Memorie della rivoluzione

di Paolo Maria Mariano

Luis Sepúlveda è cileno; ha sessantacinque anni e tratti somatici che ricordano gli indios andini, ma ha origini andaluse.  È tornato in Spagna dopo vario vagare tra l’Europa – soprattutto Amburgo e Parigi, che appaiono e scompaiono spesso nei suoi scritti da prima di Un nome da torero a Diario di un killer sentimentale e oltre – e l’America del Sud, dalla Bolivia al Brasile, all’Uruguay, al Paraguay, al Nicaragua, esule dal Cile dove il governo di Pinochet lo aveva incarcerato e poi liberato per le pressioni internazionali, per poi incarcerarlo nuovamente e infine mandarlo in esilio per la rinnovata azione di Amnesty International. Dal nonno spagnolo, anarchico, Sepúlveda deve aver preso l’inclinazione per i movimenti rivoluzionari d’ispirazione marxista. Che quelle idee, quelle del marxismo-leninismo, quelle della lotta di classe, non si applicassero ai territori dell’America Latina, abitati prevalentemente da popolazioni rurali, legate all’ambiente naturale, gli fu chiaro partecipando a una spedizione dell’UNESCO nei territori degli indios Shuar.

Terminavano gli anni Settanta del Novecento e cominciava un decennio di progressiva foga consumista. Sepúlveda era già stato espulso dalla Gioventù Comunista cilena e aveva finito con l’entrare nel GAP, il Grupo de Amigos Personales, la guardia del corpo di Salvador Allende. Era nel palazzo governativo l’undicesimo giorno di settembre del 1973, quando Allende fu ucciso. Oggi vive in Spagna ed è stato naturalizzato francese.

Non voglio fare qui una biografia di Sepúlveda perché non aggiungerei nulla di quanto non sia già a disposizione, non avendo per mio conto rilevato alcun notizia inedita. Della biografia di Sepúlveda ho indicato, però, alcuni tratti essenziali perché chi un autore sia ha ruolo nella sua opera, dalla formazione alla lettura della stessa. Si potrebbe osservare, invero, che poco importa perché ciò che conta è leggere qualcosa e percepire quanto è scritto sulla pagina, cartacea o elettronica che sia. D’altra parte, però, un testo ha livelli molteplici di lettura, la cui comprensione è condizionata da chi sia il lettore, Habermas ricorda, ma non ultimo da chi sia l’autore e come egli/ella operi. Certamente, anche la scelta dell’anonimato (la finzione dello pseudonimo) indirizza la lettura ma mi rimane il sospetto che la conoscenza di alcuni elementi riguardanti chi sia l’autore, pur influenzando il lettore, chiarisca lo scritto, la sua percezione, più dell’assenza di notizie sull’autore stesso. Così è alla lettura de L’avventurosa storia dell’uzbeko muto, l’ultimo libro di Sepúlveda tradotto in italiano e pubblicato nel 2015 da Guanda, il suo editore italiano. Si tratta di una raccolta di racconti tutti ambientati nel periodo in cui il Cile vedeva scontrarsi due politiche opposte, la dittatura di stampo militare, l’emergente socialismo di Allende, che fu soffocato nella dittatura, quella di Pinochet.

La conoscenza dei lineamenti della biografia di Sepúlveda, incluso il periodo da studente nell’Università dell’Amicizia tra i Popoli Patrice Lumumba, a Mosca, dove i giovani latinoamericani arrivavano per “una borsa di studio vinta nel paese d’origine come militanti delle Juventudes Comunistas o una borsa di studio ottenuta dai genitori tramite amicizie comuniste il cui scopo principale era distogliere i figli dall’irresistibile richiamo rivoluzionario lanciato da Cuba e dalle lotte guerrigliere nelle selve e nelle città latinoamericane” (pp. 25, 26), permette di presumere l’origine non tanto velata dell’ispirazione di questi racconti. Così affermazioni riferite all’ambiente moscovita, quali “nel paese dell’uguaglianza alcuni erano più uguali di altri” nascono non tanto da una contrapposizione ideologica di principio, quanto da una vista da dentro, nata da una posizione di aderenza, spostatasi poi verso simpatie per la dissidenza che decretarono l’espulsione di Sepúlveda da Mosca. Non si tratta di quella che è definita oggi anche in italiano “autofiction” con sintetico e forse inutile anglismo: l’agiografica o tragedizzata o semplicemente variata, dichiaratamente mistificatoria ed esplicita narrazione della propria biografia. Né tantomeno si tratta del dichiarare che è invenzione quando poi si riportano pedissequamente le proprie vicende personali declinando nell’autoesaltazione indiretta. Nei due casi, infatti, istintivamente l’attenzione non è tanto sul contenuto concettuale di ciò che si dice, né sull’espressione, sul lavoro riguardante la lingua, la concatenazione sintattica dei significati, il ritmo della scrittura, l’interazione “musicale”, per così dire, tra suono delle parole e concetti, quanto piuttosto, e spesso esclusivamente, sul sé dell’autore. Certo, si scrive attraverso se stessi e per quanto la struttura narrativa sia invenzione, ciò che emerge nella descrizione dei rapporti tra i protagonisti e tra essi e il mondo è la visione dell’autore o la sua opinione su visioni altre dalle proprie. L’autore non è mai assente, altrimenti non sarebbe autore. Ciò che rende accettabile, se non lodabile, quanto si scrive è la profondità, l’analisi, la necessità del susseguirsi dei concetti, il ritmo, l’armonia della narrazione, sempre che ci si riesca. In altri termini, bisogna almeno non essersi limitati a orecchiare distrattamente ciò di cui si scrive. Non è il caso di Sepúlveda che invece conosce bene, si può presumere dalla sua biografia, la sostanza della materia che sorregge i nove racconti de L’avventurosa storia dell’uzbeko muto.

Sepúlveda ha il dono della levità e lieve ma sempre presente è la malinconia in tutti e nove i racconti, soprattutto in tutti i personaggi, molti rivoluzionari poco più che adolescenti, tutti idealisti, ognuno a suo modo, qualcuno un po’ pasticcione, qualche altro ingenuo, qualcuno lì quasi ci fosse per caso come Bichito che, al contrario del nome, insetto, era bella e che un giorno, quando ammazzarono il Chino, forse l’unico motivo per cui Bichito era lì, per lei “l’universo si fermò, stanco di spingere le galassie, e cessò ogni movimento. Così Bichito rimase lì a guardare senza vedere […] immune al ricordo ardente, in salvo dal gelido oblio” (p. 67).

Il vento dell’ideale delle rivoluzioni pare sparire quando se ne va la gioventù e quando si finisce sotto terra. Ne trae vantaggio chi viene dopo a occupare i luoghi di potere lasciati vuoti da qualcuno meno avveduto che ha fatto il lavoro di liberarglieli. Se ne duole chi ricorda chi è scomparso nel conflitto, da qualunque parte egli/ella stesse.  Alla fine, forse l’unico motivo per il quale può valere la pena talvolta combattere è quello che emerge nel racconto conclusivo, L’ultimo combattimento di Pepe Södertälje, quello del protagonista, José Ramón Ramírez Cambia: “non lottava per la libertà, ma per non dimenticare che era un uomo libero, non lottava per la giustizia, ma per non dimenticare che era un uomo giusto” (p. 136). Il resto, in queste cose, conta meno.

 

 

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