per Kant la ragion pura concerne il modo in cui l’essere umano si accosta alla conoscenza del mondo, la sua critica è quindi l’analisi di ciò che possiamo conoscere, e in questo Kant trasferisce l’attenzione sul soggetto della conoscenza, piuttosto che mantenerla tradizionalmente sull’oggetto; pratica è la ragione che ha a che fare con l’agire etico e accetta principî indimostrabili perché convenienti in pratica; ciò che concerne il giudizio ha a che fare con questioni estetiche e teleologiche e quindi coinvolge aspetti individuali (il gusto), in un’azione riflessiva dell’espressione critica, ma con un potenziale contenuto di universalità. Il programma di Kant, che ha profondamente influenzato la filosofia successiva, si era potuto sviluppare proprio nella quiete della provincia e per l’opera di un genio in provincia, cioè lontano dall’azione diretta dalle mode e dalle suggestioni dei centri culturali del tempo. Non so quanto Goya fosse a conoscenza dell’opera di Kant, che comunque divenne in breve uno snodo essenziale negli ambienti intellettuali tedeschi, sia pur con non limpide iniziali interpretazioni. Comunque sia, dato che nelle intenzioni di Goya il portfolio era dedicato alle miserie umane, possiamo ragionevolmente intendere che la ragione cui si riferiva sia quella discussa da Kant nella Critica della Ragion Pratica, quella che si riferisce all’agire etico: “agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo”, scriveva Kant. E in questo assegnava un valore universale alla dignità (è, infatti, Würde il termine che usa).

Chi sono quindi i mostri generati dal sonno della ragione? Possiamo pensare a una versione storicizzata della definizione di mostro ma ciò potrebbe non bastare perché la questione coinvolge il problema della natura ontologica del male. Se ci limitiamo a esempi storici, possiamo pensare al nazismo come sonno della ragione che dobbiamo specificare essere nel senso kantiano perché anche il nazismo propugnava una sua “ragione” (se così la vogliamo chiamare) che aveva radici – tra altre cose – sia nella psicologia personale degli esecutori, deviata invero, la Storia insegna, sia in forme di frustrazione aggressiva di natura collettiva emerse dalle conseguenze della prima guerra mondiale, di cui la seconda è intesa talvolta come completamento, sia in correnti esoteriche e occultiste. Di queste ultime c’era una certa moda nell’Europa del tempo: Crowley, madame Blavatsky, Steiner, Gurdjiev; nella seconda parte del settecento in arte e in poesia c’era stato soprattutto William Blake – e di quest’ultimo ci sono echi moderni non trascurabili in Milosz (ad esempio nel suo La terra di Urlo). Theodor Adorno sosteneva che l’esoterismo è la metafisica degli imbecilli. Michele Mari, nel suo Tutto il ferro della Torre Eiffel (un romanzo riuscito, pieno di forza letteraria, di cui è veramente arduo dare una sommaria descrizione della struttura che sia al tempo stesso soddisfacente), sostiene, citando la posizione di Adorno sull’esoterismo, che comunque da un punto di vista ontologico e veritativo non lo possiamo ignorare. Nello stesso romanzo, Mari fa dire a Walter Benjamin, scelto come protagonista-pretesto, che Adorno lo guardava come un imbecille quando egli, Benjamin, gli raccontava di gesti apotropaici, non riuscendo Adorno a “comprendere come un laico potesse essere superstizioso, quando l’essenza del laicismo è la superstizione” (p. 220).

Ragioni storiche e psicologiche (sia personali sia di massa, ripeto) hanno fatto sì che l’irrazionalismo, l’occultismo e il wotanismo in particolare emergessero e influenzassero il nazismo, fossero, cioè, riferimenti e sorgenti di stimolo per immagini, istinti, che spinsero oltre “il patto che unisce la società”, sebbene con apparente e furioso rigore burocratico, proprio in un momento di esplosione soprattutto in Germania della scienza, di affermazione di correnti filosofiche razionaliste, come tutto quanto andava a Vienna da Carnap a Frege, soprattutto a Wittgenstein per profondità e qualità del risultato nell’analisi del linguaggio, quella che invece non emerge nella critica kantiana ma che è necessaria nella discussione sulla natura della ragione.

Il nazismo è un esempio evidente, disgustoso nelle sue manifestazioni, ma vi sono miriadi di altri esempi possibili di sonno della ragione, esempi che possiamo riscontrare nello svolgersi del giorno, taluni enfatici, altri minimi, subdoli, ma comunque mostri nell’accezione di Goya. Discutere di “sonno della ragione”, nel senso espresso da Goya nel suo portfolio, implica un fattore etico, o meglio la visione etica dell’impianto concettuale di cui si parla di volta in volta. Anche quando si afferma che non è compito dello Stato indicare nel diritto l’applicazione di standard morali (come si discute oggi in Germania) si cade in una contraddizione in termini. Ogni norma del diritto emerge dalla visione che si ha del patto sociale che istituisce e quindi definisce, nel così fare, la società. E questa visione è intrinsecamente etica e per questo emana una norma morale. Il problema è stabilire quale “tipo” di etica e/o di moralità. È questa una scelta che diventa politica. Quest’ultima, però, ha a che fare più con la percezione che si ha dei fatti che con i fatti stessi. Un politico, più di azioni “concrete” (che pur fa), tendenzialmente cerca di creare un clima. Anche questa è un’azione concreta, per così dire, ma ha un’intrinseca volatilità, è un’esperienza fluttuante più che una norma, uno statuto, un’opera pubblica tangibile e fruibile. Ed è proprio il desiderio preminente di creare un clima, il consenso, che può portare il politico a diventare essenzialmente un manipolatore delle coscienze altrui, indirizzandolo così al sonno della ragione propria e degli altri, la ragion pratica discussa dal pensiero critico di Kant sul cui epitaffio appaiono le due cose che gli riempivano “l’animo di ammirazione e di venerazione sempre nuova e crescente: il cielo stellato sopra di me, la legge morale in me”.

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