Passeggiate nei Balcani 1. Quattro notti a Tirana

di Gianluca Virgilio

“[Il] Promontorio Glossa o Capo Linguetta segna il punto più occidentale dell’Albania verso l’Italia, come la Punta della Palascìa, al Sud di Otranto, segna il punto più orientale d’Italia verso l’Epiro. Fra un capo e l’altro vi sono appena 70 chilometri di distanza e di notte non è infrequente vedere dalla costa idruntina i fuochi che nell’estate accendono sulle balze dei monti della Chimera i pastori albanesi.”

Cosimo De Giorgi, Puglia ed Albania, Estratto dalla Rassegna Nazionale, anno VIII, Firenze 1886, p. 10.

“[Tirana] Messasi sulla via di diventare una capitale occidentale, deve ancora impegnarsi a fondo per riuscirci.”

Indro Montanelli, Albania una e mille, Paravia, Torino 1939, p. 31.

“Di nuovo c’è alla nostra destra un Lenin in bronzo che si piega innanzi con violenza oratoria, ma dolce resta l’aria come da noi, più spesso irrorata, il cielo si slarga a momenti verso i monti, dove sull’orizzonte domina il Dajti con due linee rotonde. E da ogni parte l’occhio corre al suo mutevole colore, dalla livida lavagna al più tenero cilestrino.”

Tommaso Fiore, Sull’altra sponda, Lacaita, Manduria-Roma-Perugia 1960, p. 14.

“La capitale [Tirana] appariva come un grande villaggio rurale con i carretti e gli animali per le strade, tante biciclette e tantissima gente a piedi. La scarsa e timida illuminazione permetteva, anche nel centro della capitale, di osservare le stelle come da noi è possibile ormai farlo solo in montagna, così come l’aria che si respirava era leggera e pulita come nella nostra infanzia.”

Tonino Perna, Così vicina, così lontana: economia e società albanese nell’era postcomunista, “Il Mulino” 6/96  Nov.-Dic., p. 1199 [Perna si riferisce agli anni 1991-1995].

 

Il St. Damian (classe 1972) fa la spola tra Brindisi e Valona col suo personale albanese. Batte la bandiera di Panama. Ogni volta che va e viene, nella sua larga pancia inghiotte due piani di auto, camper, autobus e camion, e ne ha due di cabine e altri servizi per i passeggeri, sicché il traghetto somiglia molto a un palazzo di quattro piani. Sul ponte della nave incontro un calzaturiere di Ruffano. Lavora in Albania da 25 anni e non vede l’ora di andare in pensione. Dice che gli albanesi non hanno molta voglia di lavorare e preferiscono ubriacarsi; mandano le donne al lavoro e loro se ne stanno in casa a far niente. Aggiunge che ci vorranno dieci anni prima che l’Albania diventi un paese come tutti gli altri. Mi chiede se vado sulle spiagge di Saranda, dove si sta bene e si paga poco. “No”, gli rispondo, “vado a Tirana per vedere com’è questa città”. E lui annuisce. Poi va a dormire.

 

A Valona lo sbarco è stato lungo e difficoltoso a causa dell’affollamento, dei controlli e di una manifesta disorganizzazione. Ma alla fine ce l’abbiamo fatta e, aiutati dal Tom Tom, abbiamo risalito l’Albania, facendo tappa a Berat. Ora siamo nell’appartamento di Tirana, in Rruga Mihal Duri 35, che abbiamo affittato con Booking per quattro notti.

Valona ci ha lasciato la brutta impressione di una città dove la speculazione edilizia abbia imperversato per vent’anni e più: palazzoni si susseguono uno dopo l’altro lungo la costa e nell’interno, affacciandosi su larghe strade dove la circolazione di auto e pedoni avviene in modo disordinato e rozzo. I cementificatori hanno annullato qualsiasi traccia di architetture del passato. Solo una moschea col suo minareto rimane in piedi, superstite, tra il traffico cittadino. Molta gente per strada, uomini e donne. Ma ai tavolini dei bar siedono uomini giovani come tanti vitelloni sfaccendati (che sia vero quanto mi ha detto il calzaturiere di Ruffano?), mentre i vecchi si accontentano dei sedili all’ombra degli alberi. Se non fosse per qualche statua commemorativa, dove si ripete la scritta Hero i Popullit, e per il monumentale omaggio agli eroi del 1912, Valona sarebbe una città senza storia. Onnipresente, su alti pennoni, la bandiera nazionale: l’aquila bicipite nera in campo rosso.

