Oreste Macrì e «L’Albero»

            D’altra parte, occorre ricordare che «L’Albero» non era stata la prima rivista salentina a cui Macrì collaborava. Il suo esordio nella propria terra, anche in qualità di organizzatore, risale al 1941, allorché aveva curato, insieme a Vittorio Bodini, la «terza pagina» di un settimanale leccese diretto da Ernesto Alvino, che è entrata nella storia dell’ermetismo italiano. Mi riferisco, come si sarà capito subito, alla pagina letteraria di «Vedetta mediterranea», che durò solo dodici numeri, perché i due curatori a un certo punto, messi dinanzi all’alternativa di cambiare radicalmente impostazione o di chiuderla, per evidenti divergenze rispetto alla linea di politica culturale seguita dal regime fascista anche in provincia,  preferirono chiuderla. Anche qui  Macrì è costantemente presente con sei «letture» (su R. Rebora, E. Treccani e E. Vittorini, C. Bo, V. Sereni, M. Luzi, V. Pratolini) e si caratterizza ben presto  «come l’espressione critica più lussureggiante e impegnata dell’ermetismo e quasi come il propagatore della nuova cultura nella propria terra»[3].

D’altra parte anche Bodini allora militava nell’ermetismo anche se il suo sguardo era rivolto, in particolar modo, alla grande letteratura europea della modernità come dimostrano i suoi articoli sulla terza pagina riguardanti Joyce, Poe e Kafka. In questo intervento non mi occuperò però di «Vedetta» e rimando per l’approfondimento al volume Cento anni di vita letteraria nel Salento di Donato Valli, il quale ha avuto il merito di averla studiata e imposta all’attenzione nazionale, insieme alle principali riviste salentine del Novecento. Vorrei solo citare un breve brano di un articolo di Bodini in cui egli rievoca proprio quei tempi e la sua collaborazione con Macrì, che conosce a Maglie e non a Firenze, nonostante avessero vissuto entrambi  nel capoluogo toscano alla fine degli anni Trenta:

Nel 1941, scavalcando due volte la settimana a turno la breve pianura pietrosa che divide Lecce da Maglie, su un trenuccio da western che lasciava densi cenci di fumo grigio fra fichi d’India e ulivi, facemmo a Lecce con Oreste Macrì la pagina letteraria d’un settimanale, «Vedetta Mediterranea». Magri e laureati entrambi a Firenze, benché in anni diversi, facemmo della pagina un’isola di indifferenza ― alla rivoluzionaria ― alla circostante materia provinciale e politica, spingendo lo scrupolo sino a differenziare la nostra pagina dalle altre anche tipograficamente, nel numero delle colonne[4].

E questa breve avventura, in fondo, segna l’inizio di una collaborazione tra questi due grandi letterati e ispanisti salentini destinata a durare, pur tra alti e bassi, trent’anni.

            D’altra parte Macrì ha collaborato anche ad altri periodici leccesi, tra i quali cito soltanto «Libera Voce» e il supplemento letterario del  «Critone», curato da Vittorio Pagano, dimostrandosi ― sono sempre parole di Valli ― «animatore instancabile della provincia letteraria salentina, alla quale si sente ancestralmente avvinto nella fabulosa ricerca del proprio archetipo regionale»[5].

            Ma veniamo adesso all’«Albero», alla seconda serie dell’«Albero». Siamo, come s’è detto, nel 1970[6]. Comi era morto ormai da due anni e il Salento non aveva più una rivista letteraria degna di questo nome, come era successo invece nella straordinaria stagione degli anni Cinquanta, durante i quali questa regione poteva vantare ben quattro riviste, delle quali almeno tre di sicuro livello nazionale: «L’ Albero» di Girolamo Comi, «L’esperienza poetica» di Bodini con la sua innovativa proposta di una terza via tra ermetismo e neorealismo, il supplemento letterario del «Critone», curato da Vittorio Pagano, di chiara impronta postermetica e, a un livello inferiore, di respiro regionale, «Il campo», di Francesco Lala, Giovanni Bernardini e Nicola Carducci, che si caratterizza invece per l’impostazione neorealista e meridionalista e il forte impegno civile dei suoi collaboratori.

