Scritti scolastici e sociali – Anno 2016

Forse poco o niente di questo si può realizzare se non si creano le condizioni perché ciascuno possa mettere a disposizione quello che ha studiato, che ha imparato. La civiltà di un paese non può fare a meno di conoscenze e competenze che siano in grado di garantire un passo adeguato a quello che portano i tempi che vengono. L’alternativa è costituita dalla stagnazione, dalla crisi perenne, o comunque da una estenuante lentezza dei processi di sviluppo, da un perpetuarsi stanco e improduttivo di forme e modelli culturali, sociali, economici, che ammesso (e non sempre concesso ) abbiano prodotto qualche risultato nel tempo passato, in quello presente si rivelano superati o comunque ripiegati sul contingente, finalizzati al temporaneo e tamponante confronto con le emergenze, assolutamente inutilizzabili nella dimensione di futuro. Ma poi, a parte ogni altra considerazione, la mancata valorizzazione dei giovani è una condizione che contrasta con qualsiasi fenomeno naturale, con qualsiasi logica sociale.

Si semina il grano oggi per poterne fare pane domani. Se questo Paese ha pensato – com’era sacrosanto – di seminare attraverso l’istruzione per tutti, attraverso la formazione universitaria e post universitaria, attraverso la specializzazione delle competenze, risulta quantomeno incoerente che poi non trovi le maniere per raccogliere quello che ha seminato. Se questo Paese ritiene che per la crescita sia fondamentale l’eccellenza della formazione, non può permettersi di perdere le intelligenze che sono costrette a cercare all’estero i luoghi e le occasioni per mettere a frutto quello che sanno e sanno fare. Ancora: non può permettersi l’umiliazione sociale della disoccupazione, della sottoccupazione, del precariato.
Si tratta di peccati che una società paga ogni giorno, a prezzo caro.
Lavoro, crescita della persona e crescita del paese sono legati a stretto nodo: un paese non si sviluppa se non si sviluppano le persone che lo abitano, e le persone non possono crescere senza un lavoro che glielo consenta.
Questa Italia ha molte urgenze. Forse non di meno e non di più di quelle che ha ogni altro paese. Forse non di meno e non di più di quelle che ha avuto in altri tempi. L’urgenza del lavoro dei giovani è quella che da decenni prevale su ogni altra, perché da quella dipendono tutte o quasi tutte le altre. Allora si devono creare le condizioni che permettano di affrontare il problema in modo sistematico e costante fino a sottrarlo alla categoria dell’urgenza. Se si risolvesse questo problema, probabilmente molte altre urgenze si risolverebbero per naturale conseguenza.
Questo pensa e dice qualsiasi cittadino, ogni giorno: qualsiasi cittadino che abbia a cuore le sorti della nazione; questo era il significato stratificato nelle parole di Mattarella e di Francesco. Questo è, dunque, il compito che deve assumere chiunque abbia la possibilità di svolgerlo, chiunque abbia la possibilità di creare anche soltanto una occasione di lavoro. Se si vogliono realizzare movimenti virtuosi di crescita e di sviluppo, se si vuole determinare un benessere sostanziale e diffuso, se nei confronti di questo Paese si prova un sentimento di affetto, bisogna semplicemente restituire tutta la profondità di senso a quell’incipit straordinario che dice così: l’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro. Basta questo.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di lunedì 4 gennaio 2016]

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Insegnare è prevedere. La lezione di don Milani

Ci sono lezioni che esprimono visioni del mondo e della vita, superano le occasioni da cui sono determinate e si proiettano nel tempo, costantemente rinnovandosi e modulando i significati che portano in relazione alle situazioni sociali, al divenire delle condizioni culturali, talvolta anche decontestualizzandosi e componendosi in un sintesi essenziale che, in quanto tale, si costituisce come riferimento fondamentale per un’opera, un mestiere.

Quella di don Lorenzo Milani è una lezione così: una traccia dalla quale sarebbe superficiale discostare il passo.

Mentre cercavo tra i suoi libri qualcos’altro, ho trovato una frase che non conoscevo o che avevo dimenticato; questa: “il maestro deve essere per quanto può profeta, scrutare i segni dei tempi, indovinare negli occhi dei ragazzi le cose belle che essi vedranno domani e che noi vediamo solo in confuso”.

Se questo è stato vero da quando in una grotta preistoria o sotto l’ombra di un albero qualcuno insegnò qualcosa a qualcun altro, forse facendogli osservare un filo d’erba o il brillare lontano di una stella, ora diventa più vero di quanto lo sia sempre stato, per il fatto che ora, forse più che in ogni altro tempo, il vedere oltre, il prefigurare, l’ipotizzare, si rivela un processo ancora più complesso in quanto per nulla lineare e prevedibile è lo sviluppo della dimensione sociale e culturale, il modo con cui avverrà questo sviluppo, l’apparato di strumenti con il quale sarà supportato, la sua portata, la sua durata.

Ma se prevedere è più difficile forse significa che è anche più necessario, probabilmente indispensabile.

D’altra parte, se quello che si insegna serve a chi lo apprende nel momento in cui si sta insegnando, senza dubbio servirà ancora di più domani, domani l’altro, quando quello che si è e le cose che si fanno richiameranno o pretenderanno una conoscenza, quando ogni conoscenza si dovrà tradurre nella concretezza di essere nel mondo.

In fondo, non si insegna altro che ad essere nel mondo, a decifrare, comprendere, interpretare i suoi fenomeni e le sue storie. A cosa serve una scienza, un linguaggio, una filosofia, se non ad essere nel mondo ed a migliorarlo per quello che si può. La conoscenza che non serve a questo è solo chiacchiera oziosa, banale artificio, attualità circoscritta e senza prospettiva.

Per questo il maestro deve scrutare i tempi, non limitarsi all’osservazione di quello che si manifesta intorno ma intuire, prefigurare, presentire quale sarà il sapere che servirà domani, quando coloro ai quali sta insegnando saranno coinvolti direttamente nelle decisioni che riguardano i destini individuali e collettivi e dovranno agire con responsabilità e con competenza, dimostrando di saper essere nel mondo, soprattutto di sapere essere per il mondo.

Allora il maestro deve guardare oltre e vedere le linee essenziali del sapere che servirà fra dieci, venti, trent’anni.

Probabilmente il verbo servire non è tra i più compatibili con il termine sapere; probabilmente è più corretto chiedersi quale sarà il sapere con cui ci si dovrà confrontare, quale sarà il sapere necessario all’essere e all’esistere.

Se si usa il verbo servire, la risposta diventa quasi impossibile, perché la rapidità con cui avvengono le trasformazioni culturali, soprattutto tenendo conto della ormai strutturale dimensione globale, la costanza con cui si evolvono gli strumenti del sapere, sono elementi che riducono, se non azzerano, la possibilità di previsione.

Quali testi si dovrà essere necessariamente in grado di interpretare e di elaborare fra vent’anni; quale geografia si dovrà conoscere; quali metodi serviranno per comprendere la storia. Esempi generici, ovviamente. Ma per testi si deve intendere tutte le forme con le quali il mondo si rappresenta e si esprime; per geografia si deve intendere lo spazio in cui l’umano si muove e il modo in cui il movimento dell’umano modifica lo spazio; per metodi di comprensione della storia si deve intendere il modo con cui si comprende e si accoglie il movimento dell’umano nello spazio.

Se si adotta l’espressione “sapere necessario”, forse la risposta potrebbe essere o comunque apparire più semplice, in quanto per sapere necessario si può intendere il nucleo di conoscenze che genera costantemente conoscenze ulteriori in relazione alla necessità.

Allora un altro esempio, anche questo generico. Negli anni che verranno, ma con una intensità quotidiana che già oggi costituisce una condizione pressante a livello mondiale, la necessità sarà quella della integrazione dei popoli, di un dialogo costante tra culture diverse. Non solo accoglienza umanitaria, dunque, ma una vera, sostanziale integrazione e di conseguenza interazione culturale. A questa necessità corrisponde la necessità di un sapere che sia in grado di agire nella dimensione della mobilità geografica, nella prospettiva di autorealizzazione globale, nel contesto di un nuovo concetto di cittadinanza sociale. Tutto il resto viene dopo, perché senza questo tipo di sapere tutto il resto non potrà venire, perché sarà impedito da una conflittualità di livello forse inimmaginabile.

A questo punto ritorna la lezione di Lorenzo Milani quando dice che bisogna indovinare negli occhi dei ragazzi le cose belle che essi vedranno domani e che noi vediamo solo in confuso.

E’ vero. Lo scenario che si va costruendo di giorno in giorno noi lo vediamo solo confusamente e talvolta ci incute anche paura, o almeno genera disorientamento.

Le generazioni che verranno non possono e non devono avere la stessa paura, non possono ritrovarsi disorientati.

I maestri di oggi, quelli che scrutano i tempi, che vedono oltre, che sono profeti, tutto questo lo sanno e costruiscono il sapere che è necessario ad intravedere quella bellezza delle cose di cui diceva Lorenzo Milani, ad apprezzarla e ad approssimarsi ad essa, a comprenderne le forme ed i linguaggi, perché sarà soltanto questa comprensione che consentirà loro di essere nel mondo e nella sua bellezza.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di martedì 12 gennaio 2016 ]

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L’incertezza è il fascino del nostro tempo

Antonio Giuliano, classe 1930, è uno dei più grandi archeologi e storici dell’arte. Ha insegnato archeologia e storia dell’arte greca e romana nelle università di Genova e di Roma Tor Vergata. Ad Antonio Gnoli che in un’intervista per “Repubblica” gli chiede che cosa lo ha affascinato del mondo antico, Giuliano risponde: la sua enorme capacità selettiva, il senso del visionario e l’uso dei sogni, il senso dell’inestimabile, il senso del definitivo in contrasto con il nostro mondo che  ha solo il senso del provvisorio.

Ecco. Con una sintesi essenziale, con un grumo di senso, Giuliano rappresenta la condizione del nostro essere ed esistere nella contemporaneità.

Perché è vero che non selezioniamo più, nonostante costantemente e in ogni campo si proclami la necessità di selezionare, commettendo l’errore  madornale, ispirato da una molto equivoca idea di oggettività, di elaborare sistemi modelli schemi griglie indicatori livelli di selezione. Vogliamo ricondurre tutto il nostro pensare e il nostro agire in una formula che esprima un gradimento, con la presunzione di valutare un’opera, per esempio, o un artigianato, un metodo, un insegnamento, un risultato, senza tener conto del soggetto che dev’essere valutato, di quello che pensa, della sua esperienza, della sua vita, dei suoi bisogni, delle sue felicità e delle sue angosce.  Vogliamo soltanto che compili un questionario rispondendo sì o no, vero o falso, giusto o sbagliato. Performance, si dice, performance. Misuriamo la tua, la nostra, le vostre performance, attribuiamo ad esse un punteggio da uno a dieci, facciamo la somma e attribuiamo un valore, stiliamo una graduatoria. Tabuliamo.  Attribuiamo il merito. Ma a questo punto occorre chiedersi  se quel valore, quel merito che attribuiamo è riferito alla persona o al questionario o alla graduatoria. Allora strutturiamo sistemi di valutazione che misurano ma non valutano in quanto  trasformando il soggetto in oggetto si svuotano di ogni coerenza.

La selezione, dunque, non avviene, perché il processo di valutazione è falsato. Se hai scritto una poesia  sei già poeta  alla pari di Leopardi; se una domenica pomeriggio che piove butti tre colori su una tela sei Van Gogh, e se uno sconosciuto amico del Van Gogh sui tre colori della tela stende una scarna didascalia, al citofono mette l’etichetta di critico d’arte. L’indagine quantitativa, la tabulazione dei dati di quanti negli ultimi dieci anni si siano occupati di opere d’arte, glielo consentono.

Certo, c’è una bellezza in tutto questo, che è quella dell’assenza di ogni selezione e del principio di uguaglianza.

Poi Antonio Giuliano sostiene che abbiamo perso il senso del visionario e l’uso dei sogni.

Una volta, in una vallata, un essere che si muoveva a quattro zampe, ebbe l’ardire, la sfrontatezza di pensare che poteva tentare di camminare con due. L’essere era un visionario. Ma tutto quello che è venuto dopo, è stato prodotto dalla sua visionarietà. Poi scoprìil fuoco, inventò la ruota, giunse in terre di cui non immaginava l’esistenza, indagò i misteri del cielo,  impastò erbe facendone medicamenti, ma tutto – tutto – ha avuto origine dalla visionarietà di colui che si alzò sulle due zampe.

Forse non c’è stato un solo uomo di scienza che non abbia prima sognato l’esperimento che lo ha portato alla scoperta.  Forse non c’è stato un solo poeta che, nel fondo dell’insonnia, non abbia sognato la sua poesia.

Ecco, probabilmente su questo non c’è nessuna differenza fra le epoche, fra l’antico e il moderno,  e probabilmente mai ce ne sarà. Spesso si parla della fine dell’umanità. Non ci sarà nessuna fine dell’umanità, finche esisterà un uomo – uno solo – che farà  un sogno ad occhi aperti.

Il senso dell’inestimabile, invece, lo stiamo progressivamente perdendo. Siamo arroganti al punto tale da pensare di poter stimare tutto, di far corrispondere un prezzo ad ogni cosa. Anche alla vita. La nostra vita ha il prezzo di una polizza assicurativa. Per una invalidità temporanea l’indennizzo è tanto; per quella permanente più di tanto; per la morte un po’ di più o un po’ meno di tanto. Dipende dalle condizioni di polizza.

Il mondo antico aveva il senso del definitivo; noi abbiamo quello del provvisorio, dice Giuliano. Il senso della provvisorietà, dell’incertezza,  dell’insicurezza, della fluidità, dell’instabilità, del dubbio, della caducità, è una condizione strutturale del tempo che viviamo.

E’ una condizione che talvolta provoca lo sgomento di ritrovarsi davanti alle cose, ai fenomeni, alle storie che accadono soltanto con la coscienza della propria precarietà, di non riuscire a comprendere il senso di una nuova idea, di dover rinunciare a quello che si è appreso, di dover reimparare  in continuazione, di accettare che anche quelli che si considerano come macigni del nostro sapere si tramutino in polvere diffusa nella memoria,  di doversi dire spesso – molto spesso – non è più così ma è il contrario di così.

L’uomo del Novecento, l’uomo di questo secolo nuovo, di questo nuovo millennio, ha dovuto confrontarsi e ogni giorno si confronta con la caduta dei riferimenti, con lo smarrimento della rotta, con il disorientamento nell’immensità incontrollabile del sapere, con il rimaneggiamento costante  delle cognizioni, delle credenze, delle culture. L’uomo del Novecento, del doponovecento, ha imparato ad assistere al crollo di idee e ideologie, a fare le strada in compagnia della crisi, ad alternare certezze e incertezze su tutto, a fare esperienza della deriva cercando di evitare il naufragio. Ma anche del naufragio ha fatto esperienza. Ha conosciuto la disperazione e l’allegria di naufragi, come il “superstite lupo di mare” ungarettiano.

Il senso del provvisorio provoca sgomento, certo. Ma il senso del provvisorio è anche il fascino che avvolge questo tempo, che ci coinvolge.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di lunedì 1 febbraio 2016]

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Il filo sottile che lega Einstein e Leopardi

 Talvolta le cose che esercitano su di noi un fascino più forte, una maggiore attrazione, che ci richiamano in modo quasi prepotente, sono quelle che non conosciamo, quelle che appartengono a territori che  frequentiamo raramente oppure mai e che di conseguenza si propongono con l’incanto del mistero, con la lusinga dell’incognita.

Così l’uomo che non sa di scienza avverte un senso di stupore, forse anche  di sbalordimento quando si trova a confrontarsi con una scoperta che per lui assume quasi una connotazione fiabesca. Perché, a pensarci, che altro può essere, per l’uomo che non sa di scienza, la rivelazione delle onde gravitazionali, se non il passaggio di una fiaba che Einstein aveva cominciato a raccontare un secolo fa, se non un’epifania dello straordinario,  del meraviglioso, dell’indicibile. Che cosa possono essere quelle vibrazioni dello spazio-tempo, se non una rappresentazione  dell’infigurabile, dell’inimmaginabile.

Così legge articoli sui giornali comprendendo soltanto il poco che la divulgazione gli consente di comprendere e ha l’impressione di averla sentita quella che dicono musica dell’universo,  in una poesia di  Leopardi o di Eliot, nelle pagine di un romanzo di John Banville, di averla già sentita in una sinfoniadi Beethoven.Ma sa che sono cose diverse, anche se qualche volta avverte il sospetto che tanto l’arte quanto la scienza in fondo non facciano altro che tentare continuamente, e spesso disperatamente, di svelare i misteri dell’uomo e dell’universo, non facciano altro che cercare di decifrare i codici dell’infinito. Per l’uomo che non sa di scienza, l’espressione onde gravitazionali ha lo stesso senso di quella leopardiana che dice “sovrumani silenzi”. E’ un senso identico generato da manifestazioni diverse: se le onde sono provocate da fenomeni violenti, da collisioni di buchi neri, esplosioni di supernove(e certamente questi sono termini impropri, inadeguati, inesatti), i silenzi di Leopardi hanno per origine una sorta di quiete, di riposo, di pace dell’universo. I silenzi di Leopardi mostrano l’universo che si acquieta, che si approssima all’immobilità; le onde gravitazionali sono la dimostrazione che l’universo si ritrova in un movimento di incessante rinnovamento, istante per istante ( ma anche il termine istante in questo caso può essere improprio, impreciso, inadeguato, inesatto, comunque superficiale).

Ma per l’uomo che non sa di scienza, quello che conta probabilmente più di tutto, la dimensione che custodisce segreti  sublimi e inviolabili, è il termine sovrumano. E’ con il senso imperscrutabile del soprannaturale, dello straordinario, del meraviglioso, con l’ansia di sondare, di rivelare, di conoscere, che tanto lo scienziato quanto il poeta si ritrovano a fare i conti. Certo, ciascuno al proprio modo, con i propri metodi, con i propri strumenti, seguendo strade che solitamente sembrano divergere, che qualche rara volta sembrano convergere, ma che in comune hanno l’origine, il movente che si può riconoscere nello stupore nei confronti dei fenomeni del tempo e dello spazio. L’uno e l’altro confessano più o meno esplicitamente l’infinitamente piccolo dell’uomo davanti all’infinitamente grande del sovrumano.

L’uno e l’altro si spauriscono pensando l’infinito. Poi, lo scienziato cerca di ricondurre lo spaurimento in una struttura logica che gli consenta di formulare delle risposte, il poeta si ferma all’interrogativo perché considera che la risposta all’interrogativo sull’origine e sulla funzione  dei fenomeni sia costituita dai fenomeni stessi.

Se la bellissima, suggestiva ambizione dello scienziato è quella di arrivare ad un punto dal quale si possa guardare il mondo come si guarda il  proprio giardino, l’ambizione del poeta, non meno suggestiva, non meno bella, è quella di lasciare al pensiero la possibilità di contemplare il  mondo come una tempesta di particelle vorticanti, come un’impenetrabile densità di tenebre, un caos perfetto nel suo sconosciuto principio e nella sua imprevedibile conclusione.

Se lo scienziato lancia con ogni suo pensiero, ogni gesto, una sfida all’enigma, all’incompreso, il poeta ha stabilito con se stesso il patto  di lasciarsi  sedurre dalla bellezza della sproporzione, della dismisura fra l’umano e il sovrumano, della indecifrabile metamorfosi degli esseri e delle cose, dal senso nascosto, indefinito, dall’ombra che confonde i contorni e rende impenetrabili le cose.

L’uomo che non sa di scienza e che di poesia sa qualcosa appena, ma che si consola pensando che in fondo sia dell’una che dell’altra non si può sapere che qualcosa appena, si fa sempre più persuaso che ha un concreto bisogno delle certezze della scienza ma anche della suggestione di una poesia, che ha bisogno, allo stesso tempo pur se in maniera diversa, di quello che la scienza gli rivela e di quello che gli nasconde la poesia con l’ingannevole promessa di rivelarglielo un’altra volta, con un’altra metafora, sorprendente e nuova.

Ecco, forse è questo l’elemento che la scienza e la poesia (l’arte, comunque) hanno profondamente in comune: aggiungere sempre qualcosa al conosciuto, sorprendere l’umano sulle infinite possibilità dell’umano ma con la consapevolezza che c’è sempre qualcosa al di là di qualsiasi conoscenza. Allora si può  pensare che la relazione tra scienza e poesia sia addirittura necessaria.  In fondo, come si fa a sapere se al fisico che indaga l’universo ad un certo punto non possa servire l’intuizione annotata in una poesia, se alla sua cognizione non serva un’emozione, e come si fa a sapere quali contributi possano venire alla poesia dalla scoperta delle onde gravitazionali, per esempio, se una formula matematica non possa risultare funzionale alla compiutezza di un verso.

Poi, probabilmente, il gioco continuerà al modo di sempre, con il fisico che cercherà di sciogliere i nodi  e con il poeta che cercherà di stringerli più forte.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di lunedì 29 febbraio 2016]

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La vera cultura non si arrende alla logica del mercato

 Da solo il genio non basta. Il genio pretende sacrificio. La creatività, il guizzo del pensiero, quella che viene chiamata ispirazione, non bastano. Se può anche essere vero che il primo verso è un dono degli dei, come diceva Paul Valéry, è ancora più  vero che dal secondo verso in poi è sudore, fatica; un’opera d’arte è un duello all’ultimo sangue con le parole o le note o una macchina da presa, il marmo, i colori.

