Mario Draghi ovvero un liberista classico al potere

Questi due riferimenti hanno un significativo impatto sulle condizioni dell’economia italiana oggi, se portati a un riferimento legislativo. In primo luogo, le ondate di fallimenti alle quali stiamo assistendo andrebbe considerato un dato di mercato rispetto al quale nessuna previsione di azione pubblica sarebbe da assumere. Per contro, la crescita dei profitti delle grandi imprese multinazionali sarebbe da considerare un dato naturale da non contrastare.

In secondo luogo, il riferimento alla deregolamentazione del mercato del lavoro cade in un momento nel quale, in Italia, è in discussione la norma che viola i licenziamenti.

Siamo quindi di fronte a una visione ‘schumpeteriana’ in chiave liberista del funzionamento di un’economia capitalistica, nella quale la crescita economica viene demandata alla spontanea produzione di innovazioni e le crisi economiche gestite attraverso maggiore deregolamentazione del mercato del lavoro e politiche monetarie. Su quest’ultimo fronte le sue opinioni sono desumibili dai suoi comportamenti presso la BCE. Un economista di orientamento propriamente keynesiano con incarichi di responsabilità istituzionale in Europa avrebbe sollecitato l’attuazione di politiche fiscali espansive, mediante principalmente piani di investimenti pubblici. La politica monetaria, in un contesto keynesiano, è inefficace ovvero da sola e se non guidata dalla politica fiscale è incapace di portare il sistema in equilibrio. Altrettanto diversa da quella del suo Maestro, Federico Caffè, è la visione di Draghi oggi: per Caffè – uno dei massimi economisti italiani del secondo Novecento – compito della politica economica avrebbe dovuto essere la regolazione, il dominio e il governo dei mercati, subordinandoli a obiettivi di progresso civile, di crescita culturale e morale della collettività.

L’interpretazione che Draghi ci offre del mercato è quella di un luogo esente (o che dovrebbe esserlo) da interventi politici: si tratta di un’interpretazione molto vicina al liberismo classico più che al neoliberismo e che si traduce nella convinzione per la quale i profitti elevati delle multinazionali, ottenuti anche a spese di fallimenti di piccole imprese, è il risultato di un principio organizzativo che noi ci siamo dati e che, per questa ragione, è intrinsecamente il risultato di una scelta politica.

                                                                                  

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