Dante, Avati e il racconto dell’uomo, non del poeta

di Adele Errico

Quando Dante vede Beatrice per la seconda volta, nove anni dopo il primo incontro, la donna si volta e gli rivolge un saluto. Dopo quell’incontro Dante si rifugia nel “solingo luogo d’una mia camera” e, nel pensiero travolgente di lei, si addormenta sfinito. Sogna, allora, una donna nuda, avvolta in un manto rosso sangue che gli mangia il cuore. Esce in questi giorni nelle sale cinematografiche “Dante”, il nuovo film di Pupi Avati. Per il regista il risveglio da questo sogno, magnifico e inquietante, orribile e sublime, costituisce l’istante in cui il ragazzo diviene poeta. “Dante” non è solo una pellicola. È un’ambizione durata vent’anni – come ha dichiarato il regista – che ora si realizza nei volti e nelle voci degli attori che hanno dato un corpo a figure lontane nel tempo. E la corporeità in questo film è un elemento di assoluto rilievo: i personaggi di Avati sono concreti, presenti, reali, fatti di pelle, di piaghe, di lacrime. Ha un corpo Boccaccio, quello di Sergio Castellitto, che srotola la narrazione della vita di uno dei personaggi più misteriosi e affascinanti della storia occidentale. Un Boccaccio che, dopo un viaggio di sei giorni su un carretto malconcio, stanco, con le mani piene di scabbia, raggiunge la figlia di Dante a Ravenna, dove è rimasta a fare da vestale al corpo del padre, per poterle parlare. Per chiedere, per capire. E poi raccontare.  Ha un corpo Dante, quello di Alessandro Sperduti che in questo film, non è solo il poeta ma soprattutto l’uomo.

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