Probabilmente riesumeranno i resti di Michelangelo per verificare che il maestro abbia lavorato fino a pochi giorni prima di morire, quando aveva un anno meno di  novanta, con le mani tumefatte dall’ osteoartrosi. Anche per questo motivo è Michelangelo: per la sfida lanciata al suo corpo che doveva servire innanzitutto l’arte; il resto era un dettaglio ininfluente; anche il dolore delle ossa era un dettaglio ininfluente.

Umberto Eco ha lavorato fino a pochi giorni prima di andar via.

Giovanni Bernardini è del Ventitré. Continua a scrivere, ogni giorno. Nulla dies sine linea, dice.

Senza il sacrificio quotidiano, il lavoro ad ogni condizione, senza il porre se stesso continuamente a nuove prove, se non si pensa di superare il già fatto, di ricominciare continuamente scombinando l’acquisito, mettendo a soqquadro  stili e  convenzioni,  il genio si assopisce e riesce a generare soltanto la mediocrità.

Il genio da solo non basta; non basta nemmeno la vocazione. L’arte impone la rinuncia a molte cose.

La storia di ogni arte e di ogni artista è fatta di rinunce, di solitudine, spesso, di privazioni.

Probabilmente si tratta di una dimensione che il postmoderno ci ha disabituati a pensare, delineando il profilo di un’artista come figura dei talk show. Pensiamo al successo improvviso e facile, alla visibilità, all’apparenza, all’esibizione. La televisione prima, la rete poi, televisione e rete insieme hanno inventato e inventano  geni ogni giorno e ogni giorno ne hanno sotterrati e ne sotterrano.

Vengono dal niente e al niente ritornano. Quelli che durano, in ogni campo, dalla musica leggera alla narrativa, dalla pittura alla musica, dal cinema al teatro, sono quelli che accettano il sacrificio, che credono nell’opera e poi, se hanno tempo da perdere, di tanto in tanto pensano ad altro. Ma soprattutto non pensano al mercato. Al pubblico sì, ma non al mercato. Pensare al pubblico è giusto, rispettoso. Pensare al mercato è egoista, e significa negare ad un’arte il suo significato.

Avevo un amico una volta, che adesso non c’è più. Nelle vene non gli scorreva sangue; gli scorreva inchiostro. Lui pensava di dover scrivere un grande romanzo. Pensava che la sua vita poteva giustificarla soltanto in quel modo, con un grande romanzo che avrebbe intitolato “Declaro”. Aveva una tensione spasmodica verso la forma, l’ansia di inventare una lingua capace di aderire all’esistenza ed alle cose, di impastarsi con esse fino a non distinguersi più, fino al punto di diventare esistenza e cosa.

Antonio Verri, il Declaro non ha fatto in tempo a scriverlo, ma i libri che ha lasciato ne costituiscono  frammenti, eccellenti.

Un altro amico qualche tempo fa mi diceva di una sua idea di romanzo e il progetto cominciava, si sviluppava  e finiva con il termine target. Non pensava alla scrittura, alla narrazione, ai personaggi, alla trama, all’intreccio, alla storia, ma al target, alla fascia dei potenziali acquirenti del suo prodotto da confezionare sulla base delle esigenze del mercato.

Molti prodotti dell’editoria hanno questa natura e molti autori rispondono a questa ideologia. La cosa vale per ogni espressione d’arte. Non è un giudizio. I tempi sono così. Anche Michelangelo rispondeva al committente, ma al principio e alla fine del pensiero sull’opera non c’era altro che  l’opera.

L’arte di Michelangelo resterà finché esisterà un solo uomo in  possesso della vista. Quelli che pensano al mercato, non sappiamo.

Però quello che provoca un certo turbamento è proprio la logica imperante del mercato, che assoggetta tutto o che distrugge quello che non riesce ad assoggettare. Quanto incasso ha fatto questo film, quante copie ha venduto questo libro, questo disco, quanti biglietti sono stati venduti per quel concerto, che audience ha fatto quel programma, quante persone c’erano a teatro. Se il film, il libro, il disco,  sono un capolavoro ma non hanno incassato, il regista, lo scrittore, il musicista  sono falliti definitivamente; se film, libro e disco sono  una brodaglia ma hanno fatto il boom allora si continuerà con la brodaglia, e noi faremo la fila per ore davanti al botteghino, alla cassa della libreria, pregustando il sapore di brodaglia.

Poi c’è la mortificazione più cocente, che consiste nell’applicazione della logica del mercato anche alla formazione, al sapere. E’ terribilmente triste quando a un ragazzo che non ha vent’anni ancora e che sta per cominciare un percorso universitario,  si dice che il titolo di studio che vuole conseguire non ha mercato; cioè: la tua passione, la tua conoscenza, i sogni che hai  non valgono niente. E’ davvero molto triste che si dica, ma è ancora più triste che non ci sia il mercato.

Il genio da solo non basta. Una volta pretendeva sacrificio, e un po’ di fortuna anche. Adesso vuole il riconoscimento del mercato. Senza mercato non c’è esistenza.

Se così stanno le cose, allora, ci si trova costretti a scegliere fra l’accettare la logica abbassando la testa e il  mettersi a fare resistenza attraverso la scelta della qualità, dell’originalità, della bellezza.

La prima è certamente più facile e anche più conveniente. La seconda è più difficile, costa molto di più. Ma dura anche molto di più.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia di lunedì 7 marzo 2016]

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La tecnologia non riuscirà a sostituire i libri

In un punto  di quello spettacolo pirotecnico che è  Il giovane Holden, Salinger fa dire al suo personaggio: “Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l’autore fosse un tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira”.

Accade proprio così, certe volte. Accade che dopo aver frequentato luoghi e personaggi di un libro, dopo essersi lasciati coinvolgere dalla storia, travolgere dallo stile della narrazione, si avverta il desiderio di conoscere l’autore. Accade quando nei libri si entra davvero e completamente, quando, leggendoli, è come se si partecipasse  alla loro scrittura.

Accade ad ogni lettore, probabilmente.

Mi accadeva qualcosa del genere tutte le volte che leggevo  Vincenzo Consolo, che è uno dei più grandi narratori del Novecento. Gli volevo fare domande sulla sua prosa ribollente, sulla provenienza dei fantasmi che si radunavano nelle pagine.  Poi una sera, a Roma, alla fine di un convegno, qualcuno mi disse: ecco, quello è Vincenzo Consolo. Io mi guardavo intorno e non lo vedevo. Quale, chiesi. Quello, mi risposero, quello, e mi indicarono  un ometto che faceva la fila al buffet con in mano un piatto e una forchetta.

Non può essere, dissi, mi dissi; non può essere. Il gigante che ha scritto Il sorriso dell’ignoto marinaio, che ha scritto Lunaria, Retablo, quell’eroe  che mi sono figurato   leggendo i suoi libri nottetempo mentre montavo la guardia sull’altana nei dodici mesi del militare,  non può fare la fila al buffet. Il mito si riduceva a maceria, ma  avevo comunque tante cose da chiedergli. Così  mi avvicinai. Dissi: mi scusi, maestro. Volevo solo avere l’onore di stringerle la mano. Riuscii a dire questo e nient’altro. Tutte le domande le avevo dimenticate. Nel frattempo Consolo era riuscito a raggiungere la torta. Ne mise una fetta nel  piattino di plastica; disse: “Tieni”.

Qualche anno dopo, una sera, a Lecce, presentai un suo romanzo.

Una delle imprese più ardue che si possano affrontare, è quella di presentare il libro di un autore che si ama.

Dopo la presentazione, gli chiesi del ritmo della sua prosa, delle armonie delle sue frasi,  delle sue tecniche di narrazione, dell’incessante lavoro di lima, della preziosità del suo lessico. Alle molte domande, Consolo diede una risposta sola, ripresa da Elio Vittorini,  semplicissima: “E’ grande umiltà essere scrittore”.

Ogni lettore, una volta o l’altra, dunque, si ritrova in una tale condizione d’intesa con il libro che sta leggendo da desiderare di conoscere l’autore. Ma sono convinto che nessuno provi lo stesso desiderio mentre sta leggendo una pagina su Internet.  La circostanza costituisce una delle innumerevoli dimostrazioni che il libro non si può sostituire, che fino a questo momento nessuno è riuscito ad inventare uno strumento culturale in grado di determinare una sorta di dimensione sentimentale. Non si tratta di situazioni dipendenti da situazioni generazionali. Secondo quanto riferiscono le statistiche, la quota di lettori per motivi non scolastici o professionali risulta superiore al 50% della popolazione solo tra gli 11 e i 19 anni e nelle età successive tende a diminuire; in particolare, la fascia di età in cui si legge di più è quella dai 15 ai 17 anni.

Allora, i lettori più forti sono proprio i nativi digitali. Forse saranno proprio loro a smentire ogni profezia sull’imminente fine del libro, a confermare quello che diceva Umberto Eco: il  libro è come il cucchiaio, il martello, la ruota, le forbici. Una volta che li avete inventati non potete fare di meglio. Non potete fare un cucchiaio che sia migliore del cucchiaio.

D’altra parte riesce un po’ difficile capire la furia incontenibile di chi intende sempre sostituire una cosa con un’altra, il vecchio con il nuovo, il fanatico alzare altari ai vitelli d’oro della tecnologia.

Riesce un po’ difficile capire il motivo per cui non si possa consentire la coesistenza di molteplici strumenti del sapere.

Internet è un’invenzione formidabile, che però è venuta dopo quell’altra ancora più formidabile che è il libro.

Per quale ragione non possano funzionare l’una e l’altra non si riesce a  capire, ed ancor meno si riesce a capire perché non possano integrarsi ed interagire per un potenziamento dei processi di conoscenza.

Quando fenomeni di radicale soppiantamento avvengono nei luoghi di costruzione del sapere, si possono provocare danni irreparabili.

A pag. 108 di un saggio che s’intitola Educare allo stupore, Catherine L’Ecuyer sostiene che gli alti dirigenti della Silicon Valley mandano i loro figli in una scuola d’élite che sbandiera ai quattro venti di non impiegare la tecnologia nelle sue aule. Uno dei genitori, riferisce l’autrice, laureato in ingegneria e appartenente al Dipartimento per le comunicazioni di Google, afferma: “Mia figlia, che frequenta la quinta elementare, non sa usare Google e mio figlio, che è in terza media, ha appena cominciato. La tecnologia ha il suo tempo e luogo. E’ facilissima. E’ come imparare a usare il dentifricio. In Google e in tutti gli altri siti, realizziamo una tecnologia talmente semplice che la potrebbe usare chiunque. Non c’è ragione per cui i bambini non la possano apprendere da grandi”.

Forse imparare a leggere come si deve leggere, abituarsi a scendere nei significati, ad assimilarli, rielaborarli, interpretarli,  compararli, è un poco più difficile rispetto ad imparare a usare il dentifricio. Forse se non si impara subito, quando si è bambini, non si impara mai più, come non si impara mai più a  nuotare, ad arrampicarsi sugli alberi, a fare capriole.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di mercoledì 16 marzo 2016]

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La bellezza dell’ingenuità contro il buio che inquieta

Quando rivolgiamo gli auguri a qualcuno, spesso usiamo la parola serenità, e con questa parola intendiamo soprattutto una condizione personale o circoscritta ai contesti delle relazioni affettive della persona. Che tu e i tuoi cari siate sereni. Che per te e i tuoi  sia una Pasqua di serenità. Ma a volte avvertiamo quasi un senso di inadeguatezza dell’espressione, come se non fosse sufficiente, non bastasse, perché abbiamo la consapevolezza che una serenità personale possa essere screziata, oscurata, dall’assenza di serenità complessiva. Allora vorremmo dire, augurare, una serenità del mondo. Ma non lo diciamo. Per pudore. Perché augurare una serenità del mondo ci sembra ingenuo. Come si fa a pensare, a sperare, una serenità del mondo. E’ un po’ come pensare, sperare, una innocenza del mondo. Il mondo non è stato mai, non potrà essere mai né innocente né sereno. Vengono tempi in cui si ha l’impressione che sia meno inquieto,  altri in cui si ha l’impressione che lo sia di più.

Nel tempo che viviamo, in questi anni, in questi giorni, il mondo è più inquieto. Si ritrova con un’inquietudine nuova, che si aggiunge a quelle che aveva,  della quale conosciamo solo tratti superficiali, che risulta difficile decodificare, interpretare. E’ un’inquietudine che ci disorienta, ci sbalordisce, ci fa paura, che ci  deprime, ci annichilisce. Eppure, quanto più ci spaventa l’inquietudine del mondo, tanto più sentiamo la necessità  di pensare ad una sua serenità.

Così diventiamo ingenui, consapevolmente ingenui, e pensiamo ad una serenità del mondo, ad un equilibrio che scongiuri lo sconvolgimento, ad una convivenza senza lacerazioni, ad un dialogo fra popoli e persone, ad un confronto di idee e di ideologie che generi ulteriori idee ed ideologie sulle quali fondare la civiltà, le civiltà che si sviluppano. Diventiamo fieramente ingenui, dunque, e motiviamo la nostra ingenuità con il convincimento che per essere uomini di buona volontà occorre possedere il privilegio di una ingenuità di fondo, che sia necessario credere nell’ipotesi che il mondo possa girare mosso dalla pace e non dal conflitto.

Ma la serenità si costruisce, senza dubbio; ha bisogno di condizioni che devono essere predisposte e sostanziate e rinvigoritedi giorno in giorno, di pensieri capaci di proiettarsi nel tempo prefigurando scenari e valutando possibilità; ha bisogno di visioni, di progetti, di azioni costantemente protesi verso orizzonti chiari, luminosi.

Spesso, molto spesso, quasi sempre, lo sviluppo e il progresso sono stati determinati dai pensieri e dai comportamenti di uomini e donne contagiati dall’ingenuità, che hanno creduto in una possibile serenità del mondo, in una prossimità degli esseri e dei popoli, nell’incontro, nel confronto, nel dialogo, in un comune destino.

In questo tempo dell’incognita, dell’incertezza, dell’ansia, della ragione accecata, di tempeste di buio, probabilmente abbiamo necessità, urgenza, della bellezza dell’ingenuità. Se crediamo che il mondo possa salvarsi –  e non si può, non si deve fare a meno di crederci –  se consideriamo che il passaggio delle nostre esistenze possa avere un senso, o almeno una giustificazione, soltanto se siamo capaci di renderci migliori, di rendere migliore l’altro chi ci vive intorno, di consentire all’altro di rendere migliori noi, allora dobbiamo trovare la forza, trovare il coraggio di essere ingenui, tanto ingenui da pensare che ci possa essere una serenità del mondo. Perché per essere ingenui ci vuole coraggio. Ci sono tempi in cui il bisogno di serenità è meno forte e altri in cui lo è di più.  Questo è un tempo che  sente il bisogno di una maggiore serenità.  Non sono soltanto le singole persone ad averne bisogno. Ci sono comunità, popoli, che cercano, chiedono, serenità. C’è  un’intera umanità che ha bisogno di serenità  per riuscire a sconfiggere o almeno a governare le paure. Tanto le vecchie quanto le nuove paure. Perché in questo tempo le paure ancestrali – quelle del dolore, quelle della fine- hanno assunto nuove e forse anche più angoscianti fisionomie. Allora c’è bisogno della serenità di tutti: di ogni uomo, ogni donna, ogni bambino, ogni giovane, ogni vecchio, ogni comunità, ogni popolo. C’è bisogno di una serenità del mondo.

Forse non sappiamo neanche bene che cosa intendiamo per serenità del mondo, ma è comunque essenziale cominciare a pensarla. Con una creativa ingenuità.  Con razionale, emotiva, sentimentale, intelligente, suggestiva, progettante ingenuità. In fondo, ogni volta che  pronunciamo o pensiamo soltanto la parola speranza, non facciamo altro che esprimere una sorta di ingenuità. Ma probabilmente non si potrebbe vivere senza un pensiero di speranza. Probabilmente non si potrebbe stare al mondo senza avere speranza che il mondo possa diventare più bello o meno brutto di com’è stato e di com’è. Quando pensiamo e affermiamo che si sente l’urgenza di un cambiamento, vogliamo dire sostanzialmente questo. Cambiare significa mutare una condizione propria ed altrui oppure realizzare l’irrealizzato. Se la Pasqua ha il significato radicale di passaggio, il passaggio dev’essere da una condizione ad un’altra migliore.

Così per  questo giorno di Pasqua, per i giorni che verranno, potremmo  augurare a noi stessi e augurare agli altri, la speranza di una serenità del mondo.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 27 marzo 2016]

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La creatività di tutti potrà salvarci dalla barbarie

 Vengono tempi in cui si avverte più forte la necessità di andare oltre le forme consuete di pensiero, i modelli di comportamento, i metodi di analisi e di soluzione dei problemi, di riformulare le conoscenze acquisite, di rideterminare e riconvertire le proprie competenze, di confrontarsi diversamente con quelli che sono i linguaggi del sociale, della cultura, dell’economia, della politica, della religione, con i concetti di formazione, di identità, di appartenenza, di giustizia, di partecipazione.

Ad un certo punto, quando vengono tempi così, ci si accorge, più o meno gradualmente, più o meno all’improvviso, che i processi di interpretazione di tutto quello che ci accade intorno e dentro non sono più idonei alla scoperta dei significati profondi, essenziali, o quantomeno non sono più sufficienti, che occorre andare oltre, appunto, disarticolare gli schemi, proiettare il pensiero oltre il già pensato, agire in modo diverso da come si è agito, attribuire valore sostanziale a quello che sembrava non averne, rimodulare le relazioni con gli esseri e con le cose, comunicare diversamente: essere diversamente.

Allora, quando i tempi che vengono si portano dietro sia questo che molto altro, si avverte l’urgenza di potenziare le espressioni della creatività personale e collettiva, nella consapevolezza che in assenza di un innalzamento del livello di creatività si rivela molto probabile il rischio di una stagnazione della civiltà o di un suo impoverimento o di una degenerazione.

In fondo, la creatività è stata la condizione che ha consentito lo sviluppo di ogni civiltà, ha costituito il fondamento delle scienze, delle arti, delle relazioni quotidiane fra persone e fra popoli, il miglioramento del lavoro, l’intrapresa. Però bisogna dissipare l’equivoco, il luogo comune, il falso mito romantico  che associa la creatività esclusivamente all’espressione artistica. Indubbiamente è  questo. Ma non solo questo. La creatività è qualsiasi espressione che produce innovazione, per cui possiamo esserlo tutti in qualsiasi istante del giorno, in qualsiasi luogo, in qualsiasi situazione, in relazione a quelli che sono i bisogni, le attese, le speranze.

Ora, in questo tempo di terzo millennio, probabilmente si fa sempre più forte la necessità di una creatività collettiva, che articoli e integri contributi provenienti dalla creatività di ciascuno e da ambiti diversi. Il confronto serrato tra civiltà che sta interessando ogni angolo di mondo e in alcuni casi la contrapposizione, lo scontro che lo sta lacerando, possono svilupparsi in due maniere, forse fondamentalmente soltanto in due: il conflitto o il suo contrario.

Perché si sviluppi in conflitto è veramente – terribilmente- facile. Basta semplicemente che ciascuno continui a pensare nel modo in cui finora ha pensato; basta che neghi a se stesso la possibilità di guardare le cose, i fatti,  dal punto di vista dell’altro per poter tentare di capire i motivi e i moventi dei comportamenti; basta considerare le proprie ragioni e i propri sentimenti ignorando le ragioni e i sentimenti dell’altro.  Non ci vuole di più; questo basta ed avanza. Per accendere il mondo, basta ed avanza.

Perché il confronto si sviluppi in modo contrario al conflitto, forse non è ugualmente facile ma fra i risultati non ci può essere paragone.  Per questo ci vuole creatività, appunto: pensare oltre, pensare diversamente, flettere il ragionamento orientandolo alla elaborazione e alla realizzazione di un progetto di integrazione e interazione degli elementi e delle condizioni di civiltà, fondato sui concetti di identità e di pluralità. Ma come dice il filosofo  Dario Antiseri, le identità culturali sono fenomeni storici e flessibili. Individui e gruppi di uomini possono avere una identità religiosa ma non linguistica, identità linguistica ma non religiosa; identità linguistica e religiosa ma non politica. Si tratta di condizioni molto varie e mutevoli nel tempo. Poi si domanda se esiste una identità europea, e se esiste di quali tratti si compone e con quali si propone. Fernand Braudel ha scritto che un’analisi storica non distratta mostra come l’Europa sia impegnata in un destino unitario. Questo destino unitario Braudel lo vede snodarsi, tra l’altro, sia sul piano della religione, del pensiero razionalista, dell’evoluzione della scienza e della tecnica, sia su quello della propensione all’equità sociale. Il ragionamento, in realtà, vale per tutte le espressioni dell’umano: per l’arte, la filosofia, il diritto, la letteratura, l’economia, la religione, per le relazioni con se stesso, per quelle con il vicino e con il lontano.