 

Da Valona siamo passati a Berat, percorrendo una strada a tratti disastrata, come tutto il paesaggio attraversato: nulla di compiuto, di definito, di curato; tutto, al contrario, è incompiuto, lasciato a mezzo, trascurato. Sul ciglio della strada, ecco un pullman abbandonato alla vegetazione, arrugginito e sporco; più avanti, lo scheletro nero d’un edificio coi pilastri in cemento, abbandonato; e poi erbacce che invadono la strada dissestata, case sbrecciate, non intonacate, campagne bruciate dal sole e coltivate solo a brevi tratti. Gli abitanti sono concentrati per lo più nelle città, sicché – viene da chiedersi -, se le campagne non sono coltivate, da dove proviene il cibo dei cittadini? Misteri della globalizzazione!

Berat ha le caratteristiche case ottomane coi tetti di tegole spioventi, disposte sul fianco della collina, molto simili a quelle di certi paesini arroccati sull’Appennino meridionale; e poi, nella parte nuova, una sequela di bar coi tavolini all’aperto ai quali siedono i soliti vitelloni. Vi scorre il fiume Osum, ridotto a un rigagnolo per la siccità, pieno di bottiglie di plastica.

Per il gran caldo, abbiamo ripreso l’auto alla volta di Tirana. Lungo il percorso, decine e decine di stazioni di servizio, ognuna diversa per compagnia petrolifera e nazionalità: saudite, turche, bulgare, russe, tedesche, ecc., del tutto superflue rispetto al traffico automobilistico assai ridotto; e poi un gran numero di officine di gommista per riparare i danni causati dalle numerosissime buche lungo le strade; e lavaggi ogni due chilometri, per lavare la mercedes, vecchia o nuova che sia, non importa, che qui sembra essere l’auto nazionale (e se non è una mercedes è senz’altro un qualche SUV).

 

Il nostro padrone di casa, un tipo corpulento e rubicondo, ci ha accolto con un sorriso quando ha saputo che eravamo italiani. Ha esclamato: “Italia, Berlusconi, Milan!”, come se fossero tre termini equivalenti. Era dispiaciuto che la squadra del Milan fosse stata comprata dai cinesi; e si meravigliava che non lo fossi anch’io. Si rivolge a me chiamandomi “fratello” e a Ornella chiamandola “sorella”.

 

Il Museo nazionale

A sera, siamo nella nuovissima Piazza Scanderberg, inaugurata qualche mese fa, sebbene alle spalle della statua equestre dedicata a Scanderbeg i lavori non siano ancora terminati. La scenografica piazza di Tirana è chiusa da edifici monumentali di varia epoca e stile diverso; le fanno da contorno giochi d’acqua e di luce destinati a stupire il visitatore. E’ il salotto buono della città, su cui convergono le principali arterie, sempre molto trafficate; un salotto molto vasto, attorniato da alberi giovanissimi tenuti in piedi coi tiranti; e ancora la Moschea col suo minareto; e un po’ più in là, la Chiesa ortodossa, illuminata come se fosse un night club, che sembra voler sedurre più che invitare alla preghiera: dall’una e dall’altra giungono rispettivamente il canto del muezzin e il richiamo delle campane, in tempi diversi, il che ci fa pensare che qui le due religioni si siano messe d’accordo per non sovrapporre voci e suoni. Lungo alcune strade del centro, platani maestosi si innalzano verso il cielo con grandi ramificazioni, forse quelli che vide nel ’59 Tommaso Fiore e che si salvarono dalla grande mattanza – bisognava far legna! – degli anni 1991-1995. Siamo nei pressi di un’alta torre ancora in costruzione, che presto dominerà per largo spazio tutto il centro di Tirana.