            Macrì e Valli, dunque, quell’anno ridanno vita all’«Albero», e lo portano avanti fino al 1985 (anche se l’ultimo numero esce due anni dopo) per oltre un quindicennio dunque e per un numero complessivo di ben ventisei fascicoli, che aggiunti ai tredici della prima serie fanno trentanove in tutto. Proprio Macrì, in una sorta di editoriale pubblicato sul primo numero della nuova serie, chiarisce i loro intenti e spiega che a incitarli a proseguire non era stato un mandato esplicito di Girolamo Comi, ma  «la voce spirituale» del poeta, «che ascoltammo ― scrive ― esatta ed impavida per un trentennio di franco ed aperto sodalizio intorno a punti essenziali e inalienabili della teoria e della prassi letteraria»[7].  «Dura pertanto ― continua più avanti ― in un dialogo interminato il senso del nostro proseguire nel sottosuolo e nell’invisibile del poeta povero e ignoto, sia detto drasticamente e senza perifrasi»[8]. E oltre che a Comi lo studioso si richiamava  ai «suoi compagni defunti o superstiti; persuasi già all’origine dal testimonio di Rebora e Boine, Campana e Ungaretti, Onofri e Fallacara, succedendo in continuità il verbo di Montale, Quasimodo, Betocchi, fino ai coetanei»[9].

            Nel Preambolo non c’è, come succede spesso negli editoriali dei primi numeri delle riviste e dei periodici, la delineazione di un preciso programma, che anzi viene rifiutato categoricamente: «Programma, no; – sostiene  Macrì – la rivista continuerà a farsi da sé per libera prestazione di antichi e giovani amici senza progettazione, censure, vergogne»[10]. E, in effetti, questo ‘programma-non programma’ è perseguito fin dal primo numero e portato coerentemente avanti  fino alla fine, in quanto «L’Albero» si è sempre basato su una rete piuttosto estesa di rapporti di amicizia e solidarietà umana e artistica. A questo proposito, Valli ha ribadito in un recente intervento questo concetto, scrivendo che lui e Macrì ritenevano che «la rivista dovesse ‘farsi da sé’, costituisse cioè il coagulo di esperienze di letterati che continuavano a fare ‘gruppo’ per omogeneità di sentimenti, per amicizia, per libera scelta di aggregazione. Il che non significò rinuncia a una propria linea e a una propria identità culturale»[11]. Unico punto di riferimento era l’esempio e il magistero di Comi, sempre «vivo e presente nelle […] scelte redazionali»[12], di cui la rivista contribuisce a tenere desta la memoria anche attraverso la pubblicazione di alcuni scritti inediti.

Oreste Macrì, Donato Valli e Mario Marti

              Articolata in varie sezioni (Studi, Testi, Rassegne, Campo aperto, Recensioni e indicazioni), la rivista può contare su collaboratori prestigiosi, tra i più noti scrittori e studiosi in campo nazionale. Tra i primi basti citare M. Luzi, L. Sinisgalli, V. Sereni, A. Gatto, C. Betocchi, A. Parronchi, R. Bilenchi, P. Bigongiari, S. Solmi, G. Dessì, R. Brignetti, Maria Corti, cioè alcuni tra i maggiori poeti e narratori del Novecento. Tra i critici, ancora Bigongiari, Betocchi, Parronchi, presenti anche in questa veste, e poi C. Varese, S. Baldi, R. Jacobbi, E. Migliorini, R. Assunto, L. Terreni, S. Ramat, M. Machiedo, G. Chiarini, C. Cordié, A. e L. Dolfi e numerosi altri. Oltre che ai classici e agli autori moderni italiani, viene prestata attenzione alla letteratura straniera (spagnola, francese, inglese, neogreca, tedesca, croata) con studi e traduzioni affidati a specialisti autorevoli, quasi sempre docenti universitari.