Allora è prioritariamente in relazione a questa pluralità dell’identità che si deve sviluppare un processo di creativa costruzione di significati comuni,  pensato attraverso la prefigurazione di un comune destino, realizzato attraverso la graduale ma costante e progressiva condivisione di storie, personali e di tutti, che si portano dietro, che si portano dentro, i nuclei semantici delle civiltà.

Forse non c’è altro modo per evitare il conflitto o quantomeno  l’esasperazione del conflitto che genera, inevitabilmente, barbarie.

Se è possibile pensare, o sperare, che possa rispondere al vero quella famosa frase di Dostoevskij secondo la quale la bellezza salverà il mondo, di conseguenza la creatività, che genera bellezza, forse potrebbe riuscire a salvare il mondo.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di giovedì 7 aprile 2016]

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Stiamo sprecando i giovani più istruiti di sempre

Una generazione forse perduta.

Quando si dice generazione perduta, spesso, quasi sempre, si fa riferimento a quella coinvolta e falcidiata da una guerra.  Mario Draghi, però, con questa definizione identifica quella generazione umiliata e stravolta dalla disoccupazione. In Italia il tasso di disoccupazione giovanile è al 39,1% rispetto a un tasso medio del 21,6% nell’eurozona. Dunque è come l’esito prodotto da una guerra.

Dice Draghi: nonostante sia la generazione meglio istruita di sempre, i giovani di oggi stanno pagando un prezzo molto alto per la crisi. Per evitare di creare una generazione perduta dobbiamo agire in fretta.

Una generazione che rischia di perdersi. Eppure si tratta della meglio gioventù. Di quella che conosce bene le lingue o che comunque le conosce meglio delle generazioni precedenti. Di quella che con la tecnologia riesce a fare sortilegi. Di quella che ha titoli di studio universitari, post universitari, master, specializzazioni, stage, abilitazioni. Di quella che ha cittadinanza nel mondo. Di quella che ha la capacità di integrare tradizione e innovazione, che potrebbe garantire all’Italia e all’Europa e al mondo un nuovo sviluppo, un nuovo progresso, un nuovo pensiero. Di quella che ha conoscenze e competenze sia specialistiche che trasversali, che sa interpretare i cambiamenti perché è la protagonista dei cambiamenti. Di questa generazione si tratta. Di energie straordinarie. Una miniera. Un granaio. Ma rischiamo di soffocare la miniera, di dare fuoco al granaio.

Può essere che la situazione sia stata provocata anche dalla crisi. Ma viene naturale chiedersi in che modo si intende affrontare e risolvere la crisi se non mettendo a frutto quello che si chiama capitale umano, che è l’unico  capitale che conta, l’unico che può garantire qualità in ogni situazione, in ogni settore. Se abbiamo dato loro la possibilità di formarsi, di studiare, per quale motivo non dobbiamo pretendere che mettano a disposizione  quello che hanno imparato e che noi non conosciamo. Cioè, non dovrebbero essere loro a chiedere: dovremmo essere noi a pretendere un risultato dalla loro formazione. Ma noi li confiniamo nella disoccupazione, nella sottoccupazione, nel precariato, nell’incertezza, nella instabilità. Non diamo valore all’unico capitale.

La disoccupazione, dice Draghi, impedisce ai giovani di svolgere un ruolo attivo e significativo nella società.  Infatti: una società che non confida e non si affida al pensiero, al lavoro dei giovani, verso quale destino si sta orientando se non quello dello sprofondamento nella palude, della riproposta di vecchi e spesso fallimentari modelli e processi.    Eppure sono i migliori. Sono quelli che intercettano o che determinano i mutamenti, che conoscono la geografia perché attraversano i territori, che hanno con la storia un rapporto senza condizionamenti e senza schermature. Sono quelli che sanno combinare il pragmatismo e il sogno. Che studiano anche se si chiedono,  ti chiedono, per quale motivo devono studiare, che comunque guardano lontano anche se vedono orizzonti scuri, che hanno sopportato di essere chiamati bamboccioni.

Bisogna agire in fretta, dice Draghi. E’ vero. Bisogna agire molto in fretta. Pensando e realizzando un progetto di civiltà in modo sistematico, costante, incisivo. Senza attardarsi ad individuare e a ragionare sulle cause o sulle colpe. Non serve a niente. Ma nessun progetto si può realizzare senza il coinvolgimento concreto di coloro ai quali il progetto è destinato. Accade spesso che si parli dei giovani senza chiedergli nulla:in assenza. Non saprei dire se da qualche parte qualcuno ha chiesto loro di partecipare al progetto che serve e alla definizione dei modi e delle risorse per realizzarlo. Certo, sarebbe un progetto con un costo indubbiamente alto. Allora si potrebbe anche mettere al secondo posto, a condizione, però, che qualcuno dica qual è quello che dovrebbe stare al primo. Ogni Paese deve necessariamente mettere al primo posto il benessere di chi lo abita, di chi consente ad esso di svilupparsi. Ma senza un benessere dei giovani non ci può essere benessere di un Paese e un benessere dei giovani non ci può essere senza il lavoro.

Nel suo discorso di fine anno il Presidente della Repubblica ha detto che il lavoro manca ancora a troppi dei nostri giovani. Sono giovani che si sono preparati, ha detto Mattarella, hanno studiato, posseggono talenti e capacità e vorrebbero contribuire alla crescita del nostro Paese ma  non possono programmare il proprio futuro con la necessaria serenità.

Qualche giorno prima Papa Francesco aveva  detto che il lavoro significa dignità, che non si può perdere di vista l’urgenza di riaffermare questa dignità, che ogni lavoratore ha diritto di vederla tutelata e che i giovani, in particolare, devono poter coltivare la fiducia che i loro sforzi, il loro entusiasmo, l’investimento delle loro energie e delle loro risorse non saranno inutili.

Ecco, possiamo, dobbiamo ricominciare da qui: dall’urgenza di riaffermare una dignità, dalla fiducia, dall’entusiasmo, dalla speranza, dalle energie.

Tutto quello che verrà dopo sarà certamente migliore di tutto quello che adesso è.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di venerdì 15 aprile 2016]

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Le conoscenze essenziali per il futuro

Una volta, in una lettera a Louise Colet,  Gustave Flaubert scrisse: comme l’on serait savant, si l’on connaissait bien seulement cinq à six livres; come saremmo colti se conoscessimo bene soltanto cinque o sei libri.

Si trattava ovviamente di una metafora che significava la necessità di una conoscenza che sia, ad un tempo, essenziale e profonda.

Cinque o sei libri da conoscere bene: cioè nei loro nuclei e nelle loro diramazioni di significato, nel loro esplicito e nel loro implicito, nelle allusioni, nei richiami e nelle proiezioni. Cinque o sei libri che dicano il senso della realtà e le figurazioni dell’immaginazione,  quello che è accaduto e quello che può accadere, capaci di rappresentare e spiegare quello che accade; cinque o sei  libri su cui fondare la comprensione dei fenomeni e delle storie, della natura e dell’arte, della verità e  della menzogna.

Con molta probabilità, ogni tempo ha avvertito la necessità  di una conoscenza essenziale e profonda. Ma, con altrettanta probabilità, in questo tempo di sviluppo costante e di progressiva dilatazione dei saperi,  si avverte in maniera più forte, pressante, la necessità di contemperare la quantità con la qualità del sapere; di scegliere, dunque.  Non tra quello che si deve sapere e quello che si può non sapere ma di individuare quei lieviti di conoscenza che consentono di generare e di sviluppare altra conoscenza quando i contesti, le situazioni, le condizioni soggettive e collettive lo richiedono e in relazione al loro continuo mutare.

La capacità di acquisire conoscenze ulteriori in relazione alle situazioni quando i mutamenti avvengono vorticosamente, è diventata una condizione indispensabile almeno dalla seconda metà del Novecento ad oggi, e lo sarà sempre di più da domani in poi, perché cambieranno costantemente e con maggiore rapidità le situazioni sociali, culturali, politiche, economiche, demografiche, relazionali, cambieranno le esperienze del lavoro, cambieranno le conformazioni antropologiche dei luoghi che abitiamo, i riferimenti valoriali, i processi formativi, i paradigmi narrativi. La conoscenza è sconcertata dalla rapidità delle evoluzioni e dei cambiamenti contemporanei e dalla complessità propria della globalizzazione, dice Edgar Morin.

Allora la domanda su quali siano le conoscenze essenziali e profonde che consentiranno di essere personaggi attivi nelle narrazioni che si svilupperanno, si carica di valenze esistenziali.

Certo,  ciascuno ha una convinzione propria che deriva dall’ideologia, dalla formazione, dal significato che attribuisce alla conoscenza, dall’importanza che ad essa riconosce, dalla interpretazione degli scenari sociali, economici e culturali che vede all’orizzonte.

Però, forse, se si dovessero cercare due elementi, due punti cardinali che possano orientare nella formazione delle conoscenze, si potrebbero individuare  due concetti, due termini di sintesi, di enucleazione: la memoria e la visione.

La conoscenza come ponte che si stende tra la coscienza del passato e il sentimento del futuro, dunque.

La memoria. Non esiste conoscenza che non sia fondata sulla memoria in quanto non c’è lingua, arte, scienza, che non provengano da una memoria. Senza memoria può esserci solo una nozione sfilacciata e sterile, decontestualizzata, senza legami e quindi scollegata, sospesa nel vuoto,  senza radice e quindi senza possibilità di fioritura. E’ la conoscenza costruita sulla memoria che consente la comprensione delle piccole e grandi storie, dei fatti dell’uomo, dei suoi vizi e delle sue virtù, che insegna a non rifare le scelte sbagliate, a rifare quelle giuste, a distinguere tra il bene e  il male.  L’identità di un uomo e di una gente rassomiglia in maniera straordinaria alla memoria di quell’uomo e di quella gente. E’ la memoria che  consente di riconoscersi, che elabora il senso dell’appartenenza. Di conseguenza un sapere senza memoria non può avere identità, oppure ne ha una ambigua, indefinita, per cui non è profondo, non è essenziale, non ha sostanza, non appartiene, non crea la condizione per il riconoscimento di sé.

Sono soltanto alcune delle moltissime ragioni per le quali diventa assolutamente necessario costruirsi una conoscenza che abbia le radici affondate nella memoria. Ma  i rami  della conoscenza devono protendersi verso la visione.

La visione. Se è vero che  non c’è un solo istante in cui non si pensi all’istante futuro, allora è anche vero che non c’è un solo istante in cui non ci si collochi nel futuro. Ci vediamo in un altro luogo o nello stesso luogo modificato; ci vediamo in un tempo che ancora non è venuto; ci vediamo esistere in quell’altro luogo, in quel tempo non ancora venuto.

Quindi abbiamo una continua visione del futuro e il bisogno di conoscenze che ci facciano comprendere in che modo saremo in quel futuro.

Il modo in cui saremo dipenderà dalla nostra capacità di leggere e interpretare i segni che annunciano il futuro.

Dunque ci serve quella conoscenza che fornisce gli strumenti per leggere e interpretare i segni. Per esempio: è necessario, indispensabile, realizzare conoscenze che mettano nelle  condizioni di vedere lo sviluppo che avranno a livello culturale, sociale, economico, le migrazioni di popoli,  l’evoluzione che avranno la fisica e la tecnologia, quella che avrà l’intelligenza artificiale. Soltanto per esempio.

Così si ritorna a Gustave Flaubert, alla cultura che può venire dalla conoscenza di cinque o sei libri, cioè alle conoscenze fondamentali, a quelle che possono costituirsi come fondamento del sapere che serve a vedere oltre il presente utilizzando la memoria, costantemente ravvivata e rinnovata dal presente e nel presente,  come  specchio nel quale riguardarsi per riconoscere il proprio essere tra gli altri e con gli altri che fanno da compagni di viaggio verso i luoghi e i tempi futuri.

 [“Nuovo Quotidiano di Puglia” di martedì 10 maggio 2016]

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 La scienza senza umanesimo genera barbarie

A Renato Minore che in un’intervista per il “Messaggero” gli chiedeva che fine farà il sapere umanistico, che per secoli è stato considerato “il sapere”, se si modificherà, se dovrà essere archiviato, se si volatilizzerà   nel flusso insondabile della rete, Michel Serres, filosofo, epistemologo,  accademico di Francia, ha risposto così: “Il problema è che il sapere scientifico è separato dal sapere umanistico. La separazione va rifiutata. Altrimenti la scienza corre il rischio di barbarie. Che cosa è l’umanesimo se non il deposito di tutti i racconti sull’infelicità umana? Se uno scienziato dimentica quei racconti non può che generare catastrofi”.

Potremmo forse aggiungere che l’umanesimo è il racconto di tutti i sogni e di tutta la bellezza del mondo, e che tra questi sogni e tra questa bellezza ci sono i progressi straordinari della scienza. Probabilmente ogni intuizione, ogni scoperta, ogni prospettiva della scienza proviene da un sogno e si proietta verso la bellezza. Non dovrebbe essere sbagliato e neppure inconsueto pensare che il fisico che svela i misteri del cielo stia interpretando il linguaggio con cui il cielo esprime la sua bellezza. Gli sviluppi della medicina, della biologia, provengono dal sogno di un benessere dell’umano e dal desiderio di consentire il perdurare della sua bellezza.

Allora la distinzione tra sapere scientifico è sapere umanistico, oltre che innaturale, pretestuosa, artificiosa, irragionevole, anacronistica, è anche pericolosa semplicemente per il fatto che negando la sostanza originaria del sapere può provocare effetti di aridità delle conoscenze  che identifichiamo come umanistiche e di degenerazione di quelle che identifichiamo come scientifiche.

Si tratta di una identificazione convenzionale, perché poi la natura, la finalità e la funzione di una e dell’altra sfera del sapere si rispecchiano o si contemperano.

L’uomo aveva paura del lampo e del tuono. Così raccontava la paura che aveva e cercava di spiegarsi la causa di quel fenomeno. In quel modo conduceva la sua ricerca che metteva insieme il racconto e l’indagine come sintesi, l’uno e l’altra, di una modalità di espressione del pensiero.

Poi ad un certo punto ha capito per quale motivo accadono il lampo ed il tuono, ma questa comprensione non basta ad impedire che qualche volta abbia – ancora –  paura, senza riuscire a darsi una razionale spiegazione. Così  continua a raccontare la sua paura e, soprattutto, continua a raccontare la mancanza di una spiegazione.

Forse questo significa che nemmeno l’uomo della scienza e della tecnica più sofisticate può rinunciare al confronto con se stesso più intimo, viscerale, che può avvenire soltanto attraverso quelle modalità di pensiero e di espressione che, sempre convenzionalmente, riconduciamo nei territori di un sapere umanistico.

Pero, se volessimo, tanto per insignificante ed inutile esercizio, mantenere la separazione e individuare quale dei due saperi costituisca una efficace rappresentazione dell’esistere – considerato che se se il sapere non è questa rappresentazione allora non è niente – si potrebbe dire, assumendo il numero a simbolo del sapere scientifico, che l’esistere non comincia con un numero e nemmeno con un numero finisce, e che il numero non serve neppure a sciogliere le incognite dell’esistere.

Già. Si potrebbe dire. Ma l’obiezione sarebbe fin troppo facile. Basterebbe riprendere un’affermazione famosa di uno che era di queste parti: “all’inizio e alla fine abbiamo il mistero. Potremmo dire che abbiamo il disegno di Dio. A questo mistero la matematica si avvicina, senza penetrarlo”. Così diceva Ennio De Giorgi.

Il problema, dunque, non si risolve separando o, peggio, contrapponendo; si può tentare di risolverlo soltanto integrando le culture. Edgar Morin evidenzia la necessità di un grande accorpamento delle conoscenze nate dalle scienze naturali, al fine di situare la condizione umana nel mondo, con le conoscenze nate dalle scienze umane per spiegare le multidimensionalità e le complessità umane; di qui la necessità di integrare in queste conoscenze l’apporto inestimabile degli studi umanistici, non soltanto quello della filosofia e della storia, ma anche quello della letteratura, della poesia, dell’arte.  
Ecco, dunque: senza questa conciliazione, questo equilibrio, senza un’attenzione,  da parte di ogni disciplina e di conoscenza, nei confronti della condizione umana soggettiva e collettiva, senza una considerazione di quelle che sono le condizioni e le sfumature esistenziali, le passioni, le gioie, i dolori, le fortune, le sfortune, i destini, le necessità, il coraggio, la paura, la speranza, senza un’attribuzione di valore assoluto a quelle che sono le cose – forse mai completamente decifrabili-  del principio e della fine, senza una consapevolezza che ci sono misteri che nessun tipo di codice potrà mai penetrare – né numero, né parola, né silenzio- davvero ci si può ritrovare nella condizione di barbarie di cui diceva Michel Serres.

Nei tempi che viviamo  e in quelli che verranno la barbarie si può o si potrà presentare con molteplici fisionomie: tutte straordinariamente somiglianti all’inumano.

Nel 1924 Michail Bulgakov scrisse “Le uova fatali”. La trama, ridotta all’essenziale, è questa.

Vladimir Ipat’evic Persikov, luminare di zoologia, scopre un misterioso raggio rosso, capace di accelerare portentosamente la crescita di qualsiasi organismo vivente che vi si trovi esposto. La notizia trapela e viene diffusa con accenti sensazionalistici.

Al direttore di una fattoria modello viene l’ idea di usare il raggio rosso per risollevare le sorti della pollicoltura sovietica messa in crisi da una inarrestabile moria. Persikov si oppone, inutilmente. Dalla Germania vengono importate uova di gallina per dare corso all’esperimento. Ma per errore le uova di gallina vengono recapitate al laboratorio del professore mentre alla fattoria modello arrivano uova di rettili destinate agli esperimenti di Persikov. Sotto l’effetto del raggio rosso queste ultime si schiudono liberando giganteschi serpenti che, distrutta la fattoria, si diffondono per tutte le zone circostanti, moltiplicandosi a ritmo vertiginoso e divorando uomini e animali. Devastano terre e avanzano travolgendo ogni difesa approntata da esercito, aeronautica, dal dipartimento della guerra chimica.

Una metafora che dice la ragione per cui  la scienza ha bisogno dell’umanità e dell’umanesimo  degli scienziati.

Senza umanità, senza umanesimo, smette di creare progresso e comincia a procreare mostri,  a generare barbarie.

 [“Nuovo Quotidiano di Puglia” di mercoledì 25 maggio 2016]

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Basta con i luoghi comuni. I giovani studiano più di prima

Uno dei luoghi comuni più comuni, una delle fantasie più fantasiose, è quella che i ragazzi, i giovani non studino. E’ un luogo comune, una fantasia, una fandonia. Innanzitutto studiano di più, anche solo semplicemente in termini di tempo, di quanto studiavano i giovani di trenta, quaranta anni fa, o generalmente i giovani di sempre, per un fatto di necessità. Perché, in altri tempi, con il diploma o al massimo la laurea si aveva la possibilità di entrare nei territori del lavoro e di attraversarli.

Invece, ormai da qualche decennio e negli ultimi tempi più che in ogni altro tempo, solo per tentare di entrare in quei territori servono le specializzazioni in ogni campo, servono i master, i titoli post laurea. Ecco il motivo per cui, volenti o nolenti, i giovani di adesso studiano di più.

Poi c’è una ragione generale di natura culturale che, indubbiamente, può in qualche modo fuorviare, generare equivoci, determinare apparenze che possono far confondere la sostanza. Si tratta di una ragione rappresentata dai metodi e dai mezzi che adottano per studiare, di cui gli adulti possono anche avere indiretta conoscenza ma di cui non hanno mai avuto modo di fare esperienza.

Una volta un ragazzo si chiudeva in una stanza, sprofondava in una versione di latino, un capitolo di filosofia, un problema di matematica, ci restava anche per ore e poi ritornava in superficie con una traduzione, la comprensione di un concetto, una soluzione. Il rapporto con l’oggetto da conoscere era esclusivo; un faccia a faccia, una sfida. Alla matematica, al latino, alla filosofia, si diceva: adesso a noi due. Qualche volta la sfida si vinceva, qualche altra volta si perdeva. Quando si perdeva si rinnovava, si cercava la rivincita. Più ci si concentrava e prima si vinceva. Uno si chiudeva in una stanza e tutto il mondo era fuori, lontano.

Anche adesso un ragazzo si chiude in una stanza, ma il mondo è tutto lì, in quella stanza. La versione, il problema, la dialettica hegeliana, sono parte di quel mondo, non cosa separata, altra. Non più un tu per tu, un faccia a faccia con quello che c’è da studiare, ma una rete di relazioni, anche complesse, una pluralità di prospettive, una moltiplicazione di richiami. Ora come allora, una sfida. Ora come allora si vince, si perde, si rinnova la sfida. Non una sfida a noi due: ma a noi. Molti. Tanti. Per una sfida così bisogna avere una più forte capacità di negoziare i significati.

Sì, è vero: la pluralità di prospettive e di relazioni, la moltiplicazione dei richiami, la necessità di negoziare i significati, producono quella che noi chiamiamo distrazione.

Però, forse, è proprio su questo che dovremmo soffermarci a ragionare.

