Una selva di affetti

            Il racconto prende le mosse dal viaggio in macchina del figlio con le due nipoti nel corso del quale, data l’età delle bambine, le domande emergono ancora in forma semplice ottenendo dal padre risposte circonlocutorie. Poi di colpo due vicende collettive fanno assumere al libro un tono e un peso maggiori: oltre alle questioni territoriali e di autodeterminazione di due popoli vicini che nell’immediato primo dopoguerra suscitarono rivendicazioni e proteste (nonché l’impresa dannunziana di Fiume), il racconto comincia ad affrontare anche questioni economiche come il rilievo delle miniere dell’Arsa, già vanto della regione e poi, negli autarchici anni Trenta del Novecento, simbolo della ricchezza energetica italiana.

            Nel primo episodio la trama – che è una trama di affetti, di sentimenti contrastanti più che di vicende – cresce in complessità, come cresce il grado di tensione emotiva. Si tratta dell’occupazione delle miniere da parte dei minatori nel 1921, a causa dell’arrivo degli italiani («Sotto l’Austria le giornate di riposo erano ventiquattro, con l’Italia si dimezzano», p. 51).

            L’occupazione, le ragioni dei minatori, la fine dell’esperienza di autogestione e il processo che li vedrà assolti dicono molto delle particolari difficoltà dell’Istria. E ancor più lo fa il secondo episodio, l’incidente minerario del 28 febbraio 1940 nel quale morirono centottantacinque persone: la più grande tragedia mineraria della storia italiana, ancor oggi pressoché sconosciuta all’opinione pubblica. Favorita dalle ambizioni fasciste nel settore industriale e dalle sciagurate decisioni che estromisero dopo le leggi razziali del 1938 sia chi, ebreo, aveva retto la miniera, sia chi aveva dimostrato l’enorme competenza d’ingegneria necessaria a gestirla, la tragedia fu taciuta per giorni. I giornali ne parlarono con una settimana di ritardo, raccontando del Duce intento a stanziare borse di studio per gli orfani. Nonostante le proteste delle diverse popolazioni che piangevano i loro cari, i responsabili non furono rimossi. E mentre ciascuno reagiva secondo la propria sensibilità, l’Italia si avvicinava alla Seconda guerra mondiale.

            In questo quadro le ragioni del confitto crebbero intrecciandosi ai regolamenti di conti, all’incrocio tra vicende belliche e questioni private, ai crediti e debiti commerciali da saldare; crebbero anche le rivendicazioni etniche, dopo tanti anni di fascismo, e così un nazionalismo croato risorgente che allontanava chi per tensione ideale e scelta politica avrebbe dovuto appartenere allo stesso fronte (i partigiani comunisti croati e quelli italiani). Davanti all’arrivo dei tedeschi, fra l’11 e il 12 settembre 1943 le autorità civili e militari fuggirono. Lo scontro fra partigiani e tedeschi avvenne poco dopo. I nazisti, o per meglio dire i nazifascisti, uccisero cinquanta partigiani (molti erano italiani). La nazionalità non bastava a riconoscere le parti del conflitto.

            Molti cittadini di Albona vennero arrestati dai partigiani di quella che nel 1929 era diventata la Jugoslavia, non solo o non tanto per il passato fascista (i gerarchi erano già fuggiti); a volte furono semplicemente considerati notabili del luogo, possidenti: erano professionisti, commercianti, alcuni di loro addirittura antifascisti. Li caricarono sulla corriera delle miniere. Finirono nelle foibe.

A incendiare questo scontro cooperarono anche le ragioni personali di Matteo Stemberga, soprannominato Caballero, uomo di fiducia del Partito comunista croato, un capo sadico al punto che «i suoi stessi compagni furono costretti a condannarlo a morte» (p. 114).

            Il racconto delle foibe del 1943 – per distinguerle da quelle del 1945 – si muove sulle linee di numerosi rapporti di forza pieni di lacune che l’autrice coglie dal vivo nella sua inchiesta personale, interrogando le scarne parole di qualche superstite. Ed è qui che sembra riuscire nel suo intento. Il pregio maggiore del libro non sta tanto nella lingua sorvegliata, quanto nella sensibilità che l’autrice mostra nell’interrompere di volta in volta la narrazione davanti all’esito finale, già annunciato. In modo apparentemente paradossale, la trama si sviluppa proprio con una serie di reticenze: sulla storia della nonna, sui dettagli che ricostruiscono l’incidente in miniera, sulla città di Trento (nella quale la nonna si era poi trasferita e di cui poco si dice) e infine sulla stessa foiba di Vines, sul ciglio della quale l’autrice ormai adulta si ferma a gettare un solo sguardo, dopo aver mostrato e commentato le fotografie dei corpi ripescati. Le varie persone evocate da Silvia Dai Pra’, alcune memorabili come Giovanni Pippan – leader dei minatori, oratore che dall’Istria finirà ucciso dalla mafia a Chicago –, emergono con evidente plasticità, gravata però dall’enigma della coscienza di essere al mondo in un luogo e soprattutto in un tempo al quale non si poteva neppure pensare di sfuggire.

            Sorretto dal pudore dell’autrice, il libro guadagna efficacia nell’affrontare di lato, quasi senza darlo a vedere, la lunga serie di concause che diede luogo a uno degli episodi più difficili da comprendere dopo l’8 settembre 1943, mostrando in atto come ogni schematismo riduzionista risulti inutilizzabile. L’esito finale riposa, appunto, più che sulla trama o sulla drammatizzazione della voce narrante, sul rilievo delle abitudini popolari, sugli effetti emotivi che restano umanamente le eredità più evidenti di questa storia.

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