 

Mentre le ragazze dormono, io e Ornella, poco dopo le otto del mattino, usciamo di casa e percorriamo la Rruga Mihal Duri, su cui si aprono cento botteghe improvvisate, ma che stanno lì da chissà quanti anni, dentro locali fatiscenti di una Tirana seminascosta, che si può vedere solo in vie secondarie come questa: case basse con tetti di tegole, piccoli giardini poco o nulla curati, utilizzati come depositi dimenticati di oggetti disusati, dove ancora persistono alcuni pergolati, qualche catapecchia su cui è montata una parabola satellitare; e lì nei pressi l’albero del sambuco, spuntato tra le commessure del mattonato di un cortile, in un vicolo cieco, su un balcone abbandonato, onnipresente dove la mano dell’uomo si sia ritirata. In una rivendita sita in un piano seminterrato, compriamo un rustico ripieno di formaggio chiamato burek e un bottiglione di acqua da dieci litri (ci hanno sconsigliato di bere l’acqua dei rubinetti) e torniamo a casa. Al risveglio di Giulia e Sofia, verso le dieci del mattino, sotto un sole inclemente, tutti e quattro ci dirigiamo verso il centro cittadino.

 

Alla luce del giorno, Piazza Scanderbeg ci appare come un enorme spiazzo convesso interamente mattonato, dal quale, qua e là, scaturiscono sorgenti d’acqua corrente verso invasi occultati ai bordi della piazza. Sembra più una trovata che il risultato del genio inventivo; vale solo per l’estate – e già ora il viandante cerca di scansare quest’acqua per non bagnarsi le scarpe -, d’inverno credo che il gelo la trasformi in un’insidia. Abbiamo ragionato sul significato della piazza, giacché ogni elemento urbanistico è il frutto di una visione del mondo. Che cosa significa una piazza così vasta, così aperta, dove non è possibile sedersi né c’è un sedile o un posto all’ombra, se non lungo il perimetro, dove le persone possono solo transitare, senza fermarsi, perché fermarsi sotto il sole e con l’acqua ai piedi sarebbe cosa insensata, e dunque tutti si affrettano a raggiungere un punto di questa larga circonferenza per andare nella direzione voluta? Che sia questo un non-luogo, un luogo neutro, come quelli di cui parla Marc Augé, a cui possono guardare tutti, la statua equestre di Scanderbeg, la Moschea, la Chiesa ortodossa, gli edifici fascisti e quelli comunisti, e poi la torre dell’Hotel Tirana e del Plaza, senza che nessuno possa fermarsi e occuparlo? Qui nessuno ha il diritto di far questo, può solo transitare oppure star fermo ai margini, seduto sugli scalini del Teatro o del Museo storico, a guardare la grande piazza, un deserto di mattoni rinfrescato qua e là dalle sorgenti di acqua riciclata, su cui di notte abbiamo visto riflesse le luci dei palazzi. Giulia e Sofia mi dicono che anche nella piazza l’aria è irrespirabile perché sono poche le auto dotate di marmitta catalitica e il vento trasporta fin lì il gas di scarico dal brulicame delle strade tutt’intorno.

Ci si avvicina un uomo mentre siamo seduti sui gradini dell’Opera (Teatri Kombetar i Operas dhe Baletit). E’ molto gentile nel darci qualche indicazione sui luoghi che potremmo visitare. Parla in un discreto italiano, appreso, ci ha detto, seguendo le trasmissioni di Italia 1. Si offe di accompagnarci nel nostro tour, ma è una guida autorizzata – ci mostra il cartellino – e allora noi decliniamo l’invito, perché non vogliamo fare nessun giro turistico, ma solo vedere la città coi nostri occhi, senza alcuna mediazione.

Stremati dal caldo, siamo entrati nel nuovissimo grande Toptani Shopping Center. Dalle vetrate del sesto piano – zona ristorazione – il nostro sguardo poteva spaziare per gran parte del centro di Tirana, ma l’attenzione è stato attratta dalla grande – qui, infatti, tutto è grande – moschea, in avanzato stato di costruzione. Dicono che siano i turchi a finanziare questa moschea, che sarà la prima di tutti i Balcani. Alcuni operai vestiti di arancione sembravano piccoli piccoli dal nostro punto d’osservazione.  Ci siamo fermati a pranzo per godere ancora un po’ la frescura dell’aria condizionata e la vista sulla città. Come avevamo fatto a non capirlo prima? Era quello il vero centro della città, il centro commerciale: musei, torri, moschee e chiese, tutto giace ai suoi piedi. Qui tutti sono d’accordo tra loro, stretti nel vincolo degli affari e dello shopping.

All’uscita dal Centro commerciale, ci imbattiamo in una strada intitolata a George W. Bush. Che ci fa nel centro di Tirana, tra tante strade (tutte) dai nomi albanesi, una strada intitolata al presidente americano? Pare che gli albanesi gli siano grati per una sua visita avvenuta nel 2009. Ornella mi fa notare che a Tirana gli anziani hanno come seconda lingua l’italiano, i giovani l’inglese.