Se esiste una distrazione dal compito preciso, dallo specifico obiettivo di apprendimento, al tempo stesso si verifica un’attrazione nei confronti di un altro oggetto di conoscenza che quasi sempre si presenta con un carattere di trasversalità, di pluridisciplinarità, e senza implicare una intenzionalità di apprendimento.

Ma comunque si apprende. In molti casi qualcosa che si riferisce ad un’ altra sfera del sapere, un’altra disciplina, ma si apprende. Il metodo di studio non è lineare, non risponde alle sequenze; è ramificato, obliquo, coerente con la condizione del molteplice, del composito. La molteplicità di testi che circolano nella stanza richiede una molteplicità di prospettive, di sguardi, un continuo lavoro di selezione, di organizzazione dei messaggi.

Allora si tratta semplicemente di considerare che i ragazzi, i giovani, studiano in modo diverso da quello in cui si è sempre studiato, rinunciando al pregiudizio, al luogo comune.

Poi diventa pressoché inevitabile chiedersi se il ragazzo che oggi si chiude in una stanza facendo entrare in quella stanza tutto il mondo, impari di meno o di più di quello che il mondo lo lasciava fuori.

Certo, è inevitabile chiederselo, ma forse la domanda è sbagliata, o comunque impropria, inadeguata.

Forse non dovrebbe riguardarci il quanto – se di più o di meno – ma il come. Forse dovremmo chiederci se il metodo che adotta sia compatibile con il suo modo di essere, con le esperienze di esistere con cui si confronta, con le sue forme di pensiero e i suoi processi di apprendimento.

Ci riguarda questo, sostanzialmente, essenzialmente. Ci riguarda che la maniera in cui studia non gli sia estranea.

Adesso, una maniera che nella fase di studio separi un ragazzo dal suo mondo è una maniera estranea. L’estraneità genera inappartenenza. Allora separare il ragazzo dal suo mondo significa rendere inappartenente quello che deve studiare.

Ecco. Dovremmo chiederci, per esempio, quanto sia coerente con questa condizione di appartenenza sottrargli il computer e il cellulare con i quali fa entrare il mondo nella stanza perché ha riportato un’insufficienza, pensando, illudendoci, che questa sottrazione sia la maniera giusta per aumentare la concentrazione.

E’ vero che anche all’altro ragazzo che si portava addosso il quattro si metteva la catena con il lucchetto alla ruota del motorino. Ma si tratta di cose completamente diverse. Pur non considerando il fatto che c’era sempre quello dell’amico, del motorino si poteva anche fare senza perché si sapeva com’è quando si fa senza. Il ragazzo che oggi si chiude nella stanza non ha mai fatto senza il cellulare. Glielo abbiamo regalato al compimento del primo mese. Appartiene al suo sviluppo, alla sua formazione, alla sua cultura, alle sue abitudini, alla sua vita. Si tratta di una condizione antropologica. Non ha una sveglia, un orologio, un’agenda, un dizionario, una calcolatrice. Ha tutto sullo smartphone. Se non è stato tanto previdente da nasconderne uno nei cassetti in modo da poter affrontare l’evenienza, si ritrova isolato, fuori dal suo mondo, concentrato a gestire quella mancanza e quindi completamente deconcentrato rispetto al problema, alla filosofia, alla versione.

Ah ! signora professoressa, una volta sì che si studiava. Adesso i ragazzi sono presi da tante cose, ma proprio da tante cose che non studiano più.

Un luogo comune, una fantasia, una fandonia, una falsa convinzione, una leggenda popolare.

Se ce ne liberassimo e cominciassimo (noi) a studiare il loro modo di studiare, probabilmente potremmo comprenderli meglio, potremmo (noi) imparare di più.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di mercoledì 15 giugno 2016]

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L’Europa della civiltà è nelle mani dei giovani

Il fatto che in  Gran Bretagna i giovani abbiano  votato in massa per la permanenza nell’Unione Europea, proietta la riflessione molto al di là dell’esito del referendum, connotandola di elementi che assumono significati autenticamente e inequivocabilmente culturali. Si tratta, cioè, di differenze tra visioni del mondo. Le visioni del mondo comportano, tra le molte cose, anche una idea di confine, di frontiera, di scambio, di comunità, di comunione, di comunicazione, e sono determinate, se non esclusivamente comunque prevalentemente, dai processi di formazione. I giovani hanno frequentato e frequentano scuole in cui la formazione alla cittadinanza europea costituisce una delle finalità sostanziali. Di conseguenza hanno l’Europa nella loro geografia esistenziale, pensano in termini – almeno- europei, a livello di studi, di lavoro; si muovono tra i Paesi d’Europa sentendo si appartenere ad ognuno di quei Paesi, sentendo che ognuno di quei Paesi appartiene a loro.

Il senso di appartenenza è quasi sempre  conseguenza di una condizione  naturale o di una condizione culturale, o dell’una e dell’altra che si richiamano  reciprocamente: si sente di appartenere a qualcosa, a qualcuno, oppure  si comprende di appartenere, e spesso si comprende perché un sentimento, un’emozione, sospinge verso la comprensione.

Fin dalla scuola primaria, a volte fin dalla scuola dell’infanzia, insegniamo loro la lingua inglese, come lingua della comunicazione, come lingua di tutti, che consente di essere con tutti.  Per quanti sforzi possano fare, non riescono ad immaginare di dover avere un passaporto per andare in Inghilterra, per poter venire in Italia. Il lasciapassare è totalmente estraneo alle loro categorie. Loro passano: con un volo low cost,per il quale hanno trovato un biglietto che costa anche meno di quello per andare con la littorina da Lecce a Otranto. Passano, e le frontiere degli spazi aerei non si vedono.

Il ragazzo inglese non ce la fa a pensare di avere difficoltà per venire a studiare in Italia; il ragazzo italiano si smarrisce davanti alla prospettiva di avere difficoltà per andare a studiare in Inghilterra. La cosa appartiene al loro progetto di vita. Sono educati, formati anche a questo. Loro non hanno soltanto un concetto, una cultura dell’Europa: nei confronti dell’Europa hanno anche un sentimento.

Così i risultati del referendum li ha lasciati storditi. Adesso si chiedono che cosa succederà.

L’uomo della strada, innocentemente, forse anche incoscientemente, risponde niente; risponde che non succederà niente. Semplicemente faranno un altro referendum, lì, in Gran Bretagna. In poche ore sono state già raccolte due milioni di firme.

All’altro referendum, tutti quelli dai cinquant’anni in su, che questa volta hanno votato per andar via dall’Europa, voteranno in massa “remain”.  Perché nel frattempo avranno riflettuto di più, avranno capito meglio, avranno messo a confronto le loro paure – comprensibili, rispettabili- con i progetti degli altri, saranno arrivati alla conclusione che la più grande paura vale nulla rispetto al più piccolo progetto. Intanto, noi, da qui, da questo Sud del Sud di un Paese d’Europa, gli manderemo una cartolina con i versi di un poeta che era di queste parti e  che dicono così: “ Il Sud ci fu padre / e nostra madre l’Europa”. Quando Vittorio Bodini scriveva questi versi era il principio degli anni Cinquanta. L’Europa era molto lontana, allora, dal Sud, ma questi versi rappresentavano una esplicita dichiarazione di cittadinanza naturale, profondamente radicata nella dimensione antropologica, una condizione che riconosceva l’origine di una identità.

Un’analisi semplicistica, sicuramente. All’uomo della strada succede abbastanza frequentemente di fare analisi semplicistiche. Però si giustifica considerando che corrispondono ad una speranza. Nel frattempo è consapevole che ci  sono molte questioni che occorre ripensare, rivedere, rivalutare. E’ consapevole che non è bastata e non potrà bastare mai una moneta per costruire una comunità. Un comunità si può costruire su un progetto di esistenze, per le esistenze.

E’ consapevole che bisogna ricominciare, ripartire. Anche se non sa bene da dove ricominciare, da dove ripartire.

Allora gli viene in mente che probabilmente si deve ricominciare dai risultati del referendum, da quei dati che esprimono la volontà dei giovani. Per il semplice fatto che da loro dipende tutto; da loro dipendono anche i destini di tutti coloro che non lo sono.

C’è un libro di Jacques Le Goff che si intitola “L’Europa raccontata ai ragazzi”. A pag. 130, l’ultima pagina, il grande storico francese scrive che l’Europa non deve essere soltanto al servizio dell’economia, del denaro, degli affari, degli interessi materiali. Deve essere un’Europa della civiltà, della cultura. E’ questa la sua carta vincente perché è questa la sua eredità più preziosa.

Deve essere un’Europa dei diritti dell’uomo – un principio che essa ha creato – della donna, dei bambini. Un’Europa più giusta, che lotti contro le ineguaglianze, la disoccupazione, la discriminazione, mali che soltanto uniti gli europei potranno far scomparire. Scrive Le Goff: io penso che la realizzazione di un’Europa bella e giusta sia il grande progetto che si offre alle nuove generazioni.

Ecco:  quest’ultima pagina deve diventare la prima di un nuovo racconto che dice di un’Europa della solidarietà, della pace, della cooperazione, dello sviluppo, della democrazia, del progresso, dell’integrazione, della libera ricerca e del libero lavoro. Da quest’ultima pagina, da un grande progetto che si affida ai giovani, si deve necessariamente, urgentemente ricominciare.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di lunedì 27 giugno 2016]

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Soltanto la memoria rende autentica una civiltà

A volte è soltanto un’impressione, forte o leggera. Altre volte è un’idea che matura con l’osservazione di noi stessi e degli altri, quindi un’esperienza che si fa con intenzionalità oppure senza.

Quell’impressione, quell’idea, quell’esperienza non ci piace, non ci convince, in qualche caso ci inquieta, e allora cerchiamo di fugare l’impressione, di smentire l’idea, di negare l’esperienza. Ma quanto più tentiamo di farlo, tanto più l’impressione si fortifica, l’idea assume compiutezza, l’esperienza ci conferma che non abbiamo più capacità di memoria, oppure che la nostra memoria è frammentaria, sfilacciata, senza coesione  e senza consistenza, disorganica, superficiale, priva di ogni profondità, occasionale, confusa, indeterminata, informe, incerta.

Quello che accade passa con straordinaria rapidità, spesso anche con straordinaria indifferenza. Così ci resta un poco che non ci consente di mettere in relazione i fatti  con quello che è accaduto prima e dopo. Resta circoscritto, e quindi senza la compiutezza di un significato.

Indubbiamente ognuno di noi ha una propria risposta sul perché accada questo. Probabilmente molti pensano che la frammentarietà della memoria  sia provocata dalla quantità di accadimenti che si verificano a livello individuale e collettivo per cui mettiamo in atto dei meccanismi quasi di difesa, come se volessimo evitare che l’onda ci travolga. Per un istinto di sopravvivenza, dunque.

Molti altri pensano che sia la quantità difficilmente governabile, o assolutamente ingovernabile, di informazioni a impedirci di ritenere le cose. Questa condizione di sovrabbondanza, l’eccesso di informazione, gli strumenti sofisticati che conservano l’informazione,  determinano anche l’illusione che si possa recuperare tutto quello che si è dimenticato quando ci vuole, all’occorrenza.

E’ sufficiente un clic e ci si ritrova in un archivio sconfinato, in una sconfinata biblioteca.  La memoria è lì, o almeno così ci sembra. E’ proprio questa l’illusione. In realtà non si tratta di memoria, ma ancora una volta di informazione che ripristiniamo in un momento in cui ci serve e che poi scompare ancora, nel momento in cui non ci serve più.

Non è in questa falsa memoria che possiamo confidare per collocare le situazioni in un contesto e quindi per poterle comprendere. E’ difficile comprendere qualcosa di decontestualizzato, estromesso dalla rete dei fatti e dei relativi significati, dalle interdipendenze di cause ed effetti.

Per cui spesso ci si ritrova a confrontarsi, a livello individuale e collettivo, con fatti di cui non si comprendono i significati.

Ma poi  si potrebbe anche ipotizzare una terza risposta; questa: non abbiamo più interesse per la memoria; non ci interessa più ricordare. L’informazione funzionale ci basta. Ci basta la superficie della notizia che dopo poco, pochissimo tempo si discioglie.

Se ci si guarda intorno, se si cerca di capire in che modo sia possibile tentare di alzare un argine al dilagare della dimenticanza collettiva,  si avverte una sensazione di inevitabilità. Forse l’unica possibilità la si può rintracciare in un processo di formazione che ricostituisca  l’interesse per la memoria.

Non si può insegnare la memoria; si può insegnare la tensione, l’attenzione verso di essa; si può insegnare la cura,  l’interesse. Si può anche insegnare l’affetto. In fondo basta poco. Basta semplicemente indurre a comprendere che non potrebbe esserci nessuna scienza senza memoria, nessuna espressione, nessuna parola. Ogni volta che pronunciamo una parola la riprendiamo dalla nostra memoria, ogni volta che impieghiamo un numero, ogni volta che camminiamo per le strade di una città, del nostro piccolo paese. Essere significa avere memoria. Una persona senza memoria non ha legami. Una comunità senza memoria non ha vincoli positivi di sentimenti e di idee.

Ecco. Forse è necessario insegnare a provare affetto per la memoria. Che vuol dire provare affetto per le creature, i luoghi, le storie da cui si proviene, per tutto quello che ci ha fatto nel modo in cui siamo.

Per esempio: uno dei più drammatici errori che negli anni passati ha potuto compiere una certa pedagogia dell’opportunismo, è stato quello di rifiutare la pratica di mandare le poesie a memoria. Dicevano che non serviva, che si trattava di un esercizio mnemonico finalizzato a se stesso. Era falso. Imparare le poesie a memoria significava crearsi una antologia interiore alla quale riferirsi nella costruzione della comprensione dei fatti che accadevano nella vita.

A volte succede di pensare e di dire che abitiamo un’epoca caratterizzata da molte forme di superficialità.

Può essere falso, può essere vero, ma ci accade di dirlo e quindi con molta probabilità è un po’ falso e un po’ vero.

Non si può escludere che la  parte appartenente al vero sia causata proprio dalla rarefazione della memoria, dalla decomposizione delle sue stratificazioni, per cui si ha l’impressione che il fatto che accade derivi dal niente o, al massimo, da un altro fatto accaduto appena ieri. Non guardiamo in fondo, non siamo in grado di guardare, perché non abbiamo memoria. La Storia diventa un racconto confuso nel quale non si riesce a comprendere la trama, l’intreccio, di cui non si riconoscono i personaggi e le loro funzioni.

E’ difficile pensare che una persona senza memoria possa esistere e rappresentarsi autenticamente. Altrettanto difficile è pensare che possa esistere e rappresentarsi autenticamente una civiltà senza memoria.

Mi viene in mente una frase che ho letto da qualche parte tempo fa. Diceva: un popolo senza memoria è destinato a morire di freddo.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 10 luglio 2016]

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L’autenticità culturale si trova in provincia

Una volta la provincia era il luogo in cui si viveva con la speranza di poter fuggire. Era la condizione di impedimento, di negazione; era l’infinito ripetersi  delle esperienze, dei fatti, delle storie. Tutto cominciava e tutto si concludeva sempre all’identico modo. Senza sviluppo, senza trasformazione.

Era tutto già visto, già sentito,  già detto. Vivere in provincia era rabbia trattenuta, una frustrazione esistenziale, culturale.

Sì, qualche consolazione: gli amici, gli affetti.  Basta.

La provincia era sempre una relazione che mancava, un confronto soltanto con se stessi o con chi vedeva il mondo con i tuoi stessi occhi, pensava con il tuo stesso pensiero, aveva la stessa malinconia, lo stesso desiderio, e conosceva i paesaggi che conoscevi tu, aveva letto i libri che avevi letto tu, visto gli stessi film, sentito le stesse canzoni.

Questa provincia, per esempio, noi la chiamammo difficile, esule, periferia infinita.

Chi aveva qualcosa da fare, qualcosa da dire, un sogno, un progetto,  un disegno nel pensiero, non poteva fare altro che pensare di fuggire, tentare di fuggire.

Una volta la provincia era così: un deserto che generava miraggi. A miraggi spenti, era noia, isolamento, stanchezza.

Poi sono venute le stagioni della scoperta. Quando il centro, i centri, si sono trasformati in non luoghi, in luoghi dell’inautentico, allora si è scoperta l’autenticità della provincia: nelle relazioni, nelle osservazioni e nelle valutazioni degli accadimenti; si è scoperta la possibilità di prospettive diverse, di più profonde interpretazioni, e se erano più rare le occasioni di incontro, di confronto, allo stesso tempo assumevano valenze ulteriori rispetto a quelle proposte dalle metropoli. Quando i centri si sono appiattiti, conformati, quando hanno profilato identità indistinte, senza connotazione, la provincia ha prospettato le opportunità che derivavano dalla integrazione delle identità culturali.

Allora anche le espressioni culturali della provincia si sono caricate di significati originali, non sottomessi o non vincolati alle logiche devianti del mercato, alla spietatezza di una produzione che rispondeva agli imperativi del consumo, dell’utile a qualsiasi costo. Allora si pensò che avesse davvero ragione quell’intellettuale sempre fuori da qualsiasi coro e da qualsiasi scuderia che fu Luciano Bianciardi, quando ne “Il lavoro culturale”, uscito nel 1957, diceva che uno scrittore dovrebbe vivere in provincia perché la provincia è un campo di osservazione di prim’ordine. I fenomeni, sociali, umani e di costume, che altrove sono dispersi, lontani, spesso alterati, indecifrabili, nella provincia li hai sottomano, compatti, vicini, esatti, reali.

Il termine scrittore stava a significare il lavoro culturale, quello che richiede osservazione, riflessione, proiezione di pensiero, sperimentazione, elaborazione di forme nuove  e nuovi significati, interpretazione della Storia con una diversa grammatica della visione.

Letterature, teatri, pitture, la ricerca e l’innovazione, hanno trovato nella provincia la ragione e la motivazione per andare oltre le codificazioni, con un tratto distintivo, una qualità che solo la provincia si ritrovava quale patrimonio culturale e che consisteva nelle stratificazioni di una tradizione che si offriva per essere rielaborata, codificata in modo diverso, risemantizzata.

In qualche caso la tradizione è stata un vincolo, forse più esattamente una pastoia. Bisogna dirlo. Lo è stata, per esempio, quando ha trasformato il folclore in folclorismo, quando ha cristallizzato l’espressione, si è fatta clichè. Invece è stata una condizione di innovazione quando si è costituita come struttura sulla quale innestare linguaggi nuovi.

Quando la provincia è stata questo, è questo, il lavoro culturale ha assunto ed assume la caratteristica e il senso di un’avventura. Dell’andare oltre, appunto. Forse l’andare oltre è determinato da motivazioni psicologiche profonde. Perché si ha l’impressione che dalla provincia, dalla periferia, lo sguardo sia impedito da un limite, da uno sbarramento che si alza sui confini e non permette di vedere di là. Ma è proprio questo impedimento che dà origine alla sfida. Non potendo vedere, o fare esperienza, o governare, quello che c’è di là, si è motivati, talvolta costretti a maturare nuovi concetti, prospettive diverse, a servirsi di strumenti d’indagine che al centro – ai centri – sono sconosciuti.

Probabilmente non è un caso che la grande letteratura dell’Ottocento e del Novecento  si sia generata in provincia o abbia avuto la provincia come territorio da perlustrare.

Il piccolo mondo come misura del mondo; la microstoria come situazione che consente di comprendere la macrostoria, o che consente almeno di operare il tentativo  di comprenderla; il confronto con l’umanità attraverso il confronto con l’umano che ci è vicino.

Poi. La provincia è abitata dai provinciali.

I provinciali sono, ad un tempo, indolenti e laboriosi, sono sconsiderati e sono giudiziosi, razionali e superstiziosi, passionali e distaccati, ingenui e maliziosi, sedentari e avventurieri, solitari e compagnoni, scettici ottimisti, allegri  malinconici,   diffidenti  fiduciosi, giocano  in squadra come se giocassero da soli. Sono questo e sono altro, molto altro, in ogni contesto,  in ogni  circostanza. Lo sono anche quando studiano, quando scrivono, dipingono, fanno musica, teatro, riviste, giornali.

Ma accade che il provinciale venga accusato di provincialismo. E’ sempre accaduto; continua ad accadere.

Non c’è nulla di più provinciale dell’accusa di provincialismo, diceva un provinciale come Leonardo Sciascia. Poi si chiedeva che cosa si intende per provincialismo: il vivere in provincia o il comportarsi secondo canoni di arretratezza, di incultura, di barbarie? Secondo questa accezione si può essere provinciali in qualsiasi grande, immensa città.

