Il reddito di cittadinanza non basta!

di Guglielmo Forges Davanzati

La vittoria del Movimento 5 stelle alle elezioni dello scorso 4 marzo sollecita un approfondimento sulla loro principale proposta di politica economica, ovvero l’istituzione del reddito di cittadinanza. Va preliminarmente chiarito che una misura simile già esiste in Italia. Si tratta del c.d. reddito di inclusione (REI), istituito con il c.d. “ddl povertà” nel marzo 2017. Il reddito di inclusione è una misura di contrasto alla povertà dal carattere universale, condizionata alla valutazione della condizione economica. I cittadini possono richiederlo dal primo dicembre 2017 presso il Comune di residenza o eventuali altri punti di accesso che verranno indicati dai Comuni. Il REI prevede l’erogazione di un assegno mensile commisurato all’ISEE (in una misura non superiore a seimila euro annui) e un progetto personalizzato di inclusione sociale gestito dal Comune. Si può anche ricordare che la Regione Puglia, prima del Governo italiano, ha istituito una misura assai simile, denominata reddito di dignità. Il reddito di cittadinanza (RC), così come concepito dagli economisti che, in sede internazionale, lo hanno proposto, in particolare il belga Philippe van Parijs è un importo monetario erogato a tutti, non condizionato alla ricerca di lavoro, e prescinde dal reddito. Questa proposta trova la sua ratio nella congettura per la quale i processi di robotizzazione in atto (dunque la sostituzione di lavoro con macchine), generando disoccupazione tecnologica, possono produrre crisi da sovrapproduzione in assenza di una domanda che assorba le eccedenze di produzione. E’ bene chiarire che si tratta di una congettura e che, al momento e con riferimento all’Italia, il fenomeno è pressoché inesistente. E’ anche da notare che in questa accezione, il RC non ha mai avuto applicazione, salvo un’attuazione sperimentale in Finlandia. Il RC nella proposta del Movimento 5 stelle può essere concepito come un’estensione (per platea di beneficiari e ammontare del sussidio) del REI. Quali effetti macroeconomici potrebbe generare?

1) Un primo effetto atteso è il miglioramento della qualità della ricerca del lavoro. Individui privi di redditi non da lavoro sono sempre più spesso costretti ad accettare la prima offerta di posto di lavoro, che, soprattutto nel Mezzogiorno, è spesso irregolare o – nella migliore delle ipotesi – erogata in condizioni di sottoccupazione intellettuale.

2) Ci si può poi attendere che svolga la funzione di “stabilizzatore automatico”. In altri termini, nelle fasi recessive del ciclo, quando il tasso di disoccupazione aumenta, i consumi si riducono meno di quanto si ridurrebbero in assenza di una fonte di reddito automaticamente garantita (anche) ai disoccupati. In tal senso, si configura come una misura di sostegno della domanda.

3) E’ poi verosimile aspettarsi un miglioramento della coesione sociale, dal momento che migliora il tenore di vita di individui precedentemente percettori di redditi bassissimi – anche se lavoratori (i c.d. working poors) – molto spesso al di sotto di una soglia socialmente considerata dignitosa.

Le criticità del provvedimento non riguardano principalmente l’individuazione delle sue ‘coperture’ finanziarie. Per molti aspetti, la questione dell’individuazione delle fonti di finanziamento della spesa è fuorviante, dal momento che – pur in presenza di vincoli all’espansione della spesa derivanti dai Trattati europei – esiste un ampio margine di manovra in relazione alla gestione della spesa pubblica e della tassazione. In altri termini, la questione delle coperture attiene a un problema di allocazione della spesa pubblica fra obiettivi diversi e, dunque, non è un problema tecnico, ma propriamente politico: a titolo esemplificativo, il decisore politico potrebbe scegliere di ridurre le spese militari e di destinare questi risparmi per altri obiettivi.

La vera criticità del provvedimento riguarda semmai il fatto che non riesce a contrastare il drammatico declino della produttività del lavoro, che è all’origine della crisi dell’economia italiana.