            Sull’ «Albero» sono presenti ovviamenti anche i maggiori critici e scrittori salentini, di riconosciuto valore a livello nazionale. Tra i primi si ricordano M. Marti, M. Tondo, E. Esposito, A. Mangione, L. Panarese,  N. Carducci, oltre ai due curatori Macrì e Valli e ad alcuni più giovani, come G. Rizzo, G. Cillo, L. Galante e altri. Per quanto riguarda la letteratura creativa, figurano pochi nomi scelti tra quelli più rappresentativi che operavano in quegli anni: da V. Pagano al tarantino Michele Pierri da Giovanni Bernardini al pittore Lino Suppressa, di cui si pubblicano le prose “leccesi”, da Luciano De Rosa, l’antico sodale di Bodini, a Vittore Fiore, dai due dialettali Nicola De Donno e Pietro Gatti, che «L’Albero» contribuisce a scoprire e a valorizzare, al più giovane Ercole Ugo D’Andrea. Quasi in ogni numero è presente uno studio, corredato da alcune tavole, su un artista salentino, come L. P. Suppressa, G. Re, V. Ciardo, N. Della Notte, M. Delle Site, M. Massari, C. e F. Barbieri, ecc. E anche qui, come si vede, si tratta di un’ideale galleria della maggiore arte di Terra d’Otranto del secolo passato.

            Tra i collaboratori figura anche il maggiore scrittore salentino del secolo appena trascorso, Vittorio Bodini, che fece in tempo a inviare agli amici dell’«Albero» una lirica, Sulle Apuane, presente nel primo numero. Questo primo fascicolo risulta finito di stampare il 30 ottobre 1970 e poco meno di due mesi dopo, nel dicembre di quell’anno, Bodini, com’è noto, morì a Roma. Non a caso il fascicolo seguente si apre proprio con un commosso Saluto a Vittorio Bodini scritto da Macrì, che dimostra tutta la sua straordinaria capacità di sintetizzare in poche righe il senso di un lungo e complesso percorso letterario, messo giustamente sotto l’insegna del rapporto Salento-Spagna:

Ci basti la memoria delle tue iniziali liriche salentine: in quella turbata trasparenza di colori pietre inquietudini barocche e flamenche capimmo la peregrinazione orfica di García Lorca alle radici d’una gemella Andalusia astrale e sotterranea. Ti dobbiamo, ancora, l’angelo buono e quello cattivo del tuo Rafael Alberti ospite macerato di questa Roma belliana, l’amata invisibile di Salinas, il surreale vivo di Larrea, la lacrima tersa e liberata di don Luis de Góngora, il congegno onirico-esistenziale della Vida es sueño, propizio alla tua mente arguta di discreto gracianesco[13].

            S’è detto che né Macrì né Valli pubblicano articoli programmatici sull’«Albero», ma, sul numero che esce a distanza di dieci anni dalla ripresa, entrambi fanno il punto sul lavoro svolto fino ad allora ed espongono i loro propositi per l’avvenire. Il primo, in particolare, nell’articolo intitolato «L’Albero», consuntivo e futuro, traccia un quadro riassuntivo dei diciotto fascicoli apparsi fino ad allora («ci troviamo sul tavolo una pila di 18 poderosi tomi, stupiti noi stessi e increduli»[14]), illustrando la struttura interna della rivista e citando i numerosi collaboratori. Poi riafferma l’importanza del nesso Lecce-Firenze, che ― scrive ― «è una delle linee del più ampio tessuto culturale d’un Salento europeo, meramente casuale qualunque coincidenza con il regionalismo politico-amministrativo, sia detto senza ironia, se qualche coincidenza è effettivamente e proficuamente avvenuta»[15]. In terzo luogo ribadisce la loro «totale ripugnanza verso ludismi, sperimentalismi, gratuite alterazioni categoriali della poesia, metalinguaggi, trascritture del ‘desiderio’, inflazioni dell’oggetto testuale, semiologie quantitative e cibernetiche oltre i diritti e doveri del loro ambito scientifico»[16]. E in effetti «L’Albero», anche in questa seconda serie, si caratterizza in ogni fascicolo come una rivista di alta, composta e raffinata cultura letteraria, sempre lontana da ogni forma di sperimentalismo e dagli eccessi avanguardistici. I modelli ideali, in fondo, restano proprio le riviste fiorentine degli anni Trenta, come «Solaria» e «Letteratura». Alla fine Macrì conferma ancora una volta l’assenza di qualsiasi programma: «Sia bene inteso che l’iniziativa e responsabilità della rivista è esclusivamente nostra, di Valli e mia. Tutti gli altri sono donatori e ospiti. Nessuna comunità impegnata in un qualsiasi programma»[17].

