La comprensione nella reciprocità di arte e scienza

A meno che non si pensi che l’arte contribuisca a formare una sensibilità affiorante, quella condizione  che consente di lasciarsi attrarre dai riflessi delle cose, di comprendere il linguaggio silenzioso, l’energia  di una metafora.

A meno che non si sia convinti che l’arte insegni ad intercettare la bellezza, che abbia ragione l’imperatore Adriano quando in quello splendore di romanzo scritto dalla Yourcenar dice :“Chi ama il bello finisce per trovarne ovunque, come un filone d’oro che scorre anche nella ganga più ignobile”.

Vengono tempi, alle volte, che domandano una diversa sensibilità, un diverso sentire. Per esempio: il tempo che attraversiamo richiede – reclama – una diversa sensibilità nei confronti della natura: di quella natura che ci appartiene e alla quale apparteniamo, del nostro stesso essere natura. Una sensibilità che si traduca in concretezza d’impegno.

Allora, forse ci si potrebbe domandare se in questo senso l’arte in qualche modo possa servire. Forse potrebbe anche sembrare riduttivo, forse anche banale. Ma per una diversa sensibilità potrebbe anche bastare l’arte di una canzone. “Il vecchio e il bambino” di Francesco Guccini. Oppure potrebbe servire quell’epigramma di Andrea Zanzotto che dice così: “In questo progresso scorsoio/non so se vengo ingoiato/ o se ingoio”. 

L’epigramma di Zanzotto è come un severo ammonimento, un’esortazione, quasi un avviso ultimo, forse anche come una sorta di involontaria implorazione, perché l’irreparabile sia evitato, perché si possa recuperare una coscienza del tempo e del proprio essere nel tempo e per il tempo. Perché probabilmente non c’è progresso senza l’attribuzione di un valore assoluto al legame tra il tempo dell’uomo e quello della terra.

Vengono tempi, dunque, che hanno la necessità urgente di una sensibilità diversa: forse anche di una sensibilità del tutto nuova, compatibile con i fenomeni che accadono, con le circostanze che si verificano. Quello che viviamo è un tempo così. Da ogni parte si sostiene che questo è un tempo di trasformazioni epocali, di nuovi codici, nuovi strumenti, nuovi processi di pensiero, nuovi metodi di applicazione del pensiero, di nuove forme di relazione con il mondo. Di conseguenza è un tempo che ha bisogno di un’altra sensibilità.

Forse solo l’arte e la scienza possono soddisfare questo bisogno. L’arte che non serve e la scienza che serve. L’arte inutile e la scienza essenziale. Serve il loro incontro, il loro dialogo, la loro convivenza, la loro combinazione, l’interferenza, l’integrazione, l’interazione, servono le loro forme metodologicamente differenti di osservare, indagare, interrogare la realtà e di rappresentare l’immaginario, serve la loro ansia di sbrogliare i misteri.

Forse una nuova sensibilità non può che essere l’esito di questa reciprocità di arte e scienza, delle suggestioni e delle certezze che l’una e l’altra riescono a darci, della concretezza e della fantasia di cui sono custodi.

Forse una nuova sensibilità dovrà necessariamente contemperare quelle visioni del mondo che l’arte e la scienza proiettano, le convinzioni e i dubbi che propongono, le ragioni e i sentimenti su cui si fondano, i loro linguaggi diversi, le metafore, le coerenze, le contraddizioni, le loro interpretazioni del passato, del presente, del futuro, i loro tentativi di perfezione, le loro meravigliose imperfezioni.

Una nuova sensibilità significa anche un diverso, nuovo modo di attraversare il tempo che abbiamo, i luoghi che abitiamo, un diverso,  nuovo modo  di confrontarsi con le storie di cui ci ritroviamo ad essere a volte protagonisti appassionati e a volte distratti spettatori. 

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica, 11 luglio 2021]

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