Su Dissimiglianze, un ritorno di Carlo Alberto Augieri

di Antonio Lucio Giannone

            Da quasi trent’anni Carlo Alberto Augieri è attivamente impegnato nel campo della ricerca e della sperimentazione  poetica. Esordì nel 1978 con Skarnificazione, poi via via sono venute altre raccolte, e precisamente Folstizio (1984), Segni sui disegni del caso (1992) e Storiofonie (1999). Ora è la volta di Dissimiglianze, un ritorno, con una prefazione in forma di dialogo tra l’autore stesso e Augusto Ponzio (Lecce, Manni, 2004). È bene chiarire subito però che lo sperimentalismo di Augieri non ha motivazioni di carattere esclusivamente letterario, non è cioè di tipo ludico-formale, essendo legato, più in generale, alla sua visione del mondo. Egli infatti ha sempre  rifiutato il linguaggio standardizzato della società, che è quello del potere, delle convenzioni che nascondono la nostra più autentica natura. Come pure non ha mai accettato  la concezione  della poesia come  pura liricità, come espressione dell’io, di sentimenti, di stati d’animo riguardanti il singolo individuo.  Per questo va alla costante ricerca di una forma “altra”, che riesca ad esprimere pienamente quel grumo oscuro che ha dentro di sé e che non riesce a manifestare in maniera diversa. Nella sua inquieta ricerca ha subìto perciò le suggestioni di molteplici discipline, come la linguistica, la psicologia, l’antropologia, le quali hanno costituito anche il lievito del suo lavoro di critico e teorico della letteratura.

            Questa raccolta comprende cinque composizioni che prendono spunto da altrettanti celebri testi di grandi poeti, antichi e moderni, e di un famoso mistico: Hölderlin, Mallarmé, Leopardi, Dante, San Juan de la Cruz. Di questi testi, anzi, alternati alle strofe, sono riportati alcuni versi evidenziati in neretto. Si tratta, cioè, di una ri-scrittura di poesia, in una sorta di continuazione differente, di somiglianza dissimigliante. Come dice l’autore nella prefazione, egli ha cercato di “parlare non dell’altro, ma… parlare con l’eco della parola dell’altro”, abbandonandosi  “alle immagini che le figurazioni altrui ‘aurorano’ nella propria coscienza, dentro le quali c’è l’io ‘generato’ dalle parole maschili e femminili dell’altro” (p. 16). Sono versi insomma che scaturiscono proprio dalle suggestioni, ora concettuali, ora foniche, della scrittura altrui, ma che permettono al poeta di esprimersi in maniera originale, non come pure ripresa imitativa.

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