La Dolce Vita: contro la celebrazione

Al di là delle retoriche commemorative – una pratica, la commemorazione culturale, che in Italia, inesauribile “inventrice” di apparati rituali, assorbe un’enorme quantità di energie e risorse – stenta magari ad affiorare la semplice, ed anche un po’ brutale domanda: ma a “noi” qui, abitanti di questo travagliato e grandioso presente, cosa ha da dire – ancora – un’opera di più di mezzo secolo fa, che per di più dura quasi tre ore? Per molti giovani nati nel terzo millennio dell’era ‘cristiana’ è come far riferimento ad epoche remotissime, se non proprio al nulla di un passato irreversibilmente cancellato. Ricordo ancora il mio stupore quando, ad una giovane ed intelligente ventenne, accennai in una conversazione sulle ‘star’ del cinema, a Marlon Brando, il mio stupore perché lei non ne aveva mai sentito neanche il nome. Ma la stessa considerazione può valere anche per meno giovani ‘fruitori’, assediati dall’ansia di non essere mai abbastanza up to date.

E non so a chi o cosa giovi continuare ad ignorare questo “dato di fatto”: che su ogni piano ed in ogni ambito s’è interrotta la trasmissione intergenerazionale del ‘sapere’, e persino del piacere (del testo, del film, del sound…) – fatte salve le sempre lodevoli eccezioni, che, per contrasto, però mostrano con ancora più acutezza il vuoto di trasmissione. E per questo anche è diventato più urgente, anche se noi abitualmente non ci badiamo, ed anche se c’è chi sostiene che un “in sé” in sé, nemmeno esiste, domandarci qual è la realtà dell’opera in sé, per poter sapere se ci parla ancora, e cosa ci dice.

Ma il film, che ‘storia’ racconta?

Nessun sunto o descrizione può – mai – sostituire la visione dell’opera – e la necessità che vale tanto per un libro, una sinfonia, una ‘pittura’, una scultura di ri-leggerle/guardarle più e più volte – è tale anche per un film. Poiché anche questo è abbastanza incredibile, a dirsi e verificare, dopo un secolo di produzioni cinematografiche: per una grandissima parte del pubblico, l’opera filmica è ancora e principalmente un prodotto d’intrattenimento, di svago, [per carità! niente moralismi, è anche questo, ma non solo questo] nella quale ciò che conta e fa la differenza sono ‘i divi e le dive’, e magari la colonna sonora, ed assai meno, o affatto, la mano la mente l’occhio del regista (e la maestria della troupe); e a questa semplificazione, fa da contraltare la riduzione, sul piano culturale e scientifico generale, delle opere filmiche, nonostante lo spolvero delle passerelle festivaliere ed il proliferare di micro-specialismi teorici, quali prodotti di serie B. Un segno immediato e persino drastico di questo stato di cose è dato dall’impostazione de LA LETTURA, l’inserto culturale della più prestigiosa testata “liberal” italiana, il Corriere della Sera, in cui sono passate in rassegna tutte le forme di produzione letteraria, filosofica, artistica, scientifica, tranne, appunto, il cinema.

Comunque, per tornare al nostro tema, a detta di Nordio: “Il soggetto [cfr. de La Dolce Vita] non era né unitario, né coerente, cucendo vari episodi collegati solo dalla presenza di Mastroianni, cronista disincantato a caccia di eventi sensazionali”.

Si potrebbe rovesciare agevolmente questa affermazione, con l’osservare che il film, invece, è la “storia di un’anima”, quella appunto del protagonista Marcello (Rubini) incarnato sotto l’occhio della cinepresa da Marcello Mastroianni, e che quello che accade, mostrato nei momenti salienti e pertanto determinanti (e come potrebbe essere altrimenti?), è la trasformazione di quest’anima.

Con una finzione tipicamente narrativa (non propria solo del cinema) la storia si delinea nell’oscillazione tra la “vita” come vista da Marcello/Marcello, il cronista/giornalista della mondanità cosmopolita capitolina, e la “vista” sulla vita del doppio Marcello, dall’esterno, come può vederla solo il regista/narratore. Di volta in volta la macchina da presa: si allinea allo sguardo di Marcello seguendo l’azione/riprende Marcello in azione nell’inquadratura.

