La poesia della lontananza

di Antonio Prete

La parola lontananza mi ha sempre colpito, insieme con altre parole della nostra lingua che hanno la terminazione in –anza: per esempio, ricordanza. Ho messo in rapporto lontananza con ricordanza, giacché molti anni fa me ne sono occupato a proposito di Leopardi. Mi sono accorto allora che la parola lontananza, come ricordanza, dice un movimento.
Dire ricordanza è diverso che dire ricordo. Il ricordo è ciò che prende forma e si presenta quasi come solidificato, definito. I francesi dicono souvenir. Noi stessi diciamo “ti ho portato un souvenir”, cioè ho reso oggetto un ricordo. Ma ricordanza indica invece il ricordo nel suo movimento verso il farsi forma, presenza. Leopardi dà molto rilievo alla ricordanza e scrive un noto testi poetici Le ricordanze, dandone questa definizione nello Zibaldone: “Non la rappresentazione di una cosa, ma il riflesso, la ripetizione, la ripercussione di un’immagine antica”, cioè qualcosa che dall’antico torna nel presente. La ricordanza per Leopardi è qualcosa che si muove, che esce dalla prigione dell’oblio, dal chiuso della dimenticanza, e torna a pulsare, a prendere vita: “Silvia, rimembri ancora…”. Silvia torna a prendere presenza, lei che non c’è più ritorna a vivere, a pulsare, ridiventa figura, ma non è vita nel senso comune, è un’altra vita, la vita della poesia, Silvia entra nel tempo della poesia. La poesia riesce ad annullare l’irreversibilità del tempo – questa è una caratteristica del tempo riconosciuta da tante filosofie e anche dalla fisica quantistica contemporanea; la tecnica è tanto avanti, ma la macchina del tempo non è stata ancora inventata -, a bucarla, a cancellarla, perché il tempo irreversibile torna nella lingua, assumendo la figura del ritmo della poesia, immagine, Leopardi diceva parvenza. Analogamente, lontano indica qualcosa che non è presente, è assente, e che sta lì, fuori del nostro orizzonte, mentre il termine lontananza indica un movimento del lontano verso la figura, la forma, ciò che non c’era, che non appariva, che non esisteva alla vista, e che appare, prende forma, si fa presente: questa è la lontananza. Una linea di confine, un orizzonte che man mano per me diventa una figura di presenza.

La letteratura, la poesia, le arti figurative danno a questo movimento tutto il loro tempo e spazio, ecco perché il lettore che legge un libro in cui si parla di terre lontane vive con la sua immaginazione in queste terre lontane. Oggi accade che la lontananza, che è così presente attraverso la tecnica, rischia di essere frantumata, dispersa, non percepita, non attraversata, viene dissipato lo spazio-tempo della lontananza. Noi viviamo nella tecnica della lontananza: l’avverbio greco tele vuol dire lontano e va a definire tutti gli strumenti, tutte le tecniche contemporanee che ci avvolgono: la telematica, il telefono, la televisione, le telecomunicazioni. Siamo in un universo della rappresentazione del lontano, perché la tecnica porta nelle nostre case, davanti ai nostri occhi il lontano. Dobbiamo chiederci se questo lontano riesca davvero a tenere aperto il tempo e lo spazio della lontananza. Se voi scorrete un dizionario della lingua greca trovate moltissime parole composte con l’avverbio tele. Le connotazioni di queste parole sono assai varie. Tele va a definire dei gesti, delle situazioni, popolazioni, suggerisce un movimento dell’immaginazione. I greci parlavano di ciò che ciò che appare, si mostra da lontano, risuona da lontano, ciò che attraversa luoghi lontani, ciò che porta qualcosa lontano, ecc. Oggi tele accompagna la tecnica, che potrebbe dare respiro allo spazio e al tempo della lontananza. Ciò può accadere se la tecnica guarda alle arti. Nel mio Trattato della lontananza c’è un capitolo, Come dipingere la lontananza, che riguarda proprio il modo in cui è stata rappresentata la lontananza nella pittura, da Leonardo da Vinci fino alla pittura del Novecento. Il problema è che la tecnica del nostro tempo mira alla rapidità, cioè non si dispiega come tempo e come spazio, ma mira al consumo rapido, sicché presenta un’immagine e subito dopo un’altra immagine che cancella o opacizza la prima e così via. Non si tratta di opporre l’arte della lontananza alla tecnica della lontananza, dicendo che la prima è positiva e l’altra no, si tratta di invitare tutti gli operatore della tecnica della lontananza, delle telecomunicazioni, a studiare la storia dell’arte, della letteratura e della poesia per prenderne dei suggerimenti su come rendere la lontananza vivibile, attraversabile, transitabile, e non consumabile.

Vorrei dire qualcosa su qualcuna delle figure della lontananza.

Innanzitutto, l’addio. Mi sono accorto che questa era una figura su cui mi fermavo di più. L’addio è il luogo in cui la lontananza si presenta come ombra, come minaccia, la lontananza non c’è nell’addio, siamo lì a salutarci, siamo lì a dire addio, siamo sulla soglia di una partenza, c’è la presenza dell’altro, del paesaggio che conosciamo, eppure c’è già insinuata la lontananza come ombra, come minaccia, come possibilità, la lontananza di sé dalla persona e dal luogo da cui si parte. Tant’è che negli addii noi cerchiamo di eliminare la distanza, lo spazio, con l’abbraccio, il bacio, che sono figure della corporeità tendenti ad esorcizzare la lontananza, come dire: qui tra me e te non entra la distanza, lo spazio, e quindi c’è un’affermazione della vicinanza, proprio perché si sente la minaccia della lontananza. Mentre scrivevo il Trattato della lontananza, mi accorgevo che, intorno a queste figure, c’erano delle implicazioni mie personali, affettive; qui ci sono i miei fratelli, i miei nipoti che conoscono le mie tante partenze… e i ritorni. Nessuna partenza è uguale ad un’altra. Non è possibile replicare la stessa partenza.