Per comprendere questo problema, si parta dal presupposto che le caratteristiche strutturali dell’economia italiana sono fondamentalmente queste. L’Italia ha una struttura produttiva fatta da imprese di piccole dimensioni, poco innovative, poco esposte alla concorrenza internazionale, collocate in settori ‘maturi’ (agroalimentare, turismo e beni di lusso); è un’economia dualistica, nella quale le divergenze fra macro-aree sono state, se non per pochi anni, costantemente in crescita; l’Italia ha registrato – e registra – un’evasione fiscale sistematicamente più alta della media dei Paesi OCSE; è un Paese importatore netto di materie prime e da almeno un ventennio ha visto crescere la sua domanda interna a tassi sistematicamente più bassi della media dei Paesi OCSE. A ciò si aggiunge che l’economia italiana ha storicamente sperimentato una dinamica dei consumi più bassa nel confronto con i principali Paesi industrializzati. Il che può essere spiegato alla luce del fatto che i) essendo un Paese late comer nel processo di industrializzazione, ha registrato una dinamica della propensione al risparmio sistematicamente maggiore di quella della media OCSE; ii) l’Italia è il Paese che ha dato il maggiore impulso alle politiche di precarizzazione del lavoro che, di norma, si associano a riduzioni della propensione al consumo. Non da ultimo, l’Italia ha da molti anni un rapporto debito pubblico/Pil superiore alla media europea.

Per ricostruire la spirale viziosa che ha caratterizzato l’economia italiana nell’ultimo ventennio, è opportuno individuare le cause che hanno generato il costante declino della domanda interna. Lo si può fare a partire dalla considerazione che, a partire dagli anni ottanta, si è assecondata una specializzazione produttiva – il c.d Made in Italy – che non richiede rilevanti innovazioni tecnologiche (e che, dunque, non richiede rilevanti importazioni di materie prime e macchinari), e che deriva da produzioni generate per lo più da imprese di piccole dimensioni. I Governi che si sono succeduti almeno a partire da quel periodo hanno dunque rinunciato ad attuare politiche industriali, confidando nella presunta “vitalità” della nostra imprenditoria. D’altra parte, poteva sembrare, in quegli anni, una scelta scontata, legittimata dalla teoria del “piccolo è bello”, ovvero dalla convinzione che le piccole imprese possono essere molto produttive a ragione dei rapporti di cooperazione fra loro (nei c.d. distretti industriali) e dei rapporti cooperativi fra lavoratori e datori di lavoro. La costante riduzione della domanda interna è derivata (e deriva), dunque, non solo da riduzione dei consumi e degli investimenti privati, ma soprattutto da riduzioni della spesa pubblica e continui aumenti della pressione fiscale. Con riferimento a quest’ultimo aspetto, si può considerare che un’elevata evasione fiscale implica una redistribuzione dell’onere fiscale a danno dei percettori di redditi bassi, dal momento che, di norma, si tratta di redditi tassati “alla fonte”. Quest’ultima considerazione contribuisce a spiegare per quale ragione l’Italia ha sperimentato (e sperimenta) le maggiori diseguaglianze distributive fra i Paesi OCSE.

La proposta del Movimento 5 stelle – sebbene possa essere valutata positivamente in quanto misura di contrasto alla povertà – è discutibile in quanto sconta un problema di ordine più generale, che attiene al modo in cui, fin qui, il Movimento ha analizzato il declino italiano. Lo ha analizzato a partire da categorie morali (da qui, ad esempio, l’attacco alla Casta), lasciando in secondo piano – o ignorando del tutto – i problemi connessi alla crescente fragilità del sistema produttivo e alla continua caduta del tasso di crescita della produttività del lavoro. Solo da pochi mesi, a seguito dell’indicazione dei (possibili) futuri Ministri, si è preso atto che di per sé il RC non è sufficiente e che va associato a un programma più ampio di potenziamento degli investimenti pubblici nei settori strategici dell’economia italiana. In questa prospettiva, il RC può agire come strumento di crescita non solo della domanda interna ma anche della produttività del lavoro, se finalizzato a contrastare le migrazioni giovanili e a promuovere l’inclusione nel mercato del lavoro di individui giovani con elevato potenziale produttivo, potendo così essere considerato anche come un intervento dal lato dell’offerta, come stimolo per la riqualificazione della domanda di lavoro espressa dalle imprese.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, venerdì 16 marzo 2018]

 

 

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