            Ma qual è il contributo specifico offerto dal critico magliese-fiorentino all’«Albero»? Intanto bisogna dire che egli è presente in ogni fascicolo e in tutte le varie sezioni della rivista con un numero davvero elevato di interventi, i quali  coprono un ampio arco di interessi, tipici d’altra parte della personalità e dell’opera di Macrì. Qui ovviamente non posso dare conto in maniera dettagliata di tutta questa varietà e vastità di scritti. Mi limito perciò a elencare gli argomenti trattati in rapida sintesi. Anche qui ovviamente ci sono gli studi, spesso accompagnati da traduzioni, su poeti spagnoli del Novecento (due su Jorge Guillén), ma anche su classici italiani (Foscolo, il D’Annunzio del Poema paradisiaco), su poeti francesi (Paul Valéry) e italiani (ben tre saggi su Montale ― tra cui la memorabile analisi su L’angelo nero e il demonismo nella poesia montaliana, che poi venne pubblicata, insieme a Teoria dell’edizione critica, nel primo dei «Quaderni critici dell’Albero», dal titolo Due saggi ― e uno sul  foscolismo di Luzi). Ma non mancano nemmeno i contributi a volte decisivi sui maggiori rappresentanti della linea salentina della poesia del Novecento, di quel «Salento europeo», da lui inventato e imposto all’attenzione nazionale: V. Bodini, innanzitutto, dei disegni del quale offrì una funambolica interpretazione (la sua «poesia grafica»); i dialettali Pietro Gatti e Nicola G. De Donno, che insieme a Valli e Marti contribuisce a scoprire e a valorizzare; Michele Pierri, il poeta-medico che puntualmente andava a trovare a Taranto ogni volta che ritornava nella sua terra; e poi alcuni più giovani, come E. U. D’Andrea e Salvatore Toma.

            Ma la presenza di Macrì è assidua pure, come ho detto, nelle altre sezioni. Nelle Rassegne, ad esempio, pubblica, sempre con quella ampiezza di interessi e di conoscenze che lo caratterizza: Per una teoria dell’edizione critica (Segre editore della «Chanson de Roland»), Letteratura brasiliana della Stegagno Picchio; Sulla neoermetica «Storia della poesia italiana del Novecento» di S. Ramat; Sulla teoria dell’endecasillabo, ecc. Anche nelle Recensioni Macrì interviene spesso, occupandosi, ad esempio, dei Lirici greci di Perrotta, di regionalismo poetico, di Davico Bonino, di Giovanni Maria Bertini, di alcuni poeti salentini come Maria Siciliano Insalata, Pietro Gatti, ecc.

            Ma gli articoli di Macrì più, come dire, frizzanti e, per certi aspetti, divertenti, ma anche acuti, si trovano in Campo aperto che è la sezione dell’«Albero» dedicata al dibattito ma anche alla polemica. Già sul primo numero, ad esempio, c’è un ritrattino pungente e gustoso di Emilio Villa, definito un «avanguardista a vita». Altri interventi sono intitolati: Formalismo e critica letteraria, Sull’essere di Guillén, Confronto con Mao, Fernando de Herrera, Strutturalismo e storia, Poetica del frammentismo e genere del frammento, in occasione dell’uscita del volume di D. Valli, Vita e morte del frammento in Italia, il Parnaso pugliese di dell’Aquila, Considerazioni psicolinguistiche.

