Di mestiere faccio il linguista 25. La Scuola Poetica Siciliana

La personalità più interessante è Giacomo da Lentini, fondatore del movimento e caposcuola per molti rimatori contemporanei e successivi, indicato con la definizione antonomastica di Notaro, che sottolinea la collocazione sociale di Giacomo. Il gruppo numericamente più cospicuo di poeti proviene dalla zona messinese; non mancano autori che provengono dalla Sicilia occidentale; altri vengono dal continente peninsulare; altri ancora, infine, sono d’incerta collocazione. Si tratta dunque di un gruppo composito, i cui protagonisti hanno origini diverse, una formazione variata, gradi diversi di professionalità letteraria, bagagli culturali dissimili. Nonostante queste difformità, la Scuola Poetica Siciliana presenta comunque una fisionomia omogenea, garantita da una serie significativa di tratti tematici e linguistici comuni, che collega personalità, modalità di esecuzione e singole realizzazioni.

Il collante principale è la lingua, comune sia ai rimatori insulari sia a quelli peninsulari. La lingua dei nostri poeti è un siciliano illustre, come illustre è qualsiasi lingua della lirica medievale, che non è mai semplice rispecchiamento del parlato. Nel caso particolare spicca la tensione verso una lingua particolarmente elevata. Questo strumento raffinato è costruito mediante un continuo ricorso a latinismi e a provenzalismi, parole prese di peso dal lessico dei trovatori provenzali. La Scuola Siciliana nasce a imitazione di un modello altissimo ma poi si sviluppa in autonomia e in forma originale. Oggi conosciamo molto di quella poesia: contenuti, forme, modelli. Resta, invalicabile, un limite che riguarda la lingua e la vera fisionomia dei testi, per noi inconoscibile a causa di un fatto fondamentale: quei testi furono ricopiati da copisti toscani, che ne alterarono in maniera decisiva i caratteri e i tratti linguistici.

Vediamo come è andata. A parte pochi pezzi (che per ragioni di spazio non è possibile citare singolarmente), quanto ci rimane della poesia dei Siciliani non è giunto a noi nella forma originaria ma in una veste linguistica profondamente modificata. Quelle poesie, composte in siciliano illustre, ci sono state trasmesse quasi per intero da tre grandi canzoni allestiti e copiati in Toscana, tra la fine del Duecento e i primissimi anni del Trecento. L’azione di copia modificò profondamente la lingua, quasi una vera e propria traduzione. Si tratta di un processo abituale per i testi medievali, che riguarda tutte le opere precedenti la stampa. I copisti medievali, quando trascrivevano un testo, senza dolo e in maniera asistematica, indipendentemente dal rispetto che potevano avere per le opere che ricopiavano, sovrapponevano sempre la loro forma linguistica alla lingua del testo trascritto, che assumeva un aspetto radicalmente diverso. Le differenze tra siciliano e toscano non sono piccole e l’operazione di adattamento ebbe effetti linguisticamente devastanti. Forme siciliane come aviri, serviri, ura, figura, menti, ridenti diventarono avere, servire, ora, figura, mente, ridente nella trascrizione/traduzione dei copisti toscani.


Re Enzo-Semprebene da Bologna, S’eo trovasse pietanza, vv. 43-56.

Il rimaneggiamento fu vistoso, la trascrizione operata dai copisti toscani modificò profondamente la lingua dei testi siciliani ricopiati. Eccone una prova lampante. La canzone S’eo trovasse Pietanza, di Re Enzo e Semprebene da Bologna, che agivano probabilmente in collaborazione, per un caso assolutamente eccezionale offre una trentina di versi sia in veste siciliana, da ritenersi originaria, sia in veste toscana. Si guardi il riquadro al centro della pagina. Più efficace di qualsiasi commento, il confronto tra le due versioni, vv. 43-56 (siciliana e originale nella colonna di sinistra, toscana e modificata nella colonna di destra), rende immediatamente ragione della distanza linguistica che intercorre tra i testi giunti a noi.

Il toscaneggiamento delle poesie siciliane ebbe un effetto positivo agli occhi di quanti in Toscana apprezzarono i poeti della scuola siciliana anche perché sentivano la lingua di questi testi (modificata dai copisti) vicina alla propria. Si spiegano così le lodi dantesche, l’apprezzamento esplicito che il padre della lingua italiana riserva a quei progenitori. Dante emette giudizi lusinghieri sul volgare utilizzato dai poeti della Scuola Siciliana perché legge dei testi in cui il siciliano illustre era toscanizzato e ben commestibile per il suo palato esigente.

Il passaggio di quelle poesie dalla Sicilia verso il Centro e il Nord non fu istantaneo né avvenne in un colpo solo. Dislocazioni parziali interessarono altre direttrici, oltre alla Toscana. Altre località conobbero quelle poesie e le apprezzarono: Napoli, Bologna, il Veneto, la Lombardia. Non il Salento, che restò appartato rispetto a quel flusso poetico. Né poeti di origine salentina contribuirono alla nascita e allo sviluppo di quel movimento poetico da cui è nata la poesia italiana. Così è andata la storia. I testi commentati dei Poeti della Scuola Siciliana si possono leggere in tre volumi promossi dal Centro di studi filologici e linguistici siciliani di Palermo e usciti nella collana dei «Meridiani» di Mondadori.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 15 dicembre 2019]

 

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