In realtà il provinciale è colui che rifiuta e combatte ogni espressione di provincialismo. Il provinciale è colui che gira il mondo con il pensiero e poi si ferma sulla panchina di una piazzetta solitaria per riflettere su quello che ha visto.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di lunedì 18 luglio 2016]

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L’importanza del latino a scuola per imparare a comunicare

Sono passati più di cinquant’anni. Ormai l’errore è diventato storia e per  molti aspetti ha cancellato la conoscenza della condizione preesistente all’errore. Era il giorno di San Silvestro dell’anno 1962.  Erano stagioni  di contrasti, di contraddizioni che scorrevano in superficie o sotterraneamente. Il boom economico qualche volta era realtà, qualche altra volta un’illusione. I paesi del Sud cominciavano a svuotarsi: restavano le donne e i bambini. Le città del Nord cominciavano a gonfiarsi di quartieri dormitorio. Il gelato costava venti lire e un quotidiano quaranta. Con trecento lire si poteva andare a vedere “Otto e mezzo” di Fellini e “L’eclisse” di Antonioni: nelle città.  Nei paesi c’era la televisione al bar e i film nella sala parrocchiale con la pellicola che misteriosamente si spezzava esattamente al punto in cui lei e lui si sfioravano le labbra nel tentativo di un castissimo bacio. In quell’anno usciva “La vita agra” di Luciano Bianciardi. Un catalogo di quello che sarebbe accaduto nel futuro prossimo prossimo. Un’analisi lucida e circostanziata dell’insorgente fenomeno del consumismo, il ritratto fedele e sconsolato di uomini e donne con gli occhi arsi della “febris emitoria”, che non vedono nulla, ti urtano coi gomiti, ti travolgono insieme a loro verso il bottegone. Una fotografia sociologica della città che si trasforma in metropoli e diventa un luogo in cui non trovi le persone ma soltanto le loro immagini, il loro spettro, gli ultracorpi, gli ectoplasmi, esseri provenienti da dimensioni alienate, rabbiosi sempre.

Un appello accorato, un’esortazione alla salvezza. Scriveva Bianciardi: “Occorre che la gente impari a non muoversi, a non collaborare, a non produrre, a non farsi nascere bisogni nuovi, anzi a rinunciare a quelli che ha”.

Nell’ebbrezza del nuovo avanzante, l’errore sembrò una conquista, uno dei risultati del miracolo italiano, paragonabile all’utilitaria, al frigorifero, al televisore, ai supermercati, al cha cha cha. Ai quiz di Mike, alla settimana bianca, al panettone Motta.

Infatti l’errore arrivò come il panettone della vigilia di Capodanno. Era l’articolo 2 della legge n. 1859 del 31 dicembre 1962: Istituzione e ordinamento della scuola media statale. Una legge importante, senza dubbio, benedetta,  che però commetteva l’errore di destinare il latino ad insegnamento di integrazione dell’italiano in seconda classe ( e fin qui si potrebbe anche non eccepire completamente) e facoltativo in terza classe (e da questo punto in poi da eccepire ci sarebbe molto e forse tutto).

Il passo che ha portato il latino dalla condizione di insegnamento facoltativo a quello di insegnamento eliminato, è stato  spontaneo, leggero, forse anche aspettato e maturato nel tempo di quindici anni. Bastò che una legge del 16 giugno del ’77, che recava il numero 348, abrogasse quasi tutti i commi dell’art. 2 della legge precedente.

Il primo di gennaio di quell’anno c’era stata l’ultima puntata di Carosello. In aprile Dario Fo era tornato in televisione con Mistero Buffo. Sotto i banchi delle scuole della Nazione si leggeva furtivamente Porci con le ali di Rocco e Antonia uscito nel novembre dell’anno prima nella collana “Il pane e le rose” della Savelli.  Sui muri si scriveva: “Perché ti accontenti dell’azzurro se puoi avere il mare?”.

Forse in questo clima l’errore fu travestito da gesto di coerenza. Sembrò, forse, un ossequio doveroso ai tempi che cambiavano abito e portamento. Forse si pensò che così facendo si introducesse la scuola in una dimensione di modernità. Oppure, più semplicemente e più verosimilmente, si faceva espiare al capro più vecchio una colpa mai chiaramente sentenziata.

Ma nonostante il tempo che è passato e nonostante i radicali mutamenti culturali che in questo tempo si sono verificati, da più parti costantemente si ribadisce l’essenzialità del latino in un moderno processo di formazione anche, e forse soprattutto, in necessaria (indispensabile, ormai urgente) prospettiva di integrazione delle culture.

Qualche giorno fa su “La Repubblica” Salvatore Settis sosteneva che “Quel che serve è un vero rilancio del latino come palestra per le generazioni future, tenendo in conto anche le sue enormi potenzialità come piattaforma di intercomprensione fra le lingue romanze, gigantesco serbatoio linguistico da cui pescano anche le lingue germaniche e slave, apparato concettuale che favorisce la comunicazione fra le culture.

Il latino come dispositivo della memoria culturale, diceva ancora Settis, come versatile interfaccia multilingue, come ponte o viadotto verso altre culture. Il latino come lingua viva, perché vive nelle lingue che parliamo. Questo, e non un’impalcatura di precetti, dovrebbe saper trasmettere la nostra scuola.

“Nostra”, cioè quanto meno europea.  Poi si chiedeva: “Questa Europa delle tecnologie saprà inventare una nuova didattica del latino che contribuisca all’intercomprensione culturale? E l’Italia, dove il latino è nato, avrà in merito qualcosa da dire?”.

Le dinamiche della comunicazione si fanno sempre più complesse.

Il confronto con il latino – e con il greco – comporta l’assimilazione graduale delle strutture sintattiche e formali dell’argomentazione; possedere quelle strutture vuol dire essere in grado di stabilire e gestire situazioni comunicative complesse.

Allora, se si pensa che l’errore sia stato quello di eliminare il latino dalla scuola media, si pensa anche  giusto, ma si pensa parziale. L’errore è strutturato nell’idea di formazione e di cultura che sta dietro e dentro l’eliminazione. Si pensa giusto ma comunque molto parziale anche quando si pensa che l’errore sia stato soltanto di tipo linguistico, correlato quindi all’apprendimento di una lingua. L’errore è relativo alla dimensione di una civiltà di cui una lingua è sempre l’elemento identificativo e speculare.

Non si studia il latino per imparare il latino. Si studia il latino per imparare tutto il resto.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di martedì 23 agosto 2016]

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I giovani e il Sud: energia essenziale per lo sviluppo

L’energia di una terra probabilmente si misura dalla presenza attiva dei giovani e dal loro livello di formazione e di cultura. E’ questa condizione che più di ogni altra cambia il modo di pensare, che  consente il progresso, lo sviluppo, la positiva trasformazione sociale, economica, culturale, che orienta le prospettive, che incide sui destini individuali e collettivi. Tutto il resto viene dopo semplicemente perché è dall’energia delle generazioni che vengono che risulta determinato. Allora si avverte un po’ di preoccupazione, qualche volta anche un po’ di spavento, si prova molta rabbia,  quando le osservazioni dei fenomeni, la conoscenza dei fatti, i risultati delle indagini dicono che quell’energia non cresce o che addirittura diminuisce. Si prova preoccupazione, si prova  spavento, rabbia,  per un presente che confina con il deserto del futuro.

Per esempio accade riflettendo sui dati dell’indagine Almalaurea. Certo, negli ultimi dieci anni le iscrizioni all’università sono diminuite in tutt’Italia, ma in modo differenziato. Il Sud ha pagato il prezzo più alto: non soltanto per la diminuzione delle immatricolazioni, ma anche per i costanti e crescenti flussi di mobilità dei giovani che da qui se ne vanno nelle altre regioni del Paese, o se ne vanno all’estero. Se ne vanno e spesso non ritornano. Non ritornano quasi mai.

Ragionare sui motivi per i quali  sia sempre il Sud a pagare il prezzo più alto, indagare le cause storiche, analizzare le circostanze, sarebbe discorso lungo, complesso, che avrebbe bisogno di una pluralità di punti di vista e di contributi da parte di specialisti dei diversi settori. Poi è anche vero che da secoli i punti di vista si incrociano e gli specialisti dei diversi settori forniscono gli esiti delle loro ricerche, le loro approfondite considerazioni. La situazione rimane comunque immutata e   continua a rimbombare  l’eco di quel comando  che Eduardo De Filippo diede una volta ai giovani del Sud: fuitevenne. Se avete qualcosa da fare, se avete qualcosa da dire, fuitevenne, andate via da qui.

Però noi, adesso, da qui, vorremmo permetterci di dire il contrario. Vorremmo dir loro, con sentimento e ragione, di  studiare qui, di restate qui. Di far correre qui i loro pensieri. Di tenersi tutta la bellezza che c’è qui; di trasformare in bellezza la bruttezza che c’è qui, come c’è in tutto il mondo, di portare correnti impetuose negli stagni,  di far funzionare tutto quello che non funziona, di piantare alberi, fare giardini, scrivere libri, servire la scienza. Smentite i vaticini. Ribaltate la storia. Da qui. Inventare il futuro: da qui.

Con la consapevolezza che ci saranno molti più sacrifici da fare, che questa terra pretende molto e dà molto poco, che scorciatoie non ce ne sono e che se ci sono non le devono prendere.

Secondo  Almalaurea, dunque, l’andamento delle immatricolazioni dimostra che dopo l ’aumento registrato dal 2000 al 2003, legato soprattutto al rientro nel sistema universitario di ampie fasce di popolazione di età adulta, e nonostante la leggera ripresa registrata nell’ultimo anno, dal 2003 al 2015 le università hanno perso nel complesso quasi 70 mila matricole con una più forte contrazione al Sud.

Su tale risultato incidono vari fattori, non tutti connessi agli atenei. In primo luogo, il calo demografico: negli ultimi 30 anni in Italia la popolazione diciannovenne è diminuita di oltre il 40%. Sebbene non si siano registrate particolari differenze a livello territoriale, secondo le previsioni Istat nei prossimi 15 anni questa contrazione interesserà soprattutto le aree del Mezzogiorno, inasprendo ancora di più le già evidenti differenze territoriali. Si stima che entro il 2030  la popolazione diciannovenne crescerà nelle regioni del Nord  anche  a causa dei flussi di immigrazione, e diminuirà

al Sud. Un altro elemento che ha senz’altro influito sul calo delle immatricolazioni è la contrazione del tasso di passaggio dalla scuola secondaria di secondo grado all’università. I dati mostrano che, corresponsabile anche la crisi, tale quota è diminuita in tutte le aree del Paese ma  nel Mezzogiorno il tasso di passaggio è inferiore a quello del Centro e del Nord.

Gli studiosi sostengono e ribadiscono che un’economia positiva e solidale, la riduzione del debito  pubblico, la stabilità e la produttività degli investimenti, l’incremento del reddito, l’evoluzione dei mercati, la ripresa dell’occupazione, la cura di quella ferita della civiltà che è la disoccupazione, sono condizioni che devono necessariamente passare per la strada della formazione, della qualificazione o riqualificazione degli apprendimenti e delle professionalità, della partecipazione attiva e consapevole all’informazione e al sapere. Probabilmente è solo attraverso i processi  di  formazione e di cultura  che questo può accadere e che si può ridurre il divario tra Nord e Sud. Se altre ragioni  non ce ne fossero, basterebbe questa soltanto a motivare la scelta dei giovani di studiare, vivere, lavorare al Sud. Senza rinunciare a girare il mondo. Senza rinunciare a ritornare qui.

Perché sono essenziali, qui, a Sud.

 [“Nuovo Quotidiano di Puglia” di martedì 30 agosto 2016]

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La parità delle culture umanistica e scientifica

Avrei voluto scrivere io l’articolo che qualche giorno fa ha scritto Nicola Gardini sul “Sole 24Ore” in difesa del liceo classico. In difesa, appunto: dagli attacchi che da più parti vengono sferrati, dall’assedio che lo stringe con pregiudizi assolutamente immotivati. Con la precisazione che difenderei qualsiasi altro liceo o tecnico o professionale, se si ritrovasse nella stessa sorte ingiustificata e che da parte mia non c’è nessuna ragione di memoria  in quanto non ho frequentato il classico ma il magistrale e se avessi la bella età in cui  si finisce la scuola media farei la stessa scelta e mi iscriverei al liceo delle scienze umane, come si chiama adesso il magistrale. Allora, Gardini non esita a sostenere che il liceo classico rappresenti l’esperimento di pedagogia più geniale e più fruttuoso che un governo occidentale abbia mai messo in piedi. Ancora: dice che lo studio delle lingue classiche è scienza tanto quanto lo studio delle leggi della materia o della gravitazione universale. La stessa fisica è un sapere storico, perché analizza campioni di realtà che viaggiano e si trasformano nel tempo. Indipendentemente dall’oggetto esaminato, scienza è tutto quello che richiede osservazione, comparazione, sistematizzazione, speculazione là dove i dati mancano, proiezione in avanti. In termini assiologici o gnoseologici non esiste differenza tra lo studio di un frammento di papiro e quello di un neutrino. E questo è così vero che sul latino e sul greco si sono addestrati e si possono ancora addestrare informatici, fisici, ingegneri, medici ed economisti.

Gli attacchi nei confronti del liceo classico provengono, sostanzialmente,  da un grande equivoco culturale. Anzi da due.

Il primo riguarda lo spot sulla spendibilità del sapere, dell’utile assoluto, del pratico, del pragmatico necessariamente. Per esempio: la conoscenza di una lingua antica non è spendibile. Però forse non si pensa che l’apprendimento di quella lingua che non serve, che non è spendibile, costituisca la struttura cognitiva sulla quale innestare apprendimenti essenziali, pragmatici, funzionali.

Ma al pratico, all’utile immediato, non serve nemmeno  Mozart, non serve Dante, non serve Caravaggio; non serve Virgilio ed ancora meno Omero. Non ci danno nulla che si possa consumare. Però non ci poniamo la domanda se per caso quel sapere senza moneta non sia la lente che consente di guardare oltre quello che si vede e soprattutto di guardare in fondo, di perforare la superficie delle cose, di comprendere di più, di comprendere meglio tutto quello che abbiamo intorno, che abbiamo dentro, tutto quello che ci serve ad ogni ora del giorno. Forse non ci facciamo venire il dubbio che  quello che non serve ora e qui  si possa rivelare utile per l’essere e l’esistere in tutta la sua durata, per la definizione di una personalità che sia in grado di confrontarsi con le diverse forme del sapere, che sappia interpretare le storie e le espressioni con le quali la natura e la cultura si manifestano,  si esprimono.

Il secondo equivoco è costituito dalla separazione di cultura umanistica e cultura scientifica. Ne abbiamo parlato in altre occasioni su questo giornale. Già la distinzione tra culture è un’operazione  anacronistica e arbitraria, costituita da codificazioni prodotte attraverso astrazioni e, frequentemente, attraverso pregiudizi. Domandarsi se serva una o l’altra è come domandarsi se serva il pane o l’acqua.

Presentando una nuova edizione dell’iPad, Steve Jobs disse che nel Dna della Apple è inscritta  la consapevolezza che per produrre  risultati entusiasmanti la tecnologia dev’essere necessariamente coniugata alle scienze umane.

Mark Zuckerberg, l’inventore di facebook, il trentenne con un patrimonio che si aggira intorno ai 25 miliardi di dollari, era uno studente di materie umanistiche, tra cui il greco antico, con una grande passione per l’informatica.

Si tratta solo di riferimenti, niente di più.

Probabilmente quello che serve, più di ogni altra cosa, è la formazione di un pensiero che capace di orientarsi in relazione ai problemi con cui si ritrova a confrontarsi, alle situazioni che si ritrova ad attraversare, e i problemi, le situazioni, appartengono a volte alla dimensione del conoscibile ed altre volte a quella dell’inconoscibile, a quella della concretezza o dell’astrazione, dei conti della spesa e della riflessione sui destini.

Così a volte ci serve la conoscenza di un teorema e a volte quella di una poesia, a volte una nozione di biologia ed altre il riferimento ad una filosofia, a volte ci serve la conoscenza della storia e a volte quella della geometria, anche se a mio modestissimo avviso la conoscenza della storia è più urgente rispetto alla geometria. Ci sono occasioni in cui ci serve la chimica ed altre la memoria di una fiaba. Chi può negare che sia così. Allora la separazione tra le due culture è semplicemente la negazione di una condizione di natura. Perché tanto una quanto l’altra si occupano del mondo e delle sue creature, si preoccupano di indicarci direzioni per non farci disperdere nei boschi che ogni giorno attraversiamo, indagano la condizione in cui siamo stati, in cui siamo, si proiettano in quella in cui saremo, cercano soluzioni agli enigmi. L’una e l’altra raccontano il mondo con parole diverse.

L’una e l’altra sanno che la conoscenza è semplicemente una necessità che consente il tentativo di dare risposte agli interrogativi. Ma sanno anche che la conoscenza include la consapevolezza che esistono interrogativi ai quali non è possibile dare una risposta.

 [“Nuovo Quotidiano di Puglia” di mercoledì 7 settembre 2016]

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Il tempo rubato alla lettura e alla scrittura

In un articolo apparso su “La lettura”, l’inserto del “Corriere della Sera”, Paolo Giordano sostiene, tra l’altro, che i social network hanno rosicchiato i bordi già malridotti dei nostri spazi di lettura tradizionale. E’ una condizione di cui molti di noi fanno esperienza costante, a volte con sofferenza, a volte con indifferenza. E’ un peccato che stiamo commettendo, a volte con coscienza delle conseguenze, a volte incoscientemente. Ma se questo peccato, dice Giordano, può essere considerato come veniale per il lettore comune, per chi ha la sconsiderata arroganza di scrivere diventa irreparabilmente mortale. Dice che ci sono scrittori che non si bastano più in quanto tali, un po’ perché stimolati dalla possibilità infinita di espressione, un po’ perché terrorizzati dalla previsione di una inesorabile estinzione. Perché si sa che ciclicamente si annuncia solennemente la definitiva scomparsa della narrazione e dei narratori,  senza fermarsi appena appena a considerare che se l’atto del narrare è stato un’invenzione del primo uomo cui fu dato il nome di Adamo, la sua fine non potrà che coincidere con la fine di quello che sarà l’ultimo uomo.

Ma in relazione alla lettura e alla scrittura, si pone – s’impone- il problema del tempo. Come  s’impone per qualsiasi altra attività, come s’impone per l’esistere, drammaticamente. Se chi scrive impegna pensieri ed energie a comporre post e twitt, a monitorare “mi piace” e condivisioni, a rispondere ai commenti, a cercare consensi, a dibattere su massimi e minimi sistemi con gli abitanti dell’intero universo, inevitabilmente  sottrae pensieri ed energie a quel progetto di scrittura che elabora nella testa. Inoltre, si deve tener conto del fatto che poi esiste la posta elettronica ordinaria, quella che se per un solo giorno non la apri il giorno dopo  straripa e ti sommerge, che ti richiede un tempo nient’affatto trascurabile per la lettura, per la risposta, per cestinare senza lettura; si deve tener conto che poi esistono le telefonate normali, i messaggi sul cellulare. Così il tempo per scrivere si riduce, i pensieri senza concentrazione si sbrindellano, le interruzioni e le distrazioni diventano sistematiche rendendo discontinuo, asistematico l’impegno, compromettendo la qualità degli esiti.

Secondo un calcolo fatto da Giordano, le ore migliori di creatività, quelle che ogni onesto artigiano della scrittura dovrebbe dedicare al suo lavoro, vanno da due a quattro al giorno. Spesso sono ore rubate a morsi feroci all’alba o alla notte, al sabato, alla domenica, alle persone che ti sono intorno, che spesso comprendono, che in qualche caso non comprendono ma comunque assecondano. Per ricavare quel minimo di due ore bisogna sacrificare se stessi e soprattutto e meschinamente gli altri, le persone che ti sono vicine,  facendo i conti con il senso di colpa, quasi mai chiaramente confessato. Allora uno si domanda per quale ragione deve dissipare il proprio tempo a commareggiare sui social; per quale ragione deve banalizzare il proprio sacrificio, tradire il sacrificio di quelle persone vicine che comprendono e assecondano una tensione verso la scrittura, verso una passione o un mestiere. Allora uno si domanda questo e  una riposta non la trova e non trovandola mette lo smartphone sotto i piedi e lo trasforma in frammenti. Lo fa per dignità, per onestà, per rispetto. Non lo fa per spocchia, dice Giordano, né per sfidare l’estinzione. Lo fa perché deve dare un senso al sacrificio. Non gli importa se sarà dimenticato, se quando pubblicherà un altro libro, da tutti o quasi da tutti sarà confuso con un esordiente. Non gliene frega niente. Vuole semplicemente dare un senso al tempo che gli appartiene, potersi dire va bene, anche per oggi ho scritto e ho riscritto per dieci volte dieci righe; non sono uscite male, in fondo.

Vuole soltanto avere la soddisfazione di scrivere dieci righe che non sono uscite male: una stupida soddisfazione, certamente: che però lo tiene in pace con se stesso.

Chi scrive è un artigiano, dunque. Non mi fece una buona impressione il falegname che tempo fa passò al cellulare almeno una mezz’ora lasciando in sospeso il lavoro che doveva fare e me che aspettavo che finisse quel lavoro. All’identico modo non mi farebbe una buona impressione uno scrittore che passasse il suo tempo su whatsapp. Nessuno nega che possa utilizzare le risorse della rete per quello che  servono alla sua scrittura, come usa i libri per ricercare, documentarsi, verificare. La cosa che diventa molto discutibile è l’impiego della rete per questioni estranee al lavoro, la connessione che lo sconnette dalla concentrazione sui significati della sua scrittura e sulla forma che vuole attribuire ad essa, impedendogli di scavare. Perché, poi, di questo si tratta, alla fine dei conti. Come in una poesia di Seamus Heaney che si intitola proprio “Scavare”.