            Ebbene, per dare un’idea della vis polemica di Macrì, vorrei soffermarmi ora brevemente su due di questi scritti. Il primo è un articolo dal titolo Formalismo e critica letteraria, nel quale egli interviene nel dibattito sui nuovi metodi della critica letteraria, e in particolare sul formalismo e lo strutturalismo, che, com’è noto, si erano diffusi in Italia tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta. L’occasione è data dalla pubblicazione di alcuni volumi che rientravano in quei nuovi indirizzi critici e metodologici: Gli orecchini di Montale  e L’analisi letteraria in Italia di D’Arco Silvio Avalle, I segni e la critica di Cesare Segre e l’antologia a cura di Maria Corti e Segre, I metodi attuali della critica in Italia. In particolare Macrì prende in esame una breve poesia di Montale tratta da Le occasioni, A Liuba che parte, gareggiando quasi con Avalle per la minuziosa analisi di tipo metrico, retorico, fonico-semantico, sfidando i formalisti insomma sul loro stesso terreno. Ma, e qui sta la differenza, l’analisi non si esaurisce  sul piano formale, in quanto tutto viene riportato, per usare i termini di Macrì, alla «mente» o «sostanza» progettuale dell’autore. Così scrive infatti a un certo punto: 

Le interpretazioni formali di Avalle sono significative (ed è per questo che mi sono intrattenuto, non certo per rilevare errori) di una determinata concezione dell’oggetto artistico e della critica letteraria, comune al gruppo di Strumenti critici: l’esame formale avulso dalla sostanza intenzionale accennata, dicasi mente o memoria o ragno degli stoici (l’egemonico nel cuore e nel cervello) o «calotta del mio pensiero» (come dice lo stesso Montale in Piccolo testamento; «scatola del nostro cervello» nella Farfalla). Non che Avalle (ad es., nello studio sugli Orecchini) o i suoi colleghi non ricorrano al più o meno vasto contesto; alcuni, anzi, investono cosiddetti codici di grandi istituti letterari, ma l’attenzione alla pura forma formale non cambia; trattasi sempre di uno spazio circoscritto, interattivo in senso asostanziale[18].

 E ancora:

Il formalista, pertanto, crede di autonomizzare la forma del singolo componimento (ma anche di una serie, di un libro intero, di un’intera produzione, di un’età, una corrente, un istituto letterario, ecc.; l’atteggiamento e il risultato non cambiano) scissa dal suo generatore mentale che ricarica il punto e il continuo  della struttura, come se non esistesse (è l’allucinazione che ci dà la grande poesia)[19].

            Di un certo interesse anche l’intervento Sul Parnaso di Puglia di Michele Dell’Aquila, in occasione dell’uscita del volume Parnaso di Puglia nel ‘900 del critico barese, nel quale Macrì si sente per tanti aspetti direttamente coinvolto. In particolare, il punto che più lo tocca da vicino è ancora una volta la crisi dell’ermetismo e la ‘svolta’ degli anni Cinquanta, ad opera di Bodini e Scotellaro, ma anche di Gatto e Quasimodo, di cui parla Dell’Aquila nel suo libro. «Tutto bene, ― puntualizza Macrì ― se il rinnovamento s’intenda all’interno stesso dell’ermetismo meridionale, profondamente distinto da quello fiorentino o emiliano o veneto o romano o lombardo»[20]. Ma più ancora si sente toccato quando Dell’Aquila accenna a una «rottura» a proposito dell’«Esperienza poetica», «tra quanti ― come scriveva l’autore del libro ― persistevano nella fedeltà all’antico ermetismo […] e quanti ne denunciavano l’insufficienza e l’esigenza di rinnovamento (p. 220)»[21]. Questo ― sostiene Macrì e qui il tono diventa più vivace e polemico come se fosse ancora una ferita aperta ―

