Perché sono necessari maggiori investimenti pubblici

  1. Ridurrebbero la domanda interna, per effetto della riduzione della propensione al consumo. Infatti, i lavoratori con contratti precari reagirebbero all’ulteriore precarizzazione aumentando i risparmi precauzionali, in vista del non rinnovo del contratto;
  2. Disincentiverebbero le innovazioni, dal momento che le imprese troverebbero conveniente competere riducendo i costi di produzione mediante moderazione salariale.

Infine, ciò che Confindustria non vede è l’effetto immediato che maggiore flessibilità del lavoro comporta sulla compressione dei consumi e della domanda interna.

In uno scenario di questo tipo, la crescita economica italiana sarebbe demandata alla sola componente delle esportazioni nette, secondo uno schema che viene definito neo-mercantilista. Il neo-mercantilismo è un gioco a somma zero, nel quale si pretende di crescere esportando più di quanto non esportino i propri concorrenti. Di norma, come peraltro sta accadendo, le misure neo-mercantilistiche di traducono in guerre commerciali, mediante l’imposizione di dazi e tariffe che ne vanificano che gli obiettivi e che rendono tutti i partecipanti al gioco perdenti. L’Italia ha da perdere in questo meccanismo anche perché è un Paese late comer, ovvero arrivato più tardi degli altri alla piena maturità industriale.   

L’economia italiana ha per contro necessità di maggiori investimenti in settori strategici e, in particolare, di maggiori investimenti pubblici. Essi servono per vari obiettivi di utilità sociale: la messa in sicurezza del territorio, la ricerca scientifica, l’ammodernamento della pubblica amministrazione, l’ammodernamento del sistema sanitario. Il fatto che si desidera siano pubblici deriva da una semplice constatazione di fatto: in Italia il settore privato spontaneamente non investe in quei settori. Vi è poi un effetto di complementarietà stando al quale maggiori investimenti pubblici implicano maggiori investimenti privati. Si pensi, a titolo esemplificativo, all’effetto espansivo su questi ultimi che può generarsi a seguito dell’efficientamento della pubblica amministrazione, con la conseguente riduzione dei tempi per la consegna di documenti e pratiche utili per la realizzazione di un investimento.   

Così come non convince la posizione di Bonomi e di Confindustria non convince neppure fino in fondo l’operato del Governo su questi temi: la politica dei bonus è una politica di corto respiro dalla quale ragionevolmente non ci si può attendere una ripresa della crescita di lungo periodo dell’economia italiana. Sarebbe stato – e sarebbe – più opportuno convogliare le risorse monetarie disponibili, peraltro in relativa abbondanza dati gli scostamenti di bilancio, per avviare una nuova programmazione economica, che metta lo Stato al centro dei processi di innovazione.

Le risorse disponibili consentono, se ben calibrate, di tenere insieme misure emergenziali (delle quali ovviamente c’è bisogno) con una visione prospettica, della quale c’è altrettanto bisogno per non ricadere nella logica della pura emergenza.

                                                [“Nuovo Quotidiano di Puglia” dell’8 agosto 2020]

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