Dice che suo padre aveva una vanga e con quella scavava nella terra ghiaiosa. Anche il padre di suo padre aveva una vanga: fendenti e affondi netti, gettandosi le zolle dietro la spalla, andando sempre più giù.

Heaney non ha una vanga; ha una tozza penna tra le dita. Nella traduzione l’ultimo verso fa così: “Scaverò con questa”. Ma per scavare non basta la potenza delle braccia. C’è anche bisogno di molta fatica e sudore, di molta costanza. C’è bisogno di non distrarsi mai mentre si sfida la terra. Se non per un istante, di tanto in tanto: per un sorso d’acqua. Poi alla fine della giornata uno si dice: ecco, anche oggi ho scavato dieci righe. Non sono uscite male come le ho scavate, in fondo.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di lunedì 12 settembre 2016]

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Il sapere per tutti e la trappola di internet

Una delle aspirazioni più grandi della modernità, una delle tensioni  culturali più forti, la visione che arriva più lontano, è quella del sapere per tutti, della possibilità che chiunque possa fare esperienza del conoscere. Fino a un certo punto questa esperienza è stata promessa e assicurata dai libri, soltanto dai libri di scuola, da quelli che si avevano in casa, dalle biblioteche di paese. Negli anni Sessanta, le piccole biblioteche dei paesi sono state un riferimento essenziale, una stazione di posta. Lì, nei pomeriggi d’autunno, d’inverno, si radunava la schiera di bambini di scuola elementare, di ragazzetti di scuola media, che dovevano fare le “ricerche” e che di libri in casa ne avevano pochi e tra i pochi non c’erano quelli che servivano. Fare le ricerche significava, allora, copiare, a mano, sui quaderni o su fogli protocollo interi paragrafi  sui fenici, per esempio, o sull’apparato circolatorio, o sui vulcani, sui fiumi, sui laghi.

Si copiava, dunque, ma copiando si stabiliva una relazione con la struttura della frase, si acquisiva un lessico; si faceva esercizio di scrittura. A un certo punto subentrava la stanchezza, le dita si anchilosavano, il polso si bloccava, e allora per necessità si imparava a rilevare i concetti essenziali,  a riassumere, a fare sintesi. Per copiare, per sintetizzare, si doveva leggere. Spesso distrattamente, certo, però si doveva leggere. Ma soprattutto si imparava a cercare nei libri. Mentre si sfogliava un volume dell’enciclopedia dei ragazzi per trovare l’argomento si scopriva  che  c’erano altri argomenti, che oltre al circolatorio c’era pure l’apparato digerente e quello respiratorio, che quel libro sarebbe potuto servire domani, per fare un’altra ricerca. Il sapere per tutti era in quelle biblioteche che aprivano solitamente dalle tre alle sei del pomeriggio. Però il bibliotecario era sempre un uomo buono. ( Forse non può essere cattivo un uomo che frequenta i libri, molti o pochi che siano). Siccome era un uomo buono, i libri te li faceva anche portare a casa. Non aveva bisogno di segnare il prestito da nessuna parte; non conosceva te, ma sapeva di chi eri figlio, e gli bastava.

Il sapere per tutti, la democrazia del sapere, hanno avuto inizio in quelle biblioteche.

Poi venne internet e con internet si realizzò l’aspirazione del sapere per tutti, senza distinzione di età, di condizione sociale, di spessore della formazione. Oppure si realizzò l’illusione di un sapere per tutti. Perché, forse, tutto quello che si può conoscere immediatamente, senza fatica, senza stratificazione dei significati, non è sapere concreto, sostanziale. Quando venne internet, i bambini della scuola elementare, i ragazzetti della scuola media, non ebbero più il bisogno di attraversare   libri per  gli argomenti delle loro ricerche. Un clic portò loro, immediatamente, un risultato, senza richiedere nessun impegno. Non dovettero più copiare, ma non copiando non stabilirono relazioni con le strutture della frase, non assorbirono lessico. La sintesi divenne il risultato di uno sfioramento del tasto canc, i nessi tra le parti l’esito di un copia e incolla.

Così la contemporaneità ha pensato e continua a pensare di aver realizzato il sogno di un sapere per tutti. Però, viene il sospetto che avesse ragione Thomas Eliot quando diceva che prima abbiamo barattato la sapienza con la conoscenza e poi la conoscenza con l’informazione. Probabilmente non si tratta di un vero sapere per tutti, ma  di una informazione per tutti. Peraltro spesso superficiale. Non sempre tanto significa meglio; non sempre la quantità corrisponde alla qualità. L’informazione per trasformarsi in conoscenza, pretende una competenza di elaborazione, rielaborazione, interpretazione.

Probabilmente l’orizzonte che è necessario delineare è quello di una formazione che sia in grado di contemperare la consistenza della conoscenza e l’universo del digitale. E’ chiaro che indietro non si può tornare, per fortuna. Già un po’ di tempo fa, Nicholas Negroponte nel suo famoso “Esseri digitali” sosteneva che ogni generazione sarà più digitale di quella che l’ha preceduta. Diceva che il mondo digitale porta ad un potenziamento delle capacità umane, che la facilità di accesso alle informazioni, la mobilità e la possibilità di indurre cambiamenti è una condizione che renderà il futuro molto diverso dal presente. Man mano che i bambini potranno accedere liberamente a risorse globali di informazione, troveranno nuovi motivi di speranza e di dignità laddove prima ce n’erano ben pochi. Vorremmo che possa accadere proprio così.

Se davvero il digitale riuscirà a dare a coloro che ci sono e a coloro che verranno nuovi motivi di speranza e di dignità, dipenderà esclusivamente dalla capacità che questa civiltà avrà di garantire non soltanto un’informazione per tutti ma un sapere per tutti elaborato in relazione alla personalità di ciascuno, alla realtà della sua esistenza. Diversamente nei tempi che verranno ci ritroveremo tutti con le stesse  identiche informazioni, useremo  tutti lo stesso identico linguaggio,  diremo tutti la stessa identica cosa che sarà il risultato della schermata che ci rimanderà il computer. Penseremo tutti che questo è bene e quello è male, a seconda del concetto di bene e di male che sarà ricavato da un sondaggio on line.

La dignità, diceva Negroponte. Certo, esiste anche una dignità della conoscenza. Forse la dignità della conoscenza è quella condizione che consente di conquistarsi una libertà di pensiero. Il sapere per tutti dev’essere il sapere di ciascuno. Importa poco oppure importa niente se questo sapere di ciascuno, libero, dignitoso, concreto e fantastico, leggero e profondo, incoerente, anche,  perché democratico, sia portato dai libri di carta o da quelli digitali. L’essenziale è che sia autentico, vitale, che sappia offrirci la possibilità di ritrovarci e, quando occorre, anche di fuggire.

Quasi vent’anni fa usciva, postumo, un libro straordinario di Paul Zumthor intitolato “Babele”. Un testamento intellettuale appassionato e lucido, attraversato da una prefigurazione di scenari, da presentimenti, da previsioni di accadimenti culturali, da speranze fioche  e da timori espressi in modo saggiamente cauto. A un certo punto Zumthor diceva: “Eccoci già, dietro i nostri occhiali speciali, a contemplare una realtà virtuale che esaurisce le possibilità passate, presenti e future, cioè che sospende il destino e intrappola la nostra umanità. Noi, che assistiamo per primi a questa mano di gioco, sapremo, lo spero, tirarci fuori dalla trappola”.

Forse questo è l’ultimo tempo che abbiamo a disposizione. Dopo, forse, dalla trappola non riusciremo ad uscire più.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di mercoledì 21 settembre 2016]

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C’è bisogno di tempo e cultura per capire il significato delle migrazioni

Ci sono due giovani pesci che nuotano e a un certo punto incontrano un pesce anziano che va nella direzione opposta, fa un cenno di saluto e dice: “Salve, ragazzi. Com’è l’acqua?”. I due pesci giovani nuotano un altro po’, poi uno guarda l’altro e fa: “Che cavolo è l’acqua?”.

Con questa storiella David Foster Wallace nell’anno accademico 2005 cominciava il discorso ai laureandi del Kenyon College. (Adesso si può trovare in Questa è l’acqua, Einaudi).

Non saprei dire se Wallace pensasse a Marshall Mc Luhan quando diceva che se c’è una cosa di cui un pesce non ha consapevolezza è l’acqua in cui nuota.

Il succo della storiella dei pesci è semplicemente che le realtà più ovvie, onnipresenti e importanti, sono spesso le più difficili da capire e da discutere.

Questo vale anche per la realtà della cultura o, forse più esattamente, delle culture con cui ci confrontiamo ogni giorno, ogni ora. Per esempio: quasi mai ci domandiamo quali siano le motivazioni o le finalità di un comportamento, del nostro pensiero nei confronti dell’altro e delle relazioni che abbiamo con l’altro, non ci chiediamo per quale ragione cambiamo opinione rispetto a qualcosa, a qualcuno. Non si tratta di inconsapevolezza ma dell’acquisizione di un atteggiamento determinato da condizioni tanto naturali quanto culturali; nemmeno in questo senso facciamo intenzionalmente distinzione, perché la trasformazione si verifica attraverso un’integrazione e un’interazione di naturale e culturale e nel contesto di un processo costante di elaborazione della personalità e della nostra visone del mondo.

Quarant’anni fa, quando cominciarono ad arrivare da queste parti i primi extracomunitari che vendevano tappeti sulle spiagge, avevano bancarelle nei mercati, giravano per i paesi spingendo i carretti di mercanzie, per i bambini, per le donne abituate al fruttivendolo paesano, per gli uomini che aspettavano mezzogiorno sulle panchine della piazza,  parlare con loro era un’esperienza fuori dall’ordinario, che oltretutto richiedeva un impegno per nulla indifferente a livello di comunicazione, per cui tutti portavamo i verbi all’infinito, per esempio, pensando che l’indeterminatezza e l’approssimazione potessero facilitare la comprensione.

Non molti giorni fa, per le strade di Lecce,  ho chiesto un’informazione ad un senegalese che mi ha risposto in dialetto: nel mio dialetto. Quelle parole nella mia lingua di dentro, in quella lingua che spesso uso anche come personale resistenza all’italiano standard e piatto e inespressivo, mi hanno provocato  una sensazione di reciprocità, di appartenenza.  Quelle parole provenienti da un intimo “lontano” facevano diventare vicino il forestiero. E’ straordinariamente vero che la lingua accomuna, mette in comunione, crea comunità.

Adesso, i figli e i figli dei figli  di quegli extracomunitari  ambulanti  frequentano le nostre scuole, le nostre università, vivono accanto a noi, lavorano con noi. Abitano la nostra cultura e noi abitiamo la loro, le mettiamo insieme, e spesso, molto spesso, nemmeno ci si accorge delle differenze, oppure, accorgendosene, si considera assolutamente normale che esistano  e si  considera anche  che le differenze sono una fortuna immensa.

Come i due giovani pesci di cui diceva  David Foster Wallace, non  sappiamo dire cos’è né com’è l’acqua: ci siamo dentro, avvertiamo anche il freddo o il caldo, l’intensità della corrente, ma quell’acqua è il nostro universo. Di essa non potremmo fare a meno. Così è la cultura che ci avvolge con tutte le sue forme, nella quale ci coinvolgiamo, senza farci molte domande, senza congetturare  sulle differenze. Anche quando rivolgiamo ad essa critiche, anche quando ci opponiamo, lo facciamo in quanto sentiamo che ci appartiene, intensamente. Qualche volta accade anche che la critica e l’opposizione siano determinate dalla nostalgia per quello che è stato, per il modo in cui siamo stati in un tempo precedente. Ma poi ci soffermiamo a riflettere e riflettendo ci rendiamo conto che anche prima avevamo nostalgia di un altro prima. Forse è anche normale che sia così, per ogni persona, per ogni generazione.

Forse diventa meno difficile comprendere o discutere le realtà quando  per natura e cultura si trasformano e ci trasformano. Accade con la storia, per esempio. Si può discutere e comprendere i fatti e i personaggi, quando i fatti e i personaggi si sono trasformati, trasformandoci. Finché si vive di giorno in giorno le cose che succedono, finché di quelle cose si è protagonisti, mentre si verifica l’impatto con gli eventi e si è completamente impegnati a governarli, comprenderli diventa complicato. Certo, si reagisce, ma frequentemente si tratta di una reazione emotiva o ideologica, si critica perché si pensa che le cose debbano andare diversamente, ci si oppone per dolore, delusione, malcontento, si discute perché l’evento spesso  squaderna le consuetudini e le certezze, disarticola gli equilibri, introduce incognite nei sistemi di riferimento. Però comprendere profondamente è difficile davvero.

Arrivavano gli ambulanti nei paesi, sulle spiagge. Venivano da un  lontano sconosciuto. Tra coloro che vivevano qui, qualcuno avvertiva disagio, qualcuno avversione, qualcun altro diceva che anche lui era stato ambulante, in un luogo lontano, e conosceva altri che erano stati, che erano ambulanti in un luogo lontano. Il significato che aveva la loro presenza lo si è capito a distanza di tempo.

Così, la marea delle migrazioni di quest’epoca, noi adesso possiamo discuterla sulla base delle nostre legittime ideologie, delle nostre altrettanto legittime paure, anche,  delle  consuetudini e delle  certezze, degli equilibri, dei nostri sistemi di riferimento. Ma   i significati profondi  che assumono nei contesti delle nostre culture e nelle relazioni tra culture, noi potremo comprenderli proprio con i codici della cultura che sarà elaborata dal tempo, con l’esperienza e, probabilmente, anche con un po’ di saggezza che – si spera-  l’esperienza ci potrà portare.

Col tempo e con la cultura, non faremo più caso, se l’acqua è calda o se è fredda. Ci diremo semplicemente: questa e l’acqua, e continueremo a nuotare, sapendo bene che, per una condizione  naturale e culturale, fuori dall’acqua non si sopravvive.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di venerdì 30 Settembre 2016]

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I giovani costretti ad emigrare senza nemmeno nostalgia

Si prova rabbia, delusione, preoccupazione, sconforto, scontento. Soprattutto si prova tristezza. Molta tristezza. Non è una notizia nuova, in fondo. Ma ogni volta che si rinnova, la tristezza aumenta. Gli italiani che se ne vanno all’estero sono sempre di più. Sempre di più i giovani, quelli che hanno fra i diciotto e i trentadue anni. Hanno lauree, specializzazioni, masters, conoscenze, competenze, fantasie. Hanno energie che dovrebbero essere messe a frutto e che invece vengono scoraggiate, mortificate. Allora se ne vanno. Emigrano. Da ogni parte d’Italia: da ogni regione, ogni provincia, ogni paese. Ora come allora. Per qualche decennio si è pensato, si è sperato, che le condizioni che costringevano ad emigrare non si sarebbero più ripresentate. Invece la storia si ripete, dispettosamente. Se ne vanno. Non sappiamo tenerci il loro pensiero, le loro braccia, i loro progetti. Allora se ne vanno. Probabilmente non avranno nemmeno nostalgia. Di cosa dovrebbero avere nostalgia, d’altra parte. Di che cosa: del paesaggio? In ogni luogo del mondo esiste un paesaggio e non è detto che questo sia più bello di un altro. Di che cosa: della gente? Dappertutto esiste la gente e non è detto che qui sia migliore di quella che c’è da qualche altra parte. Certo, ci è sempre piaciuto dire, fino alla retorica anche, ci piace dirlo ancora, ci piacerebbe poter continuare a dirlo che il mio paesaggio non si può paragonare con nessun altro, che la mia gente è la più bella gente del mondo conosciuto; ma poi. Poi resta il fatto che le albe maestose e i tramonti strabilianti non si mangiano, che il mare non si mangia e la gente straordinaria nemmeno. Allora se ne vanno. Faranno le fortune dei luoghi dove andranno. Saranno le terre che lasciano ad essere sfortunate. Non avranno nemmeno nostalgia. Anche perché non considerano il loro movimento come una fuga, un’emigrazione, ma come la possibilità, l’occasione di poter fare quello che hanno sognato, per cui hanno studiato, quello che può evitare alla loro esistenza l’umiliazione del ripiego, della provvisorietà, del precariato, della disoccupazione, della sottoccupazione, del tiriamo a campare. Non avranno nostalgia perché hanno sempre avuto la sensazione o hanno maturato il convincimento che sarebbe andata così. Basta poco per capirlo. Basta guardarsi intorno. Mentre studiavano, mentre studiano, si sono guardati e si guardano intorno. Si guardavano e si guardano intorno e vedevano e vedono il paesaggio, la gente, il mare, e poi il niente di opportunità. Una situazione trasversale: da Sud a Nord.

Quasi sicuramente non torneranno.

Inevitabilmente viene da chiedersi quale potrà essere il destino di questo Paese, e si tende a risparmiarsi ogni risposta. Viene da chiedersi quale sarà il destino culturale, economico, di progresso, di sviluppo, il destino civile in generale, e si ha paura di darsi una risposta. Però la tristezza si fa più dura, anche perché si considera che nel tempo di decenni la situazione anziché migliorare è andata sistematicamente e progressivamente peggiorando, determinando una mentalità, una visione e una interpretazione della realtà. Loro, quelli che chiamiamo Millennials, quelli che con una tastiera sotto le dita riescono a configurare l’universo, sanno già durante gli anni degli studi che se ne dovranno andare, per cui, più o meno consapevolmente, si affezionano al minimo che possono ai luoghi, alla gente. A pensarci, per loro non è una condizione di negatività. La condizione di negatività riguarda il Paese. Se gli altri Paesi accolgono i nostri ricercatori, per esempio, non è che lo facciano così, perché sono votati all’accoglienza; lo fanno con la cognizione che il loro contributo, l’entusiasmo che spesso compensa l’inesperienza, produrrà un vantaggio collettivo a tutti i livelli.

Ma le domande alle quali evitiamo di dare una risposta ritornano sempre, impietosamente. Ritorna quella sul destino di questo Paese, se non s’inverte la tendenza. Non si tratta di essere pessimisti, ma semplicemente, lucidamente realisti. Di fare uno più uno e valutare le conseguenze. Spesso si dice che i giovani rappresentano il futuro. E’ sbagliato. I giovani rappresentano il presente che costituisce la condizione essenziale del futuro. Il presente anticipa gli scenari del tempo a venire. Allora lo scenario che s’intravede è immobile. S’intravede lo stallo, il perpetuarsi di situazioni già viste. S’intravede stanchezza, invecchiamento, lentezza. Prospettive oscurate. In dieci anni la mobilità italiana è cresciuta del 54,9%: da tre milioni di iscritti all’anagrafe degli italiani residenti all’estero si è passati a più di 4,8 milioni. Nell’ultimo anno si è registrato un incremento del 3,7% rispetto all’anno scorso e del 6,2% rispetto a due anni fa. Questi sono i dati che rimbombano, e fanno paura, perché sono in aumento.

Se qualcuno dovesse dire che si tratta di un effetto della globalizzazione sta mentendo e se non sa di mentire è ancora peggio in quanto è incosciente.

Se qualcuno dovesse dire che si tratta di un effetto della crisi sta cercando alibi perché la crisi ha coinvolto e coinvolge tutti i paesi. Comunque, cercare di comprendere le cause può anche essere un esercizio del tutto inutile per il rimedio. Adesso serve trovare il rimedio. In fretta. Prima che si faccia troppo tardi. Sperando che non sia già troppo tardi.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di martedì 11 ottobre 2016]

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Vivremmo meglio se tutti insegnassimo la storia

Una superficie liscia sulla quale l’acqua scorre senza lasciare traccia se non un umidore che dopo breve tempo si asciuga. Si ha l’impressione di vivere in un tempo così: un presente assoluto e lineare, senza profondità, senza prospettiva, sospeso, che viene dal niente e va verso il niente. Senza storia, senza memoria. Come se tutto quello che esiste sia stato inventato in quell’istante, come se si dovesse consumare in quello stesso istante. Una condizione trasversale, che vale per tutto, per la conoscenza, per l’esperienza, per i fatti che accadono vicino o lontano, per l’osservazione, per la riflessione, per ogni espressione, per il pensiero in tutte le sue manifestazioni. Si pensa per quello che serve, e basta. Poi si azzera quello che si è pensato, e si ricomincia, per cui la cognizione non si sedimenta, non si stratifica, non si costituisce come eredità di ciascuno e di tutti. Ogni cosa si fa effimera, vaga, inutilizzabile dopo l’uso momentaneo. Pare che sia così anche per l’arte che in molte sue forme non tiene conto dell’universo di cui fa parte e da cui si è sviluppata. Si produce una forma e insieme alla forma si innalza un altare al nuovo assoluto, all’assolutamente inedito. Non si fa riferimento, non si riconosce un debito, si disconosce il passato più o meno consapevolmente, più o meno maliziosamente, non si ha il piacere dell’orgoglio e dell’umiltà della citazione.

Solo la scienza, forse, si sottrae a questa eternità dell’estemporaneo, probabilmente perché se non si sottraesse non potrebbe essere scienza.