Un’altra figura della lontana è l’orizzonte. Il luogo dove il visibile e l’invisibile si uniscono, la terra e il cielo si uniscono, l’orizzonte è il celeste, poi l’estremo confine, infine l’ultimo orizzonte, diceva Leopardi, l’estremo punto dove arriva la vista. Ma ogni orizzonte comporta anche l’oltre, l’orizzonte è il richiamo di ciò che sta oltre. L’orizzonte non è mai prossimo a noi, è ciò che è sempre lontano, tiene aperta la sua lontananza, perché non può mai essere vicino a noi, noi andiamo verso l’orizzonte e l’orizzonte si allontana. Studiare le rappresentazioni dell’orizzonte nella letteratura significa attraversare il pensiero del confine, del limite, del rapporto tra visibile invisibile, tra il qui e l’oltre, ecc. In questo attraversamento soccorrono i poeti e gli scrittori.

Nel Trattato della lontananza ho scritto della pittura. Come dipingere la lontananza è il problema che ha posto Leonardo da Vinci, in maniera molto assidua. Se voi leggete il Trattato della Pittura, che sono i frammenti didattici che hanno raccolto gli allievi di Leonardo, vi accorgete dell’ossessione che Leonardo aveva per questo problema: come dipingere la lontananza. Leonardo si stacca da tutta la tradizione pittorica precedente, anche dai fiorentini come Botticelli, perché dà alla lontananza una presenza. La lontananza non è più lo sfondo, il paesaggio di sfondo, essa è il soggetto della pittura. Ciò che è lontano è presente quanto ciò che è in primo piano. Lo studio della lontananza in Leonardo è sorprendente: tutte le osservazioni, come dipingere le montagne, quando c’è la nebbia, all’alba, al tramonto, quando l’orizzonte si arrossa tra le nuvole, le montagne più alte, quelle più basse, i castelli, gli edifici in rapporto alle montagne, i fiumi osservati da lontano, e così via, osservazioni minuziose e preziosissime, testimoniano che dipingere la lontananza è la grande questione del pittore. Dare alla lontananza vita, vibrazione, tensione. Ho cercato di seguire questo svolgimento del lontano nella pittura dei secoli dopo Leonardo, fino al Novecento, dagli impressionisti, da Turner fino a Monet, a Magritte, Matisse, De Chirico, ecc.

La lontananza non è solo lontananza nello spazio, ma anche lontananza nel tempo. Siamo lontani da un tempo che abbiamo vissuto. Uno dei capitoli del Trattato è dedicato alla nostalgia e all’esilio, proprio perché la nostalgia è lo spazio-tempo di questa distanza da qualcosa che abbiamo vissuto e non possiamo più rivivere. Di nostalgia, come diceva il filosofo Kant nella sua Antropologia del 1798, non si può guarire. A noi sembra di avere nostalgia di un luogo, di un paese in cui siamo stati e in cui abbiamo vissuto, in realtà abbiamo nostalgia del tempo vissuto in quel paese, e quando torniamo in quel paese il tempo, quel tempo non c’è più, perché noi non siamo più quelli di un tempo, siamo cambiati. Noi siamo cambiati come è cambiato quel luogo. Ecco perché è importante che la nostalgia si affidi alla narrazione, al racconto, ecco perché del nòstos si può dare narrazione per evitare la chiusura nella patologia della nostalgia. E così è importante che si racconti la lontananza. L’esiliato, per esempio, è colui che attraverso il linguaggio, la lettera, la scrittura, il racconto ecc. riesce a sopportare la sua condizione di distanza da un  tempo-spazio nel quale non potrà forse mai tornare.

Ho chiuso il Trattato con la figura della lontananza estrema, la morte, la lontananza delle ombre, la terra ombrosa, le ombre dell’aldilà, la lontananza raccontata da Omero nell’Odissea, libro XI, e poi ripresa da Virgilio nel VI libro dell’Eneide, quando Enea va a trovare l’ombra di Anchise. Da questa lontananza estrema è possibile guardare la vita. Pensate a Leopardi, che nel coro dei morti – bellissima poesia, andrebbe posta tra i Canti – dell’operetta morale intitolata Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie. Nell’anno matematico le mummie si risvegliano nel gabinetto scientifico di Federico Ruysch e cantano un loro coro, un coro messo in musica dal grande musicista Petrassi. Questi morti parlano della vita osservata dal loro punto di vista, da uno stato d’ombra in cui la vita diventa “quel punto acerbo che di vita ebbe nome”. Questo punto di osservazione lontano Leopardi lo ricerca sempre, cerca un punto di lontananza estremo da cui osservare se stesso e il mondo: pensate alla Ginestra, lo sguardo che vaga in quei nodi di stelle. Lo sguardo vede la storia dell’uomo nella sua finitezza, nella sua vanità, nella sua pretesa, da questa lontananza estrema la Terra appare un granello di sabbia. Questa dislocazione dello sguardo in un luogo di lontananza estrema è un punto di vista filosofico, è un modo per conoscere l’esistenza, per leggere il mondo e la vita e le sue pieghe, non nelle sue implicazioni prossime, ma attraverso un distanziamento il più possibile estremo. Da tutto questo nasce la poesia della lontananza.

 

[Testo raccolto da Gianluca Virgilio il giorno 27 dicembre 2008 durante la presentazione a Galatina de Trattato della lontananza, Bollati Boringhieri 2008, e pubblicato ne “il filo di aracne”, anno IV – n. 1, gennaio-febbraio 2009, pp. 24-26.]

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