Su Dimora naturale di Andrea Bajani

Andrea Bajani, come nel racconto muove la prosa verso la poesia, cioè verso un domandare irrisolto e meravigliato – si pensi solo a uno degli ultimi libri, Un bene al mondo, storia di un bambino con il suo dolore, un dolore che è animato – così nei versi cerca di dare al poetico una forma piana, raccolta, essenziale e disadorna, aforismatica a volte, insomma un andamento discorsivo, che negli incipit di ogni ottava trova le sue conversevoli variazioni. Un dire che accoglie apparizioni, con la scia grave o fantasiosa del loro mostrarsi, come alcune immagini suggeriscono: un grido di un bimbo scambiato per il grido di un gabbiano o per la voce di un gatto, l’ala del falco nella fusoliera di un aereo, il cielo nel cerchio di una pellicola d’acqua che è sul tavolo. A proposito di questa immagine del cielo, l’azzurro nella superficie del quotidiano potrebbe essere la cifra della ricerca che trascorre in questi versi, come il giuoco della lettera, il movimento fantastico dell’alfabeto, era la tensione propria della precedente raccolta, Promemoria.  E c’è un filo che riaffiora talvolta e che è il dire della poesia stessa: parola che prende su di sé la coloritura e il movimento della cosa che rappresenta. Come vediamo nei versi: “Sono stormi, queste ottave di novembre, /si chiamano a raccolta come per istinto, / da settimane fanno disegni sopra i tetti”.  Così, tenere la penna tra le dita nel movimento dello scrivere è “come liberare/ una colomba per accorgersi del cielo”. E se è prevalente lungo il movimento musicale dei versi il registro atonale e ironico, l’ultima ottava raccoglie, dicendo proprio della poesia, quel cielo, dunque quell’alterità cosmica, prima nascosta nella superficie del visibile: “La poesia ha traiettorie solo a posteriori, /è un asteroide disperso, non monitorato. /Non esplode, non fa danni, lascia polvere /di versi sui balconi e torna nel buio siderale”.

[“Alias – Il Manifesto” del 28 giugno 2020]

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