Breve saggio sulle terrazze salentine

Le stagioni: è l’approssimarsi della Pasqua a regalare alle terrazze salentine una luce sfolgorante e ubriacante (è luce di due Mari); l’inverno ha un’aria di vetro, diceva Vittorio Bodini; l’estate imperversa canicolare e le ore della mattinata e poi la controra stordirebbero fino al delirio se si pretendesse di salire sulla terrazza (lo si fa per pochi minuti, per stendere il bucato ad asciugare, magari) – anche se in passato si usava dormirci per sfuggire all’afa soffocante delle stanze e l’ho letto, con fraterno piacere, anche nel Mostro ama il suo labirinto di Charles Simic: L’idea di andare a dormire sul tetto nelle notti troppo calde, a Manhattan, mi venne da mio padre e mia madre. Lo facevano sempre durante la guerra, solo che non si trattava di un tetto ma di una terrazza all’ultimo piano di una casa nel centro di Belgrado. C’era il coprifuoco, naturalmente. Ricordo immensi cieli stellati e il silenzio della città. (…) Come una nave in alto mare, avevamo stelle e nuvole sopra di noi. Navigavamo a vele spiegate. “Ecco dove comincia l’infinito” ricordo che disse mio padre, indicando con la lunga mano scura (Adelphi, Milano 2012, traduzione di Adriana Bottini, pagine 25 e 26); in Terra d’Otranto dolce poi l’autunno, almeno fino a Ognissanti e, al di là dell’avvicendarsi dei mesi e delle stagioni, frequente compagno è il vento, magico volatore da un Mare all’altro, benché più esatto sarebbe parlare di venti, ognuno con il suo diverso carico di umidità, di odori, di temperatura.

E compagna del vento è la luna (talvolta anche di giorno), trasparente pietra sospesa nel cielo e, con generoso atto della fantasia, i brutti scheletri delle antenne televisive possono talvolta diventare scale e corde che uniscono le terrazze a un cielo il quale, a continuarlo con gli occhi della mente, è anche cielo di Lucania e di Calabria da un lato, d’Albania e di Grecia dall’altro.

(5 maggio 2020)

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