La storia, quella cosa che rappresenta l’esistere degli uomini nel tempo e nello spazio, con le loro fortune e le loro sfortune, con le loro nobiltà e le loro miserie, quella cosa forse ha insegnato poco, sempre. Ma in questo tempo insegna anche meno di quel poco, quasi niente. Se insegnasse molte scelte in tutti i campi e a tutti i livelli sarebbero diverse. Se insegnasse sarebbe diversa l’Europa, per esempio. Basterebbe soltanto che insegnasse qualcosa la storia del Novecento, per non andare lontano. Sarebbe diverso il mondo, per esempio.

Si prende il frutto dall’albero e si guarda soltanto il frutto e forse anche, ma distrattamente, il ramo dal quale pende il frutto. Il tronco non interessa, meno che mai interessa la radice, non interessa chi ha preparato il terreno, ha piantato l’albero, lo ha guardato crescere, lo ha protetto dal vento e dal gelo, e prima di piantarlo, di guardarlo crescere, di sorvegliarlo, lo ha sognato.

Si prende il frutto. Punto. Spesso lo si butta, senza alcun rispetto, dopo averlo soltanto assaporato. Tanto non si conosce il sacrificio che c’è dietro, dentro quel frutto. Così, ancora per esempio, c’è chi assapora il frutto della libertà di pensare, di dire, di fare, e di pensare diversamente da come aveva pensato, di dire altro rispetto a quello che aveva detto, di rifare, chi rivolge lo sguardo alla sua bellezza straordinaria, ma non esprime e non dimostra rispetto nei suoi confronti, non ne testimonia l’apprezzamento, non ne afferma l’indispensabilità, forse perché non conosce il tronco, non sa in che terra affonda la radice, né chi l’ha preparata, guardata crescere, protetta, non sa chi segretamente o manifestamente l’ha sognata, chi la sogna ancora ad occhi aperti, anche pagando a caro prezzo il sogno.

Gli esempi sarebbero infiniti, relativi ad ogni contesto, circostanza, situazione.

Dunque abbiamo bisogno di conoscere quello che è stato, per non ricominciare sempre tutto daccapo, per non improvvisare in continuazione. Abbiamo bisogno di imparare la storia e di qualcuno che la insegni. Soprattutto che la insegni bene. Quello della storia è l’insegnamento più difficile. La storia ha innumerevoli trame, innumerevoli intrecci, una folla sconfinata di personaggi, mutamenti continui, vorticosi, di prospettive, contraddizioni, significati palesi e nascosti. La storia è la materia più difficile. In storia due più due fa sempre tre, cinque, dieci, cento, mille. Quasi mai fa quattro. A volte, quando fa quattro, può darsi che si sia sbagliato il conto. Non esiste una disciplina che si possa insegnare ed apprendere senza insegnare ed apprendere la storia, per il semplice fatto che ogni disciplina è pensata ed elaborata da uomini. Uomini e storia sono sinonimi.

Quindi la storia dev’essere insegnata da tutti coloro che hanno conoscenza di qualcosa che riguardi gli uomini, e non c’è chi non ne abbia. Dev’essere insegnata in ogni luogo perché non c’è luogo in cui non possa essere insegnata. Un insegnamento continuo, trasversale, diffuso, organico ma anche disorganico, spontaneo. La storia dev’essere insegnata a scuola, certo, in modo intenzionale e sistematico. Ma non basta. Anche un giornale deve insegnare la storia, anche un poeta, un narratore, un politico, un economista, un pittore, un sacerdote, un marinaio, un aviatore. Devono insegnare la storia tutti quelli che non cito perché anche in questo caso l’elenco sarebbe infinito. Ciascuno a suo modo. Lo si potrebbe anche considerare un dovere. La società deve insegnare la storia e far comprendere quali sono le cause e quali sono gli effetti di ogni fatto, di ogni fenomeno, ogni cosa, quale terreno, quale radice, quale tronco, quale coltivazione e quale sogno hanno portato a maturazione il frutto che si sta assaporando.

Allora probabilmente sbagliavo quando ho detto, qualche riga sopra, che la storia è la disciplina più difficile da insegnare. In fondo, metodologicamente, è la più semplice. Basta soltanto dirsi: ecco, noi siamo qui, ora, così. Vediamo di capire chi siamo noi, perché siamo qui e perché il qui è nel modo in cui lo vediamo, perché siamo così come siamo, perché ora è diverso da allora e perché chi c’è ora è diverso da chi c’era allora, che cosa ha provocato il cambiamento di noi, del qui, del così.

Ecco, il metodo è semplice davvero.

Poi comincia il groviglio delle risposte, delle ipotesi, delle analisi, delle comparazioni, dei distinguo, delle interpretazioni. Ma il bello dell’insegnamento e dell’apprendimento della storia sta proprio nel tentativo di sgrovigliare il groviglio.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di martedì 25 ottobre 2016]

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La lentezza più efficace della velocità per la vera conoscenza

Se un acino d’uva s’ ingoia in una volta sola, il sapore dell’uva non si può sentire. L’acino lo si deve assaporare, lentamente, lasciare che si sciolga, lentamente, che il succo s’impasti nella bocca, che arrivi fino al sangue.

La stessa cosa vale per la conoscenza; perché sia sostanziale conoscenza, c’è bisogno che le cose penetrino lentamente nel pensiero, che s’infiltrino nel tessuto delle cognizioni, che si trasformino in espressioni di cui si serve l’esistenza, che riescano a farsi esse stesse espressioni di un’esistenza.

La conoscenza ha bisogno di una sapiente lentezza, per poterne sentire il sapore.

Ma noi con la conoscenza abbiamo, ormai da tempo, una relazione costretta alla velocità, alla voracità. Si ingoia tutto senza assaporare, tutto quello che ci capita, senza distinzione, senza metterlo in rapporto con quello che già conosciamo, senza costituirlo come condizione di quello che non sappiamo ancora e che potremo sapere.

Conoscere ed esistere sono diventate due distinte situazioni. Al limite, il conoscere si rivela solo funzionale, anzi strumentale ad una sbrigativa quotidianità, alla soluzione di problemi immediati; non è un fatto che modifica il nostro modo di pensare, di agire, di essere, di guardare il mondo, di interpretare i suoi fenomeni e le sue storie. Non può, perché il suo succo non ci arriva fino al sangue. Si acquisisce conoscenza con velocità; forse la si disperde con la stessa velocità. Senza sedimentarla e rielaborarla. Senza che ci appartenga.

La velocità con cui ci confrontiamo con le cose da apprendere non ha nulla che riguardi il concetto e la dimensione della rapidità di cui diceva Italo Calvino in una delle sue fantastiche “Lezioni americane”. Calvino fondava il ragionamento in particolar modo sulle caratteristiche della rapidità del pensiero e dello stile, precisando che la velocità mentale vale per sé, per il piacere che provoca in chi è sensibile a questo piacere e non per l’utilità pratica che si possa ricavarne.

La velocità come consumo del conoscere, invece, si presenta con una fisionomia identica a quella con la quale si presenta ogni elemento della contemporaneità. Esiste una coerenza, certamente.

Tra la frenesia, l’ansia, la vertigine incessante con cui si vive e il nostro modo di conoscere esiste una coerenza. Siamo angustiati da urgenze, a volte vere, a volte false, da impegni che consideriamo sempre inderogabili, da scadenze che ipotizziamo senza scampo, per cui attribuiamo al sapere un valore soltanto se in qualche modo ci solleva un poco dall’angustia degli impegni, ci apre un varco nell’assedio delle scadenze, fornisce ad una nostra domanda una risposta quale che sia, non importa se giusta, se sbagliata.

Allora si fa la ricerca su internet. Con uno sguardo veloce alla pagina si individua quello che serve in quel luogo preciso, in quell’ora precisa. Bisogna benedire internet. Però bisogna pure riconoscere che ha avuto e continua ad avere una funzione essenziale nella modalità che abbiamo acquisito di metterci in relazione con la conoscenza. Internet ha costruito un metodo, ha strutturato un processo di apprendimento che si qualifica essenzialmente come risposta pragmatica alle urgenze. Internet non ha colpa, non c’entra niente. Siamo noi che abbiamo applicato indiscriminatamente a tutte le situazioni le stesse modalità, che abbiamo scelto di impigrire il pensiero con la comodità delle operazioni veloci anche quando la velocità non si doveva applicare ad un certo oggetto del sapere perché azzerava o comunque limitava la qualità dell’apprendimento. Per esempio: se si ha necessità di verificare l’orario dei treni, se si vuole trovare una legge, un’ordinanza, un decreto, internet va bene e sia dunque benedetta. Ma non va bene se si vuole scendere nei significati della poetica montaliana. Però si usa internet anche per questo. In un saggio che si intitola “Elogio della lentezza”, Lamberto Maffei, direttore dell’Istituto di Neuroscienza  del Cnr, presidente dell’Accademia dei Lincei, sostiene che il desiderio di emulare le macchine rapide create da noi stessi, a differenza del cervello che invece è una macchina lenta, diventa fonte di angoscia e di frustrazione. La netta prevalenza del pensiero rapido, a partire da quello che esprimiamo attraverso l’uso degli strumenti digitali, può comportare soluzioni sbagliate, danni all’educazione e perfino al vivere civile.

Il sapere che deve restare e risultare elemento che genera significati nuovi, pretende lentezza; ha bisogno di maturare attraverso il dubbio, l’indugio, la ponderazione. E’ una necessità del pensiero che intende analizzare i concetti, mettere a confronto diversi elementi, attribuire a quello che si apprende la valenza di una condizione della crescita, stabilire una sintonia con le esperienze che ci riguardano, riflettere, meditare sul senso delle cose, sulla loro importanza, sull’incidenza che hanno nel farsi dei nostri destini.

Ma nei processi di conoscenza, velocità e lentezza possono anche trovare una conciliazione.

Svetonio attribuisce all’imperatore Augusto questa espressione: festina lente. Affrettati lentamente. Italo Calvino la riprende ricordando il delfino che guizza sinuoso intorno ad un’àncora che Aldo Manuzio imprimeva sui frontespizi, e la farfalla con il granchio nella raccolta di emblemi cinquecenteschi di Paolo Giovio.

Cosimo de’ Medici usò il motto come simbolo della sua flotta, associandolo all’immagine di una tartaruga con la vela: la prudenza nell’impresa.

La lentezza è il metodo che consente l’approfondimento, e senza approfondimento non ci può essere conoscenza. Forse ci può essere una immediata e superficiale informazione. Siamo diventati turisti nei territori del sapere. Siamo come quelli che entrano in un museo e nel tempo di un’ora scorrono con velocità tutti gli oggetti che capitano sotto i loro occhi, senza soffermarsi su nessuna figura, su nessun colore, senza nessuno sforzo di comprendere il frammento, i movimenti di una statua, l’origine di un reperto.

Il veloce attraversamento del museo non gli lascia niente se non immagini sovrapposte, confuse, sfilacciate, disorganiche, disarticolate. Ogni oggetto del museo possiede una storia che non ha potuto raccontare, che non ha potuto lasciare in eredità. Perché coloro che passavano andavano così veloci da non potersi fermare ad ascoltare. Da non potersi concedere il privilegio di conoscerla.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di martedì 8 novembre 2016]

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Innovazione: la parola magica dei nostri tempi

Ogni tempo ha le sue parole magiche: quelle che promettono lo spalancamento di finestre su universi mai conosciuti, che si propongono come soluzione definitiva dei problemi mai risolti, che rappresentano gli idoli da adorare nei giorni presenti e in quelli futuri. Sono parole che, in relazione ai casi, intendono essere rassicuranti, oppure enunciano magnifiche sorti, delineano eccezionali prospettive, indicano direzioni inevitabili che conducono verso  sfavillanti orizzonti di avvenire.

Nel tempo che attraversiamo, una di queste parole magiche, custode e testimone di prodigi, è innovazione.

Si avverte costantemente l’urgenza di innovare, in ogni contesto, in ogni situazione, in ogni condizione, in ogni organizzazione, in ogni settore: un’innovazione totale, trasversale. Ogni cosa esistente ha bisogno di una costante, incessante innovazione, nelle sue fondamenta, nelle sue finalità. Occorre individuare criteri nuovi, metodi inediti, determinare mutamenti, trasformazioni che producano una innovazione radicale, processi virtuosi e, soprattutto, risultati che permettano di dimostrare l’indispensabilità dell’innovazione. Una smania.

Poi, perché l’innovazione renda risultati, risulta indispensabile, ovviamente, la presenza e il contributo degli innovatori.

Gli innovatori sono sempre pronti ad entrare in campo per risolvere la partita che gli altri giocatori mantengono nell’umiliazione dell’incertezza. Gli innovatori non hanno alcun bisogno di dimostrare chi sono, che cosa hanno fatto fino a quel momento, di presentare credenziali del servizio svolto. Sono innovatori proprio per questo, per confrontarsi con il mai accaduto, mai visto, mai sentito. Possono anche venire dal nulla. Gli innovatori esistono per destrutturare e ristrutturare, per abbattere il tempio e riedificarlo in tre giorni.  Arrivano e innovano. La storia non conta. L’esperienza di meno. Se gli si chiede qual è il loro stile, la loro missione, il loro programma, non hanno difficoltà alcuna nella risposta: innovare innovare innovare. Ora e sempre. Che cosa. Ogni cosa. Che cosa può essere mai un grattacielo, una statua maestosa, un traforo, un aereo, un Divina Commedia, una scoperta di stella. Si deve innovare, naturalmente con il giusto tornaconto di visibilità. Poi, spesso, questi falsi innovatori ritornano nel nulla da cui sono venuti, senza che nessuno serbi memoria di loro, ma lasciandosi dietro le macerie che hanno sparso con la loro improvvisata innovazione.

Si sa che senza una tensione all’innovazione, mai e poi mai in una valle lontana lontana, un essere che procedeva a quattro zampe avrebbe osato trasgredire la consuetudine e sollevarsi e procedere con due. Però, probabilmente, dopo aver compiuto l’impresa di sollevarsi, avrà guardato in cielo e ringraziato qualcosa, qualcuno, con i suoi suoni gutturali, oppure con un silenzio riconoscente e stupefatto. Poi si sarà seduto sopra un masso e avrà riflettuto un poco; prima di cominciare l’avventura di inventare il fuoco, la ruota, il giavellotto, le palafitte, i numeri, il cannocchiale, la mongolfiera, lo sputnik, prima di affrontare il viaggio sulla luna, si sarà fermato a riflettere un poco.

La riflessione è una componente essenziale del processo di innovazione. Significa sottoporre a verifica le idee, provare concretamente la bellezza delle intuizioni, definire i tempi, i modi con i quali portare il progetto a realizzazione.

Senza queste minime condizioni si rischia di trasformare qualsiasi disegno di innovazione in una sbadata improvvisazione che può provocare lo stesso effetto che provoca lo smontaggio dei pezzi di un motore senza avere idea e mestiere per rimontarli.

L’improvvisazione è forse la condizione più dannosa per il progresso di una civiltà. L’improvvisazione è presunzione, arroganza, incoscienza, insensibilità, ignoranza di tutto quello che è stato realizzato. L’improvvisazione è mancanza di rispetto per chi ha realizzato.

L’improvvisazione introduce rapidamente elementi nuovi nella struttura delle cose senza valutare le conseguenze che possono produrre.

L’innovazione risponde a criteri e ragioni, segue processi logici, rispetta tempi e ritmi, si fonda sull’esistente e lo valorizza, ne riconosce la paternità; non lo ignora, non lo rifiuta; lo riformula con competenza. L’innovazione proviene, richiede e prospetta una attività di profonda riflessione. L’innovazione è tenacia, perseveranza, rigore, creatività, metodo. Quindi scienza.

Ma viviamo tempi che assistono al confondersi dei concetti di innovazione e improvvisazione. E’ come se arrivasse un’eco distorta, contraffatta, corrotta, del motto “Uccidiamo il chiaro di Luna”, urlato da chi ne sconosce il significato e con il conforto di tale sconoscenza pretende di innovare mentre sta solo semplicemente pericolosamente improvvisando.

Frequentemente si sente dire  dall’ultimo  arrivato da qualche parte, in un qualsiasi mestiere: ho un progetto innovativo;  ho fatto un’opera innovativa. Ma innovativa rispetto a cosa, rispetto a quando. Altrettanto frequentemente l’innovatore risponde: rispetto alla tradizione. Siccome la tradizione comincia da Adamo e arriva esattamente all’istante in cui si pronuncia la parola, siccome la parola stessa è tradizione, siccome la tradizione è una rete complessa di forme di pensiero e di significati, bisogna tentare di capire rispetto a quale tempo, a quali forme di pensiero, a quali significati, l’innovatore opera l’innovazione. A quel punto l’innovatore viene provvidenzialmente soccorso dal motto o dalla sua approssimativa parafrasi: uccidiamo il chiaro di Luna. Però il chiaro di luna c’era prima che lui ci fosse e fortunatamente ci sarà quando lui non ci sarà più.

C’era una volta un contadino che voleva innestare un mandorlo sull’albicocco. Allora aspettò che venisse il tempo giusto, che non fosse troppo caldo,  non fosse troppo freddo,  non tirasse forte il vento. Aspettò che fosse luna calante. Quando venne il tempo giusto cominciò a lavorare. Incise un ramo dritto e vigoroso dell’albicocco. All’estremità del taglio inserì la marza facendo combaciare perfettamente la corteccia  con quella del portainnesto. Ancorò  la marza al taglio legando strettamente il portainnesto con della rafia bagnata procedendo dal basso verso l’alto, perché non si seccasse, non sviluppasse malattie, per favorire la cicatrizzazione e l’attecchimento. Ogni giorno, al tramonto, andava a controllare la condizione della pianta. Forse è questa l’innovazione. Fare in modo che una pianta possa generare due frutti con  un innesto attento, paziente, sapiente.

Il resto è spudorata millanteria.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di giovedì 17 novembre 2016]

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Nella “caverna digitale” prigionieri della realtà virtuale

 Una domenica mattina, sul lungomare, un ragazzo fotografa il mare in tempesta. Poi volta le spalle al mare e si mette a guardare per lungo tempo la foto sullo smartphone. Un gesto probabilmente consueto; un gesto innocente. Che però forse nasconde un desiderio profondo e inconscio, un’ambizione  inconsapevole e  grandiosa, un sogno tramato dalla tensione di avverarsi: digitalizzare la natura, riportarla nel perimetro angusto di un display, poterla possedere e manipolarla.

Dall’istante in cui il ragazzo volta le spalle al mare, il mare non esiste più. Esiste solo la sua rappresentazione, la sua finzione. Da quel preciso istante l’energia potentissima del mare si trasforma in una immobilità mortificata.

Un gesto consueto, innocente, che facciamo ormai tutti, privandoci della relazione con la bellezza, con l’assolutezza della bellezza, con la sua irripetibilità. Forse si potrebbe anche sospettare che noi si sia quasi tutti ormai contagiati da un’ansia spasmodica di digitalizzare tutto quello con cui si viene in contatto. Addirittura digitalizziamo, attraverso una rappresentazione in simboli, i nostri stati d’animo, i sentimenti, le sensazioni. Faccine allegre, faccine tristi, per esprimere il nostro modo di essere in quel momento. Abbiamo rinunciato perfino alle parole, che comunque hanno sfumature di personalizzazione. Una simbologia universale rende completamente e piattamente identiche le nostre espressioni.

Digitalizzare è la missione che accomuna i nostri orientamenti culturali, ciascuno per la sua parte, con i mezzi che possiede, nei contesti che pratica, negli ambienti che frequenta.

Non si esclude che esistano realtà nelle quali la digitalizzazione rappresenta una possibilità di salvezza degli esseri e delle cose. In medicina, per esempio: digitalizzare informazioni, prassi, può costituire una condizione di cura, può salvare una vita. La digitalizzazione dei testi, per esempio, le biblioteche digitali che in qualche modo realizzano il sogno impossibile di quella biblioteca infinita che sognava Jorge Luis Borges, quella che contiene tutti i libri, la storia minuziosa dell’avvenire, la traduzione di ogni libro in tutte le lingue.

La cosa che invece provoca una antropologica paura è la progressiva conformazione del pensiero alla dimensione digitale.

Il ragazzo che volta le spalle al mare per guardare la foto del mare – egli per tutti, uomini e donne, bambini e adulti- sta rinunciando al confronto con l’esistente, lo sta sostituendo con una scena  inespressiva, insignificante. Non è la foto che compromette il confronto ma il voltare le spalle dopo averla scattata. A lui – a noi- basta la fotografia. A lui – a noi- basta una riduzione assoluta, priva di qualsiasi dinamicità, una archiviazione alla quale possiamo fare ricorso quando vogliamo e per quello che vogliamo, che possiamo rimuovere nel tempo di un attimo.

Forse si potrebbe obiettare che lo stesso processo accade con l’arte figurativa. Si potrebbe obiettare ma sarebbe una falsa obiezione. Per almeno due banali motivi. Il primo consiste nel fatto che l’arte non riproduce ma elabora, rielabora, ri-crea, produce, crea. Il secondo motivo è costituito da una conseguenza che si può sintetizzare con l’esempio che la natura morta di Caravaggio non esiste. Non è una raffigurazione; è  una pura invenzione di Caravaggio.

Indubbiamente esiste anche un’arte realizzata con il digitale, che è un discorso completamente diverso dall’uso che se ne fa nell’esperienza quotidiana.

