L’eterna compagnia delle poesie imparate a memoria

di Antonio Errico

Quando venne l’ultimo giorno di scuola, il maestro ci diede come compiti per il tempo dell’estate, qualche esercizio di grammatica, qualche altro di aritmetica, e alcune poesie da imparare a memoria.

Passò tutto il mese di giugno, poi passò luglio, agosto, settembre. Tornammo a scuola il primo di ottobre e il maestro ci chiese di mettere sul banco il quaderno con gli esercizi di grammatica e quello con gli esercizi di aritmetica.

Gli anni Sessanta si avviavano al finire. I tempi erano quelli di tutta un’altra storia. Erano tempi che trovavano il loro specchio in quell’incipit delle Due città di Charles Dickens: era il migliore di tutti i tempi, era il peggiore di tutti i tempi, era il secolo della saggezza, era il secolo della follia, era l’epoca della fede, era l’epoca dell’incredulità, era la stagione della Luce, era la stagione delle Tenebre, era la primavera della speranza, era l’inverno della disperazione, avevamo tutto dinanzi a noi, non avevamo nulla dinanzi a noi, andavamo dritti dritti al Cielo, andavamo dritti dritti dall’altra parte.

Insomma, i tempi erano così: svagati, incerti, ansiosi, travagliati, sereni. Come questi tempi.

In classe eravamo trenta. Forse anche due di più. Nessuno dei trenta e dei forse due di più aveva fatto i compiti per l’estate. Non avevamo portato a scuola neppure i quaderni.

Allora il maestro si mise davanti alla finestra e cominciò a pulire le lenti degli occhiali. Poi a uno chiese di alzarsi in piedi e recitare a memoria qualcuna delle poesie che aveva imparato. Uno se ne stette seduto, immobile, senza fiatare. Poi all’altro chiese la stessa cosa. L’altro fece quello che aveva fatto uno. E poi un altro, un altro, poi un altro ancora. Nessuno aveva imparato neppure una poesia a memoria.

Il maestro continuava a guardare fuori dalla finestra.

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