Ragionando intorno ai limiti del linguaggio e ai principi fisici

L’affermazione, però, richiede cauta valutazione. Un’analisi superficiale di essa, infatti, porterebbe a sterile arbitrarietà delle interpretazioni e delle descrizioni dei fenomeni, senza alcuna distinzione di valore; proprio quell’arbitrarietà che viene, in contesti diversi, spesso sostenuta da strutture di potere aliene a qualcosa che si possa chiamare etica positiva (e costruttiva), che cercano di organizzare (perfino creare a propria immagine) la realtà ed il valore delle cose, per puri motivi di convenienza materiale o ideologica, a seconda dei casi. Non voglio qui, infatti, sostenere l’equivalenza di possibili interpretazioni e descrizioni del mondo fenomenico. Se lo si riferisce alla descrizione dei fenomeni fisici, il mio che appare nelle parole di Wittgenstein è da intendersi in un qualche senso statistico. È quindi correlato ad un osservatore (inteso come complesso umano) che in una data epoca e con certi mezzi di indagine, anch’essi frutto d’una preliminare interpretazione del mondo, valuta certi eventi fisici, li classifica e cerca di analizzarli. Le medie che emergono dall’analisi statistica dei dati sperimentali indirizzano in qualche modo lo stato della conoscenza della natura che in un dato momento storico è disponibile. In questo senso “il mio mondo” è da intendersi come la conoscenza del mondo a disposizione dell’essere umano in un dato momento. Il solipsismo che Wittgenstein attribuisce all’interazione del singolo con il linguaggio che gli compete trasla quindi all’umano genere e si manifesta nell’atto della conoscenza. I limiti insiti in quest’atto e l’esperienza dello svilupparsi dei fenomeni spingono chi investiga a stabilire principi che delimitano gli ambiti del suo operare, i limiti del suo discorso sugli oggetti della sua analisi.

Vari principi possono essere adottati per costruire modelli di ampie aree di fenomeni naturali, quali ad esempio le manifestazioni della materia condensata, la cui descrizione ha ricadute tecnologiche spesso quasi immediate. Differenti principi possono dar luogo a strutture concettuali – modelli, quindi – che forniscono risultati analoghi nell’analisi di problemi specifici. Modelli diversi possono poi risultare dagli stessi principi, a seguito di successive ipotesi più tecniche che ne delineano ulteriormente la natura. Un problema è quindi la scelta tra modelli in qualche senso equivalenti. L’elemento che può essere discriminante è l’indicazione di William of Ockham, un antico monaco francescano che calpestò varie terre d’Europa tra il 1288 ed il 1348, dai cui scritti emerge il suggerimento che gli enti fondanti un discorso interpretativo non debbano essere moltiplicati senza necessità (il rasoio di Ockham). Il punto di vista appare direttamente o indirettamente nel discorso scientifico, dove viene talvolta considerato come riguardante il numero di particolari entità (principi o altro) coinvolte, talaltra riferito al tipo di entità. Il suo uso, però, invita alla prudenza perché il rasoio può generare dilemmi epistemologici: è una riduzione progressiva che tende ad un minimo (di concetti) assoluto. Forse è più appropriato pensare che il rasoio di Ockham debba essere usato in riferimento all’intero processo cognitivo, includendo i vincoli che esso comporta (il grado di approfondimento che si decide di dare alla descrizione di una qualche aspetto di ciò che si analizza, ad esempio) e da essi sia limitato.

La scelta dei principi impone un punto di vista e quindi delimita il discorso sulla natura. La loro espressione in termini matematici genera strutture linguistiche. Nell’intendere la matematica come un linguaggio, sebbene con un qualche statuto speciale perché è l’unico ad avere naturalmente in se stesso caratteristiche sia qualitative che quantitative, si può vedere come sia proprio questo suo aspetto a dare una qualche indicazione sulla sua efficacia descrittiva nella rappresentazione dell’universo dei fenomeni. La ragione risiede nei limiti del linguaggio, per come Wittgenstein ne sottolineava la natura nello scrivere che “ciò che nel linguaggio esprime sé noi non lo possiamo esprimere attraverso il linguaggio” (Tractatus, (4.21).  Nel commentare il Tractatus, Pierre Hadot annota che “perché il pensiero possa rappresentare la realtà, è necessario che le proposizioni attraverso le quali vogliamo rappresentare la realtà abbiano la stessa struttura della realtà, che gli elementi che compongono la proposizione siano cioè tra loro nella stessa relazione in cui si trovano gli elementi della realtà (2.15). Questa identità di struttura è quello che Wittgenstein chiama forma logica (2.2 sgg.). Un’immagine può essere una rappresentazione veritiera oppure inesatta. Se rappresenta qualcosa, ha un senso possibile. Se non rappresenta nulla, non ha senso. Ed essa può rappresentare qualcosa soltanto se ha una certa comunità di forma con la realtà rappresentata. Parimenti, la proposizione ha senso solo se ha una certa comunità di forma con la realtà, se ha una forma logica (4.01 e sgg.)” (P. Hadot, Wittgenstein e i limiti del linguaggio, Bollati-Boringhieri, 2007, p. 32).

L’analisi wittgensteiniana della corrispondenza tra la forma logica ed i fatti fisici e le correlate osservazioni di Hadot sono basate sull’ipotesi essenziale dell’esistenza del mondo fisico fuori di noi. La questione della natura sostanziale oppure elusiva, immaginativa, quindi, del mondo fisico, o meglio, della nostra osservazione – che è essenzialmente rappresentazione – di esso si candida ad essere indecidibile. Quanto appare ai sensi dell’osservatore è per lui il mondo fisico e quindi costui, tendenzialmente, non rinuncia alla sua azione investigativa. Oltre ad avere natura rappresentativa, l’osservazione serve a dare forma logica all’insieme dei fenomeni. I dati dell’osservazione sono ottenuti attraverso il filtro del sistema cerebrale dell’uomo che guarda o che perfino crea nuovi fenomeni facendo esperimenti. Quello stesso tipo di cervello ha dato inizio alla matematica, in principio considerata come un modo di far di conto ma poi evoluta nella formulazione e nella connessione di strutture formali astratte. Ed è proprio questa comune origine che – mi pare – possa spiegare l’efficacia della matematica nel descrivere l’insieme dei fenomeni valutati nello sperimentare. Questa efficacia non è quindi relativa alla descrizione del mondo ma a ciò che noi osserviamo e che per noi è il mondo. L’osservazione viene organizzata e gestita dal nostro cervello che è anche il luogo d’origine delle strutture che costituiscono la matematica. Le strutture del pensiero sono il ponte naturale tra osservazione e modello: è lì che si sono stabilite le forme logiche non solo dell’osservazione dei fenomeni ma anche del linguaggio con cui al mondo si guarda. In questo senso si può anche interpretare il punto di vista del primo Wittgenstein quando sostiene che “i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo” (Tractatus, (5.6)), cioè della descrizione e dell’interpretazione di ciò che è percepito dai sensi e dalla loro estensione costituita dagli strumenti, sebbene la costruzione di uno strumento di misura presupponga già una preliminare idea della natura del fenomeno che si intende osservare. I limiti del discorso sui fatti fisici sono quelli dei principi che si adottano e della matematica che si usa. Sono anche i limiti dell’immaginazione del singolo ricercatore, l’immaginazione che crea valore e che vorrebbe abbracciare il mondo, e di esso intendere la forma ultima.

[“Il Riformista” del 29 gennaio 2012, p. 7]

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