Ripensando al ragazzo che volta le spalle al mare, mi torna alla mente un’ intervista immaginaria che lo studioso Giovanni Reale fece a Platone alcuni anni fa.

A proposito del mito della “Caverna”, elemento centrale della “Repubblica”, Reale chiedeva al maestro se non trovasse che quegli uomini incatenati che aveva descritto, i quali  vedevano non altro che le immagini che scorrevano sullo sfondo della caverna e ascoltavano le voci che da esso rimbalzavano come per eco, potessero rappresentare, drammaticamente, la situazione in cui si trovano gli uomini di oggi, che non vedono altro se non le immagini trasmesse da televisioni, computer, internet, dai vari strumenti di comunicazione multimediale, per lo più in ottica virtuale.

Platone rispondeva che è esattamente così con la precisazione che la dimensione del fondo della caverna è enormemente aumentata. La via per salire dalla caverna verso la luce si è notevolmente ristretta, si è fatta più ripida. Inoltre, le immagini dell’antica caverna erano proiezioni reali degli oggetti fisici – che a loro volta erano proiezioni di quelli metafisici – e avevano quindi una loro realtà, anche se debole. Invece le immagini che oggi gli uomini vedono sono quasi del tutto virtuali, prive di un referente fisico e metafisico. Sono vacue apparenze senza uno spessore ontologico. Pertanto, aiutare gli uomini di oggi a liberarsi dalle catene che li imprigionano nella caverna stracolma di strumenti di comunicazione multimediale diventa sempre più difficile.

Un altro riferimento. Disse una volta Eugene Ionesco nel discorso di apertura del festival di Salisburgo  che “gli uomini girano intorno in quella loro gabbia che è il pianeta, perché hanno dimenticato di guardare il cielo”.

Il ragazzo che una domenica mattina fotografa la tempesta di mare e poi volta le spalle al mare ha dimenticato che si può guardare il cielo e il mare. Ma non basta. Non sa neppure – e forse questo è anche più grave – che le immagine assorbite dallo sguardo si trasformano in immagini della memoria, di una memoria viva,  alle quali si può ritornare per rivederle, quando si vuole, oppure quando le occasioni della vita riportano sui sentieri della memoria.

Il ragazzo non ha nessuna colpa. Il ragazzo è una di quelle creature digitali di cui parlava Nicholas Negroponte nella metà degli anni Novanta del secolo scorso. Non ha nessuna colpa. Sono altri coloro che hanno colpe: chi potrebbe avvertirlo e non lo fa; chi potrebbe proporgli l’alternativa di una dimensione  naturale e non lo fa; chi lo lascia segregato nella caverna del virtuale. La colpa è mia. Quella domenica mattina avrei dovuto avvicinarmi, chiedergli di prestarmi un attimo lo smartphone e poi  schiacciarlo con il calcagno. Avrei dovuto dirgli: guarda il mare, guarda questa tempesta di mare, e portatela dentro lungo tutta la tua strada. La colpa è mia che non l’ho fatto.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 20 novembre 2016]

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Il buon “maestro” deve insegnare a sognare

 C’è una poesia del ligure Giuseppe Conte che si intitola “L’insegnante”, i cui ultimi versi dicono così: “Eri un ragazzo, non dimenticarlo/ il tuo sogno di allora/ e quanto di esso si è compiuto poi:/ potrai insegnare il sogno?”.

Forse il sogno non si può insegnare: quel sogno ad occhi aperti che proietta nel tempo un’immagine di sé, di come si vorrebbe essere, di cosa si vorrebbe pensare, di cosa si vorrebbe fare quando gli anni e le occasioni della vita offrono una qualche  possibilità, quando negli anni si cercano e si fabbricano giorno per giorno, ora per ora, con entusiasmo, con affanno, occasioni che diano possibilità per la vita.

Forse il sogno non si può insegnare. Oppure, forse, non si può insegnare altro che il sogno: non si può insegnare nient’altro che ad essere per poter fare, a costruirsi le possibilità, a darsi costantemente un senso, a dare costantemente un senso a tutto quello che s’impara, senza disperdere mai un solo frammento di sapere, una sola scaglia di qualsiasi disciplina.

Non si può insegnare altro che ad immaginare, a prefigurare il proprio essere nel tempo. A cos’altro può servire una disciplina, qualsiasi disciplina, se non a questo. A cos’altro può servire una poesia, per esempio, o un metodo per la soluzione di un problema, o il concetto di una filosofia, o la conoscenza di un contenuto di biologia; a cosa può servire la storia se non ad incamminarsi verso l’orizzonte con la conoscenza dell’umano da cui si proviene; a cosa può servire tutto il resto se non diventa l’acqua e il pane da mettere nella bisaccia per poter fare la strada che si ha da fare.

Se questo non è vero, se l’insegnamento non deve servire a dare quel che è indispensabile  per fare la strada, allora si può anche rinunciare ad insegnare il sogno. Se invece è vero che deve servire a dare al viandante l’acqua e il pane e l’alfabeto essenziale per interpretare i segni del cielo, le tracce sul terreno, la scrittura di un libro, allora non si può fare altro che insegnare il sogno.

Insegnare il sogno significa conformare un pensiero capace di pensarsi sempre al di là: oltre il tempo presente, fuori dallo spazio che si abita, diversi da come si è, con creature diverse da quelle che si conosce, in situazioni e condizioni differenti da quelle in cui ci si trova.

Insegnare il sogno significa esercitare il pensiero alla crescita. Significa anche abituarlo ad oltrevedere, a decodificare i segnali del presente in funzione di una prefigurazione del futuro.

Insegnare il sogno significa insegnare a disegnare paesaggi di futuro ed a pensarsi dentro quei paesaggi.

In questo processo di insegnamento che elabora visioni dell’essere in contesti a venire non c’è nulla di astratto. Al contrario, avviene attraverso la concretezza degli apprendimenti, la consistenza delle conoscenze.

L’insegnamento del sogno è semplicemente una formazione del pensiero alla previsione, al pre-vedere la realtà che sarà e la possibilità di collocarsi significativamente in quella realtà. Vuol dire insegnare a capire come sarà domani e come si potrà essere nel domani che sarà.

Insegnare il sogno significa insegnare a credere che si possano violare i propri confini, che si possano abolire i limiti, che si può scrutare al di là dell’orizzonte visibile; significa insegnare la necessità della continua esplorazione di territori nuovi, di saperi sconosciuti.

Ci sono sogni individuali e sogni collettivi: si deve insegnare ad avere ed a realizzare sia quelli individuali che quelli collettivi, perché hanno la stessa importanza, perché sono interdipendenti. I sogni collettivi sono l’integrazione e l’interazione di quelli individuali, per cui occorre cominciare dai primi, da quelli di  ciascuno. Occorre insegnare che molto spesso, quasi sempre, il pensiero contempla il possibile, che abbozza progetti realizzabili. Se poi i progetti abbozzati si traducono in opera compiuta, dipende quasi esclusivamente dalla passione e dalla disponibilità ad investire la propria esistenza per dare concretezza alla passione; dipende dalla conoscenza e dalla capacità di renderla funzionale alla realizzazione del sogno; dipende da quanto si è disposti a rinunciare all’immediato tornaconto, a sacrificare l’istante presente a vantaggio di quello futuro.

Ma sono i sogni collettivi che assumono la responsabilità nei confronti dell’evoluzione.

Tutte le civiltà, in fondo, provengono da un sogno. La democrazia proviene da un sogno, per esempio; lo sviluppo, il progresso hanno la stessa origine.

Non è un caso che il 28 agosto del 1963 davanti al Lincoln Memorial di Washington,  Martin Luther King abbia espresso una speranza di civiltà attraverso la metafora del sogno ripetuta otto volte nel discorso:  I have a dream.

Stava dicendo che le azioni, i processi di trasformazione, le conquiste dei diritti, si generano da un sogno.  Stava insegnando ad avere sogni di civiltà da realizzare.

D’altra parte, in qualsiasi situazione in cui c’è qualcuno che insegna e qualcuno che apprende, si rivela necessario, indispensabile, attribuire un senso profondo all’insegnare e all’apprendere. Il senso profondo non può consistere in una rappresentazione delle cose che sono. Sarebbe limitato, riduttivo, forse anche banale. Probabilmente la profondità di senso è determinata dalla possibilità che  la conoscenza consente di trasferirsi  nell’avvenire.

Quel bambino di sei anni, il ragazzino di dieci, l’uomo che ne ha venti, devono riuscire a comprendere verso quale condizione stanno andando.

Per poter comprendere bisogna avere la possibilità di confrontarsi con l’oggetto da comprendere: è necessario poter vedere, figurarsi una forma, rendersi prossima la conoscenza da conquistare.

La conoscenza è un costante approssimarsi a qualcosa nella consapevolezza che ogni conoscenza è sempre relativa e che qualsiasi conquista è, fortunatamente, sempre limitata.

Allora, probabilmente, insegnare il sogno significa dare a tutti ed a ciascuno  strumenti con i quali realizzare quelle forme di civiltà che  in un’aula di scuola vengono mostrate non come modelli del migliore dei mondi possibili ma come possibilità di   un mondo migliore di quello in cui si vive.

Forse alla domanda del verso della poesia di Giuseppe Conte si potrebbe rispondere proprio così: insegnando come si fa a costruire un mondo migliore di quello in cui si vive.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di  lunedì 28 ottobre 2016]

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Tutto quello che conosciamo deriva dalle nostre incertezze

Forse non è mai esistito e non potrà esistere mai un tempo delle certezze. Accade sempre qualcosa che scompagina le agende boriose dei nostri programmi, che mette in dubbio qualcosa su cui si pensava di non poter avere alcun dubbio, che si offuschi l’orizzonte che qualche istante prima appariva nitido agli occhi. Si ha l’impressione, a volte l’illusione, che una condizione sociale, politica, economica, ideologica, valoriale, presenti una sua stabilità alla quale riferirsi e poi, nel volgere di poco tempo, quella stabilità comincia a vacillare, si accascia.

Spesso l’incertezza con la quale si attraversa il presente fa pensare che nel passato di certezze se ne avesse di più; ma non è vero. Probabilmente questo pensiero è determinato dal superamento delle incertezze che si avevano in passato oppure dal fatto che le incertezze passate non disorientino più in quanto nel confronto con esse  si è acquisita una capacità di governarle.

Allora forse il metodo più corretto da adottare è quello di stabilire un confronto culturale con le incertezze, in modo da poterle governare: almeno nelle loro manifestazioni governabili; almeno con quelle che si possono governare. Perché ce ne sono alcune che sfuggono da sempre ad ogni investigazione logica, a qualsiasi perfezione di metodo, e sono proprio quelle essenziali, che riguardano gli aspetti profondissimi dell’esistere. Con quel tipo di incertezze non ci può essere nulla da fare. Bisogna tenersele e convivere, consolandosi con il fatto che hanno riguardato e riguarderanno le creature di ogni tempo e di ogni luogo, di ogni ideologia e di ogni fede, di ogni povertà e di ogni ricchezza. Con quelle non c’è proprio nulla da fare.

Per le altre si può tentare qualcosa,  ragionando sulle opportunità che offrono, soprattutto a livello di crescita collettiva e individuale.

Per esempio si può considerare che senza incertezza non ci può essere ricerca, in nessun campo, per nessuna finalità.

Tanto tempo fa – ma poi non proprio tanto- tutti avevano la certezza  che la terra stesse ferma. Qualcuno quella certezza non ce l’aveva, sospettava che fosse diversamente, aveva indizi che lo facevano dubitare, e così cominciò la ricerca. Si può immaginare che quando tutti gli altri furono costretti a rinunciare alla certezza, si verificò una sorta di tragedia psicologica collettiva: il convincimento maturò attraverso una sofferenza che scomponeva e decostruivaun’immagine mentale per sostituirla con un’altra.

Senza incertezza non c’è ricerca nella fisica, nella medicina, nella filosofia, nella biologia, nella chimica, nell’arte. L’incertezza è il movente esistenziale e culturale.

La conoscenza, l’apprendimento, tanto nella scienza quanto nell’esperienza quotidiana, provengono da un’incertezza, da una condizione di imprecisione, dalla contraddittorietà di dati conoscitivi, da un dubbio, una perplessità, da una precarietà di elementi che possano consentire di stabilire la differenza fra  vero e  falso, giusto o sbagliato, esatto o inesatto, da un’insicurezza,  dalla instabilità che coinvolge ogni sfera dell’essere e del conoscere, da una situazione complessiva o particolare che impedisce o limita la prevedibilità in ordine agli sviluppi che quella determinata situazione possa avere.

Banalmente: se mentre si sta scrivendo si ha un’incertezza rispetto al lessico, alla grammatica, alla sintassi, la ricerca della forma giusta, della giusta espressione, è motivata proprio da quella incertezza. La ricerca di una esatta definizione, di un concetto esatto, della verità relativa a qualcosa per la quale esista una verità, è motivata dall’incertezza.

A molte domande che facciamo a noi stessi e che ci fanno gli altri, si risponde con incertezza; siamo incerti rispetto a molte azioni che compiamo ogni minuto, a molti pensieri con i quali ci confrontiamo; siamo incerti sulle decisioni da assumere, sulle strade da intraprendere, su quasi tutto quello che dobbiamo scegliere. Siamo incerti su quello che pensiamo di noi stessi.

Tutto quello che presumiamo di conoscere con certezza deriva da una precedente incertezza, ogni convinzione da una precedente perplessità, ogni sicurezza da un’insicurezza, qualsiasi fiducia da una precedente sfiducia, probabilmente. E’ tutto sempre inesatto, parziale, relativo.

E’ stato sempre così. Adesso l’incertezza è diventata una condizione sistematica, strutturale. Si vive in una ininterrotta condizione di insicurezza. Sono passati quasi vent’anni  da quando Zigmunt Bauman nel suo saggio intitolato  “La società dell’incertezza”sosteneva che la versione postmoderna dell’incertezza non si presenta come un semplice fastidio temporaneo che può essere mitigato o risolto; “il mondo postmoderno si sta preparando a vivere una condizione di incertezza permanente e irresolubile”.

E’ stato sempre così. Si è sempre vissuto tentando un’approssimazione alle certezze nella consapevolezza dell’impossibilità di arrivare ad una certezza definitiva.  Dalla consapevolezza dell’impossibilità delle certezze è venuto il progresso, lo sviluppo, l’evoluzione delle culture.

Dalle incertezze del tempo che attraversiamo, dalle instabilità, dalla provvisorietà, dalle crisi, dai dubbi,  dalle contraddizioni, dalle turbolenze, deriveranno, nei tempi a venire, alcune certezze che sottoporremo a verifica, ad un costante processo di validazione, a discussione, a revisione, a smentita. Molte di esse saranno scompigliate da altre. E’ stato sempre così. Ancora Bauman dice che la vita si vive nell’incertezza, per quanto ci si sforzi del contrario. Ogni decisione è condannata ad essere arbitraria; nessuna sarà esente da rischi e assicurata contro insuccesso e rimpianti tardivi. Per ogni argomento a favore di una scelta si trova un argomento contrario non meno pesante.

C’è una bellezza in tutto questo, indubbiamente; c’è il fascino del costante ripensare i fatti e le storie che ci riguardano  e quindi un costante ripensarsi; c’è la seduzione che esercitano su di noi i nuovi eventi, le piccole e grandi avventure; c’è la curiosità, l’attrazione per l’incognita, per l’esplorazione di nuovi territori. Forse non sarebbe bello se si credesse sempre alle stesse cose. Forse è bello credere sempre in cose diverse per poter avere nostalgia di quelle in cui si è creduto.

 [“Nuovo Quotidiano di Puglia” di lunedì 5 dicembre 2016]

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La povertà dei giovani è la povertà di un intero Paese

Non è così che deve andare la storia. Se la storia va così è un assurdo, una beffa. La storia deve procedere con passi di sviluppo, di progresso, di benessere, attraverso trasformazioni in positivo, la crescita, l’evoluzione, il miglioramento.

Non è come sta andando che deve andare la storia: con i figli più poveri dei padri, più poveri dei nonni. Precari, disoccupati, sottoccupati, disillusi, sfiduciati. Con un presente sfilacciato, con un futuro scuro. Il Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese, è un colpo di spranga alle ginocchia. Si dice: l’Italia non è un paese per giovani. Per forza. I giovani in Italia, oggi, hanno un reddito inferiore a quello dei giovani di venticinque anni fa. Vale a dire: anziché andare avanti, si va indietro. Dice il Rapporto che la ricchezza dei “millennial” è inferiore del 4,3% rispetto a quella dei loro coetanei del 1991, mentre per gli italiani nell’insieme il valore attuale è maggiore del 32,3% rispetto ad allora e per gli anziani è maggiore addirittura dell’84,7%. Il divario tra i giovani e il resto degli italiani si è ampliato nel corso del tempo, perche’ venticinque anni fa i redditi dei giovani erano superiori alla media della popolazione del 5,9% (mentre oggi sono inferiori del 15,1%) e la ricchezza era inferiore alla media solo del 18,5% (mentre oggi lo è del 41,1%).

Vorrei aver sbagliato a leggere i dati. Ma se li ho letti bene, se non mi sono ingannato, non è così che deve andare la storia.

Anche perché se va così, si tratta di una irragionevole e inaccettabile contraddizione.

Mai questo Paese ha avuto giovani con il livello di istruzione che hanno i giovani di adesso. Mai giovani con le stesse competenze specifiche e trasversali. Mai con un uguale grado di specializzazione. Però, quello che ne ricavano consiste in una mortificazione personale, professionale, economica.

Allora qualcuno se ne va. Sono sempre di più quelli che se ne vanno. All’estero li accolgono, spesso li coccolano, per cui viene da domandarsi se all’estero hanno una particolare vocazione all’accoglienza oppure se hanno realizzato situazioni e condizioni che consentono di mettere a frutto le loro intelligenze, le loro conoscenze, le loro capacità, le abilità, le energie. Se è la seconda risposta quella giusta, allora viene spontanea l’altra domanda sulle ragioni per le quali noi non siamo capaci di creare le stesse situazioni e condizioni.

Se ho letto bene i dati, dunque, secondo i quali nel corso degli anni il reddito dei giovani è andato costantemente diminuendo, alle semplici domande precedenti se ne aggiunge una altrettanto semplice che riguarda il futuro e che si può sintetizzare nella seguente espressione: se lo sviluppo di un paese è relativo alla capacità di investimento dei giovani, quale livello di sviluppo si può prevedere per questo Paese. Probabilmente la risposta non può essere semplice quanto la domanda. Perché bisogna soffermarsi a riflettere quali possibilità di investimento hanno adesso i giovani e quali possibilità avranno quando per quel fenomeno della natura che accade assai rapidamente saranno meno giovani e poi non lo saranno affatto. Ecco che le condizioni soggettive determinano quelle collettive, come i destini di ciascuno determinano quelli di una comunità, di una nazione.

Se i giovani non possono investire è un intero Paese che non può investire. Un paese che non investe ha l’identico movimento che ha uno stagno. Potrebbe anche darsi che gli specialisti di queste cose la pensino diversamente, che abbiano teorie scientifiche orientate contrariamente. Ma l’uomo della strada, l’uomo qualunque ma non qualunquista, considera la faccenda più o meno in questo modo.

Ascoltavo un discorso di questo genere fra due signori di mezza età, alcuni giorni fa in un treno di pendolari. Fra le considerazioni che facevano, argomentate, lucide, puntuali, ce n’era una che rilevava come a differenza degli anni Settanta nei giovani di adesso non ci sono manifestazioni di rabbia.

Uno diceva: ormai si sono rassegnati. L’altro diceva: non è rassegnazione; hanno troppa intelligenza, troppo rispetto della dimensione sociale per lasciarsi coinvolgere dalla rabbia.

Ascoltavo in silenzio e condividevo la seconda riflessione. Sono troppo intelligenti, hanno il rispetto ed un senso della civiltà che li porta a pensare e ad agire in un modo che intende cambiare le cose, modificare gli assetti senza rivoltarli. Vogliono fare esperienza dell’evoluzione sociale adottando metodi di civiltà. Sono educati così.

Questi sono i pensieri che ha l’uomo della strada.

Qualcuno invece potrebbe pensare che siano indifferenti, apatici, disimpegnati.

Se qualcuno dovesse pensare questo, si sbaglierebbe, grandemente.

Una cosa del genere la può pensare chi non ha mai parlato con uno – uno solo – di loro. Chi non ha mai avuto la possibilità di confrontarsi con il loro pensiero, di accertarne la maturità e la profondità delle argomentazioni, la bellezza dei sentimenti, la logica dei ragionamenti.

Non sono indifferenti, apatici, disimpegnati. Disincantati, sì, e il disincanto costituisce un’ulteriore dimostrazione della loro scintillante intelligenza.

Chi si lascia incantare è un credulone, un irrazionale. Loro non lo sono e quindi non si lasciano incantare da niente e da nessuno.

Ma sono più poveri dei padri, dei padri dei padri. Ci sarà pure un modo per porre rimedio, per invertire la tendenza, quantomeno per stabilire un equilibrio tra quello che sanno e quello che hanno. Ci sarà pure un modo per assicurare uno sviluppo a questo Paese.

Non è così che deve andare la storia. Se la storia va così è un regresso assurdo, una beffa.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 11 dicembre 2016]

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