è diventato un trito luogo comune, ed è l’unico punto sul quale dissento dall’amico Dell’Aquila. Chi si rinnovò fu lui, Bodini, ancora dall’interno dell’ermetismo meridionale col transito dalla Luna dei Borboni a Dopo la luna, per intensificazione e ampliamento dei miti ed archetipi tra Salento, Spagna e memoria indelebile di Firenze, non già in senso naturalistico e pseudorealistico; laddove la rivista regredì e si bloccò nella montaliana «poetica dell’oggetto», della peggiore maniera montaliana ed eliotiana; quale nuovo poeta, a garanzia di una nuova poetica, fu scoperto? Nessuno. Di nuovo e valido restò solo Bodini, in definitiva, fuori dalla sua, peraltro, divertente rivista nella parte da lui vergata[22].

            Al di là dei giudizi, che in questo caso forse sono un po’ ingenerosi nei confronti dell’«Esperienza poetica», anche qui emerge il temperamento del critico autenticamente militante che partecipa con profonda passione intellettuale alle vicende letterarie contemporanee, prendendo ancora una volta nettamente posizione come aveva fatto quasi trent’anni prima, al tempo dell’aspra polemica con Bodini, allorché tra i due, proprio a causa di queste divergenze di vedute sull’ermetismo, vi fu un periodo di «inimicizia fraterna». E anche questo, mi sembra, è un  merito di non poco conto che bisogna riconoscere a Oreste Macrì.

[In A.L. Giannone, Modernità del Salento. Scrittori, critici, artisti del Novecento e oltre, Galatina, Congedo, 2009]


[1] Su questa fase della rivista si veda ora L’Albero. Rivista dell’Accademia Salentina. Antologia (1949-1954),  a cura di G. Pisanò con una premessa di M. Corti, Milano, Bompiani, 1999.

[2] Su questo rapporto cfr. D. Valli, Comi e Ciardo, in Aria di casa. Il Salento dal mito all’arte, Galatina, Congedo, 1994, pp.. 225-233.

[3]Id., Cento anni di vita letteraria nel Salento (1860 – 1960), Lecce, Milella, 1985, p. 86.

[4] V. Bodini, Alcune lettere di Ezra Pound, in «Studi americani», n. 4, 1958, p. 421.

[5] D. Valli, Cento anni…, cit., p. 110.

[6] Per un approfondimento di questo periodo ci sia permesso di rinviare a A. L. Giannone, L’attività letteraria nel Salento (1970 – 2005), in La saggezza della letteratura, a cura di E. Catalano, Bari, Giuseppe Laterza, 2005, pp. 109-125.

[7] O. Macrì, Preambolo alla nuova serie, in “L’Albero”, fasc. XIV, n. 45, 1970 (n. s.), p. 3.

[8] Ivi, p. 4.

[9]  Ivi, p. 3.

[10] Ibid.

[11] D. Valli, L’Albero. Il cuore dell’Accademia salentina, in “Almanacco Salentino 2004”,  a. XV, gennaio 2004, p. 166.

[12] Ibid.

[13] O. Macrì, Saluto a Vittorio Bodini, in «L’Albero», fasc. XV, n. 46, 1971 (n. s.), p.4.

[14] Id., «L’Albero», consuntivo e futuro, in «L’Albero», fasc. XXXII, n. 65, giugno 1981, p. 5.

[15] Ivi, p. 6.

[16] Ibid.

[17] Ivi, p. 9.

[18] Id., Formalismo e critica letteraria (con un esercizio su Montale), in «L’Albero», fasc. XV, n. 46, 1971 (n. s.), p.147.

[19] Ivi, p. 154.

[20] Id., Sul Parnaso pugliese di Michele Dell’Aquila, in «L’Albero», fasc. XXXVII, n. 70, luglio-settembre 1983, p. 186.

[21] Ibid.

[22] Ibid.

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