Visita alla Libreria di Piazza Scanderbeg (Libraria Adrion), dove compro due libri dell’editore Besa di Nardò (Lecce), a riprova che l’Albania non è poi così lontana.

 

Per arrivare a Scutari da Tirana si devono percorrere all’incirca 90 km. Alla periferia di Tirana, nel pomeriggio inoltrato, ci siamo trovati nella coda disordinata, in entrambe le direzioni di marcia, del rientro dal lavoro. Avanzando a passo d’uomo, la strada sembra trasformata in un bazar: a destra e a sinistra è un susseguirsi di negozi e negozietti d’ogni tipo, ricavati in un garage, in un sottoscala, in una rimessa, in una cantina, ovunque ci sia spazio per contenere merci; e noi con la sensazione di essere assediati da una miriade di persone che ti vuol vendere qualcosa o approfitta del transito a passo d’uomo delle auto per chiedere con insistenza l’elemosina: un’umanità povera e avida che al turista occidentale non può che incutere timore. Ornella mi ha chiesto di mettere la sicura all’auto.

Novanta chilometri per arrivare a Scutari sembrano poca cosa, ma diventano molti quando bisogna andare piano per studiare bene le mosse di automobilisti indisciplinati e di pedoni che attraversano la strada nei punti più impensati, lungo vie a percorrenza veloce, stando attenti anche a scansare ciclisti che pedalano in ogni direzione. E poi i lavori in corso sono dappertutto, con buche che si aprono quando meno te lo aspetti e devi essere lesto a evitarle se non vuoi finire da uno dei tanti gommisti che costeggiano la strada; e infine devi stare attento ai cani, pericolosissimi, perché, a differenza degli umani, attraversano senza neanche guardare.

Scutari, la seconda città dell’Albania per numero di abitanti (114.000), ci è apparsa sporca e malandata. Ci siamo giunti nel tardo pomeriggio, sempre aiutati dal Tom Tom, che ha supplito ad una segnaletica stradale pressoché assente. L’amministrazione locale ha provveduto a restaurare la strada pedonale destinata al passeggio e alla sosta presso i numerosissimi bar e negozi di souvenir. Ma basta allontanarsi dalla strada pedonale e subito si fanno incontri inquietanti: lo scheletro annerito di un palazzone di sei piani, un palazzetto ottocentesco, un tempo certamente elegante, ora in totale stato d’abbandono, la facciata di un edificio pieno di decoro oltre la quale si intravvedono le erbacce cresciute sopra il tetto caduto, ecc. Tutto dà l’impressione del lavoro in corso, dell’opera incompleta. Solo la Moschea è nuova di zecca ed anche la vicinissima Chiesa ortodossa. Ornella in una sua foto è riuscita a riprendere la croce e il minareto insieme.

Abbiamo tentato di raggiungere il lago, ma non ci siamo riusciti, neanche con l’aiuto del Tom Tom. Era già notte e allora abbiamo fatto rientro a Tirana.

 

Il pomeriggio seguente, abbiamo potuto vedere il lago di Tirana, un laghetto artificiale, che si raggiunge, partendo da Piazza Scanderbeg, dopo una lunga scarpinata. Il lungo viale Bul. Deshmoret e Kombit, che un tempo era intitolato a Mussolini, porta verso Piazza Italia, ora Sheshi Nene Tereza, Piazza Madre Teresa di Calcutta. I cambiamenti toponomastici rivelano la rimozione della storia e i nuovi orientamenti. Il viale è costeggiato da molti giardini che conservano qua e là vecchi bunker, e da innumerevoli torri più o meno alte, dove hanno sede le banche e altri istituti d’affari. Piazza Italia è contornata dai palazzi del potere e sembra chiudere uno spazio vuoto, desertico, inospitale. Impensabile che gli uomini si fermino nel suo centro e discutano e contrattino e parlino fra loro. Queste piazze si possono solo attraversare velocemente oppure è bene tenersi ai margini, come Piazza Scanderbeg. Le persone amano passeggiare più in là, oltre il bosco del Parku i Madh che si valica su una viottola in salita ben lastricata, riservata ai pedoni e ai ciclisti, senza distinzione di corsia. Si sale volentieri fino in cima perché alla fine del sentiero c’è la discesa e la ricompensa: un laghetto artificiale con tanto di diga con la quale si è sbarrato il corso di un torrente le cui acque si sono raccolte nella vallata. Sulla diga le persone vengono a passeggiare sperando nel refrigerio dell’acqua, mangiando noccioline e sgranocchiando pannocchie arrostite. Oltre la diga, più in basso, il traffico bloccato di ogni sera.

