Sisifo o della resistenza alla pietra

di Adele Errico


Franz Von Stuck, Sisifo (1920)

I palmi delle mani aderiscono alla pietra, le braccia spingono mentre una spalla porta soccorso. Il collo si piega e una guancia si appiccica al masso, impastata di terra e sudore. Lo zigomo preme contro la pietra e quasi si spacca sotto il peso dell’odiato macigno. I denti digrignati stridono di sforzo, il piede è curvato come se le gambe dovessero saettare improvvisamente ma è, invece, fermo e assume quella posizione solo per rincalzare la massa e distribuire il peso equamente su tutto il corpo. L’anatomia di Sisifo che spinge il sasso verso la cima del monte è l’immagine di una fatica bestiale che tende al nulla: la pietra il cui peso è avvertito da Sisifo in ogni millimetro della sua carne, il masso che, ruvido, mette in moto ogni muscolo del suo corpo esausto, raggiunge finalmente la vetta, per poi rotolare pigro giù, ai piedi della montagna.

Nel saggio intitolato Il mito di Sisifo, Albert Camus coglie lo sguardo di Sisifo proprio nell’instante in cui la pietra scivola verso il basso: egli è sulla cima, ora da solo, senza la pietra, nemica e compagna, che rotola determinando l’epilogo dello sforzo estremo, “la cui misura è data dallo spazio senza cielo e dal tempo senza profondità”. Sisifo la osserva vanificare, in pochi istanti, l’immane fatica, già consapevole che sarà suo compito riportarla alla sommità della montagna. La scrittura di Camus immortala l’espressione di Sisifo proprio nel momento in cui si fa mescolanza di sconforto e consapevolezza, sentimenti disegnati nei solchi delle rughe che tanto profonde rimarranno per il resto dell’eternità. Perché è l’eternità che provoca in Sisifo lo stringersi del cuore (se ancora di cuore si può parlare, visto che è di un’anima dannata che si tratta, strappata alla dolce vita mortale); o meglio la consapevolezza dell’eternità: Sisifo sa che non conoscerà la fine di quel tormento e la cognizione del suo destino gli sovviene, sempre, nell’ora del “respiro”, scandita da ogni passo calpestato nel ripercorrere la discesa ripetutamente, una volta dopo l’altra.

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