Itali-e-ni 22. Le ricordanze

di Paolo Vincenti

“Un anno è andato via della mia vita, già vedo danzar l’ altro che passerà. 
Cantare il tempo andato sarà il mio tema perchè negli anni uguale sempre è il problema:

e dirò sempre le stesse cose viste sotto mille angoli diversi, 
cercherò i minuti, le ore, i giorni, i mesi, gli anni, i visi che si sono persi, 
canterò soltanto il tempo…”.

( “Il tema” – Francesco Guccini)

Era inverno, in quel tempo gli inverni ancora cadevano qui a Sud, il freddo penetrava le finestre e sembrava già notte alle cinque di pomeriggio. Le ombre vaghe si allungavano nel semibuio del salone. Le case d’inverno avevano un che di autentico, originale, non saprei come definirlo in altri termini, ma anche spettrale, con quei lumicini a rischiarare tremuli un buio altrimenti compatto, lucido, stirato, un vero buio insomma, come arrivato dall’ante quem, quasi sputato  dai primordi del tempo. Oh sì, abbuiava presto d’inverno e l’oscurità conferiva alle persone, nei contorni indefiniti, sfumati, dei volti splenetici, che a me richiamavano quell’atmosfera precisa e inconfondibile aspersa fra le pagine della mia antologia di italiano, “Comunicare con…”, aduggiata fra le sue parole, nel bianco e nero delle sue righe.  In quei tre puntini di sospensione del titolo era l’estrinsecarsi della libertà, della più sfrenata fantasia, l’apoteosi delle possibilità. La libertà, cioè, di comunicare con chiunque, con tutto il mondo, a mio assoluto piacimento, secondando ogni più strampalato capriccio. Questo libro scolastico mi parlava di cose meravigliose e impalpabili come per esempio  “La storia dei ricci” di Gramsci, oppure “ Un leone di duecentocinquanta chili” di Folco Quilici, o ancora gli avvistamenti degli Ufo, e via leggendo. C’era una luce gialla nelle case d’inverno, che rendeva le persone cinerognole e a guardare quel fioco brillio da fuori si potevano cogliere, quasi che l’aria stessa li generasse,  fili di sogni,  arabeschi di figure riverberanti nel calore di quella luce. Al contrario, se dai vetri essudanti per il tepore delle stufe a gas, si guardava fuori, il teatro che si offriva alla vista era un buio sipario trapuntato da pagliuzze doro, un nero fondale solcato da luminescenze come le stelle dorate sulla carta cielo del presepe; e se si prestava orecchio allo scalpiccio dei passanti, quando non coperto dal rimbombo delle macchine,  questo sembrava, nel silenzio della sera, il passo lieve di fantasmi, il germinale schiocco della vita nell’impatto con la terra e con la storia.

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