Di mestiere faccio il linguista 15. I pronomi e la giusta distanza

Un sistema tripartito funziona nei Promessi Sposi di Manzoni. Si danno del “voi”, alla pari, Agnese e Perpetua, Renzo e Lucia, il Cardinale e l’Innominato. Ancora alla pari, il “tu” viene usato tra Renzo e Bortolo o Tonio, vecchi amici. Agnese dà del “tu” a Lucia che risponde alla mamma con il “voi”. Don Abbondio dà del “voi” ad Agnese che risponde per rispetto con il “lei”. Il dialogo tra Fra Cristoforo e don Rodrigo inizia col “lei”, ma quando il frate s’indigna passa al “voi”  (“la vostra protezione…”) e per contraccolpo don Rodrigo passa al “tu”, per disprezzo (“come parli, frate?”). Ma “tu” non indica solo disprezzo, viene usato anche per rivolgersi a un Ente superiore. «Tu dalle stanche ceneri / sperdi ogni ria parola» scrive Manzoni, rivolgendosi alla Fede nel Cinque maggio. «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» invoca Cristo sulla Croce.

Così in passato. Oggi, nella pratica, la scelta più frequente è limitata al “tu” e al “lei”, mentre il “voi”,  riferito a un singolo individuo, si usa solo in condizioni particolari (vedremo quali). L’uso dei pronomi non oscilla a caso, è soggetto a regole precise, dipende dal contesto in cui la comunicazione avviene ed è vincolato dalle norme sociali vigenti in un determinato momento storico. Esiste un sistema di regole che governa il comportamento degli interlocutori. La scelta del pronome allocutivo è determinata dal contesto (formale o informale) in cui si realizza il dialogo e dal tipo di relazione esistente tra parlante e ascoltatore. La scelta deve essere coerente con i saluti, i titoli, il tono della voce e con i comportamenti non-verbali.

A un amico con cui si è in rapporto confidenziale si dice: «ciao, Andrea, come stai?»; e la frase può essere accompagnata da comportamenti non-verbali come un abbraccio, una stretta di mano o una pacca sulla spalla. Ad una persona con cui abbiamo rapporti solo formali ci rivolgiamo con il “lei” e manteniamo anche fisicamente una certa distanza.  Un giovane che si presenta a un colloquio di lavoro deve parlare e comportarsi in modo adeguato alla circostanza, non può sbagliare nell’uso dei pronomi.

Possiamo dire che “tu”  indica familiarità, “lei” indica distanza.  Il “tu” reciproco è riservato in genere ai rapporti informali (amicizie, famiglia, lavoro, colleghi che si frequentano abitualmente);  il  “lei”  reciproco si adatta ai rapporti formali e istituzionali fra persone che non si conoscono o si conoscono poco, ai rapporti gerarchici.

Badate all’aggettivo “reciproco” che nella frase precedente segue i pronomi “tu” e “lei”: indica una condizione di simmetria, il rapporto non è sbilanciato. Gli interlocutori sono su un piano di parità e, di conseguenza, adottano lo stesso pronome.  Ma esistono anche rapporti asimmetrici, nella lingua e nella società. Se uno dei due interlocutori è in posizione di maggior potere (comunicativo e sociale) spesso si ha un rapporto asimmetrico: l’uso di “tu” da parte del superiore (o ritenuto tale) e di “lei” da parte dell’inferiore (o ritenuto tale).  A volte il rapporto asimmetrico è ammesso, anzi normale. A scuola, quando gli studenti sono molto giovani, il professore dà del “tu” agli alunni ma questi si rivolgono al professore con il “lei”; all’università, con studenti di vent’anni e oltre, è normale il “lei” reciproco.

Per passare da un pronome allocutivo formale a un altro meno formale (operazione nota come «passare al “tu”»), le buone maniere vigenti in Italia vogliono che la proposta sia fatta dalla persona superiore (dalla più anziana, dalla più elevata per grado o funzione o, in condizioni di parità sociale,  dalla donna, se l’interazione avviene tra uomo e donna).

Non ho dimenticato il “voi”, oggi in regresso. Il regime fascista aveva giudicato il “lei” capitalista e plutocratico e aveva imposto il “voi”, sembrava più virile e bellicoso.  Ma questo di fatto corrispondeva all’inglese “You” e al francese “Vous”, le lingue dei paesi ritenuti nemici; mentre il “lei” come abbiamo visto veniva dalla Spagna, in quegli anni politicamente vicina (sono noti i collegamenti tra fascismo e franchismo). A volte i risultati furono buffi. Si arrivò a sostituire il titolo delle rivista femminile  Lei con un nuovo nome, Annabella.  Ma Lei di quel titolo non era pronome personale di cortesia,  indicava che la rivista era dedicata alle donne e non agli uomini, a Lei e non a Lui.

Con la caduta del fascismo, l’uso del “voi” decade  ma non scompare del tutto. Il “voi” resiste nel Meridione,  in molti dialetti dell’Italia del sud. Viene sentito come una forma di rispetto. Fino a non molto tempo fa capitava, seppur raramente, che uno studente mi chiedesse: «Professore, mi dite a che ora cominciano gli esami?». A Napoli sono ancora frequenti domande del tipo: «Vi piace questa camicia? La volete comprare?». Specie nelle realtà rurali è ancora abbastanza diffuso l’uso del “voi” (spesso “vui”) quando ci si rivolge a genitori, persone anziane o di grande importanza e superiorità morale.

Esistono anche forme andate in disuso, quasi nessuno le usa più. Una volta, per rispetto, in un’aula universitaria o in una conferenza, si usava il plurale “loro” («come loro sanno…»).  Usato ormai in senso ironico è l’arcaico “lorsignori”; dire «come lorsignori m’insegnano…» equivale a una presa in giro degli interlocutori. I dialetti conservano più tenacemente forme arcaiche. Nel siciliano è ancora attestato (nonostante sia in calo tra i giovani), l’uso del “vossìa”, contrazione di Vossignoria che vuol dire Vostra Signoria. In Salento,  nel contado e nei ceti popolari, verso estranei e persone giudicate di livello superiore, si usa come appellativo “Signuria”, con il verbo alla seconda persona singolare (per es. «Signuria, comu stai?»).

Mi sono lasciato prendere la mano, ho scritto troppo, non ho risposto alle domande iniziali. È normale l’uso crescente del “tu” tra persone che non si conoscono? Come va giudicato questo fenomeno? Di tutto ciò parleremo nella prossima puntata.

[“Nuova Quotidiano di Puglia” di domenica 16 ottobre 2016]

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