La democrazia e il suo ospite “inatteso”: il populismo

di Francesco Fistetti

Come è accaduto per liberalismo, ai giorni nostri anche populismo è diventato una parola-feticcio, un concetto così abusato nella comunicazione politica quotidiana che il Cambridge Dictionary nel 2017 lo ho consacrato “termine dell’anno”. Fin da quando ha fatto la sua comparsa nella letteratura specializzata, esso nasce segnato dalla figura retorica del “complesso di Cenerentola”, come ebbe ad affermare il filosofo Isaiah Berlin in un simposio del 1969 presso la London School of Economics dedicato all’argomento. Berlin intendeva dire che nessun fenomeno storico-politico concreto sarebbe mai riuscito metaforicamente a calzare la scarpa confezionata con il concetto di populismo, e ciò in ragione della molteplicità e della diversità di esperienze a cui esso allude. In quello stesso anno due studiosi, Ghita Ionescu e Ernest Gellner, in un volume intitolato Populism, che raccoglieva gli atti di quel convegno pionieristico, scrivevano, riecheggiando il Manifesto di Marx e Engels, che “uno spettro si aggira per il mondo: il populismo”. I due autori non avrebbero mai immaginato la fortuna che sarebbe toccata a quel concetto, che nel periodo in cui pubblicavano il loro libro  veniva riferito più o meno a tre fenomeni storici: 1) i narodniki russi (1840-1880), un movimento di studenti e intellettuali, tra i quali lo scrittore A. I. Herzen, che cercavano di “andare al popolo” al fine di sollevarlo contro l’autocrazia zarista in vista di una democratizzazione sociale e politica; 2) il People’s Party degli Stati Uniti (1877-1896), un movimento di contadini impoveriti dall’evoluzione monopolistica e finanziaria del capitalismo americano che rivendicavano diritti sociali e politici (compreso il voto alle donne) e una politica economico-sociale d’ispirazione socialista; 3) il populismo classico dell’America latina degli anni 1930/1960, che ha un carattere socializzante perché legato ai movimenti operai nazionali del subcontinente e ai leader politici diventati presidenti dei rispettivi Paesi: il peronismo in Argentina (da J. D. Perón), il gétulismo in Brasile (da Getúlio Vargas) e il cardénismo in Messico (L. Cárdenas del Río). Si tratta di esperienze politiche che, come ha spiegato G. Germani, coniugano una modernizzazione economica dall’alto e un sistema abbastanza esteso di protezione sociale verso le classi popolari, ma che si reggono sul carisma del capo e su un esecutivo onnipotente. C’è qui una concezione retorica e nazionalistica di popolo, identificato soprattutto con gli strati più poveri.

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