 

Busto di Scanderbeg

Due mattinate, uno per visitare la Galleria d’arte moderna e un’altra per visitare il  Museo storico dell’Albania (Muzeu Historik Kombëtar). Nella Galleria abbiamo visto molte opere di autori del periodo socialista, opere inneggianti al lavoro, alla guerra di liberazione, molte icone di Scanderbeg. Gli artisti albanesi sembrano essere rimasti estranei alle maggiori correnti dell’arte europea.  Nel Museo, ecco una ricostruzione della storia dell’Albania dalla preistoria ai giorni nostri. Pochissimi i visitatori e quei pochi molto frettolosi, essendo la temperatura oltre i trenta gradi e non essendoci alcun condizionatore, se non un vecchio ventilatore ad uso del custode.

 

Dal balcone del nostro appartamento, tra gli alti palazzi, vedo poche vecchie case della Tirana scomparsa, che sopravvive a stento nei retrobottega delle vie principali; case coi tetti a tegola, ad un piano solo, al massimo due, quasi sempre  fatiscenti; e appoggiate a queste vecchie case, le pergole di Tirana. Per avere una pergola basta possedere un piccolissimo giardino di pochi metri quadri; di meno, basta avere una casa con un tetto e un metro quadro di terra attiguo alla casa, entro cui impiantare la vite. Essa crescerà in quel poco di terra e darà ombra e frutto – d’agosto l’uva a Tirana è già matura -. La pergola di città è opera del contadino inurbato, che ha abbandonato la campagna e ha ricreato, dov’era possibile farlo, un pezzo della sua vita rurale. Ho visto molte pergole ben curate dietro gli alti palazzi, altrettante in malora, destinate a inselvatichire e a diventare sterili. Una aveva invaso la strada e cresceva sui rami di un albero dell’arredo floreale pubblico.

 

Abbiamo trascorso un pomeriggio a Durazzo. Per andare a Durazzo da Tirana (36 km) bisogna percorrere un’autostrada, dove tutti corrono sulla corsia del sorpasso perché è quella in buone condizioni, essendo stata asfaltata di recente, mentre la prima corsia appare piuttosto consunta e può riservare la sorpresa di qualche buca. Durazzo è la città portuale che fronteggia Bari, da dove nell’autunno del 1959 giunse in visita Tommaso Fiore. Passeggiamo in lungo e in largo, visitando la Moschea che domina la piazza,  la Chiesa ortodossa, affacciata sulla Rruga Fan S. Noli (il biografo di Scanderbeg), e il bagno turco (non visitabile) nei pressi della zona portuale, e poi i ruderi seminascosti dell’anfiteatro romano, uno dei più grandi dei Balcani, dove una coppia di sposi si fa riprendere da un fotografo per immortalare il giorno delle nozze.

Sorbiamo un buon gelato, sudiamo sette camice per il caldo umido che viene dall’Adriatico e poi torniamo a Tirana. Bisogna preparare le valige per la partenza del giorno dopo.

 

La mattina del giorno dopo per uscire da Tirana abbiamo fatto tre giri della città seguendo il Tom Tom, che ci portava sempre dove la strada era interrotta da lavori in corso. Eravamo disperati. Ho fermato la macchina in cerca di qualcuno che ci consigliasse. Non dimenticherò mai il macellaio col coltello in mano che, compresa la nostra difficoltà, aveva lasciato il suo esercizio per darci delle indicazioni. Si spiegava bene nel suo albanese-italiano-inglese. Ma poi, siccome la strada era davvero intricata, allora quest’uomo corpulento ha dato ordine a un suo dipendente di scortarci col motorino fino all’uscita di Tirana, facendoci imboccare la strada giusta. Ed eccoci all’inseguimento del motociclista senza casco, che percorre tre chilometri davanti a noi, increduli davanti a tanta gentilezza. Amici miei, come ringraziarvi?  Se non fosse stato per voi, stavamo ancora lì a girare tutt’intorno su noi stessi nel labirinto della Tirana moderna.

Galatina, fine-agosto 2017

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