Come quella di ognuno di noi, potenzialmente – ma non nel limitato senso che gli riconosce, come vedremo, Nordio – la vita di Marcello/Marcello è contradditoria e si alimenta di contraddizioni, al tempo stesso trascinata dal gorgo semi-casuale degli avvenimenti, dei quali mira a catturare gli aspetti scandalistico-sensazionali, e molto determinata nella caccia di un ‘senso’, o di un pieno appagamento, nell’incontro o nell’oblio; inesorabilmente attratta dalla bellezza e dall’eterno femminino, oscillante sempre tra la mera concupiscenza carnale e la sublimazione della carne in un’unificazione ‘spirituale’ – col basso continuo della relazione “stabile” e convenzionale ma solida, anche se non consacrata dal matrimonio, con la convivente Emma.

Insomma, stralci della vita di un qualunque ‘avventuriero esistenziale e sociale’, romanzati e cinematografati per tutto il Novecento, dalle sublimi (anche nella ‘perversione’) cime austriache toccate da Ulrich nell’incompiuto romanzo L’uomo senza Qualità di Robert Musil, al successo delle lotte e disperazioni distopiche della popolarissima serie cinematografica che ha come protagonista l’infallibile “macchina per uccidere” Jason Bourne.

Solo che la scelta dell’ambientazione socio-culturale de La Dolce Vita, non soltanto non è bozzettistica, ma non è affatto ‘neutrale’ e quindi il dramma della “storia dell’anima” di Marcello/Marcello non è schematicamente traducibile e trasferibile nell’atemporale universalità della ‘natura umana’, come sembrerebbe pretendere Nordio – ed in parte anche Pasolini, che a quello ‘sfondo’ socio-culturale dedica osservazioni assai più appropriate, più partecipi, di quelle del recensore nostro contemporaneo. Scrive, con un tocco d’iperbole, Pasolini, in chiusa del suo bellissimo, e per più aspetti ancora importantissimo, saggio-recensione:

“…ciò che conta in Fellini è ciò che di eterno e assoluto permane nella sua ideologia genericamente cattolica: l’ottimismo, amoroso e simpatetico. Guardate la Roma che egli descrive: è difficile immaginare un mondo più perfettamente arido. Un’aridità che toglie vita, che angoscia. Vediamo passare davanti ai nostri occhi un fiume di personaggi umilianti, in un umiliante spaccato della capitale: tutti cinici, tutti meschini, tutti egoisti, tutti viziati, tutti presuntuosi, tutti vigliacchi, tutti servili, tutti impauriti, tutti sciocchi, tutti miserabili, tutti qualunquisti: è la mostra della piccola borghesia italiana in un suo ambiente che ne esalta gli aspetti, che la brucia in una tetra luce evidenziante. Ad essa si mescolano, dall’alto e dal basso, dei mostri, irrelati, irriferibili: dall’alto i nobili, dal basso i sottoproletari, e vi portano una ventata che a suo modo è pura, è vitale. Ma come essere riusciti a vedere purezza e vitalismo anche nella massa piccolo-borghese che brulica in questa Roma arrivista, scandalistica, cinematografara, superstiziosa e fascista, mi sembra una cosa incredibile. Eppure non c’è nessuno di questi personaggi che non risulti puro e vitale, presentato sempre in un suo momento di energia quasi sacra. Osservate: non c’è un personaggio triste, che muova a compassione: a tutti va tutto bene, anche quando va malissimo: vitale è ognuno, nell’arrangiarsi a vivere, pur col suo carico di morte e di incoscienza. Non ho mai visto un film in cui tutti i personaggi siano così pieni di felicità di essere: anche le cose dolorose, le tragedie, si configurano come fenomeni carichi di vitalità, come spettacoli. Bisogna davvero possedere una miniera inesauribile d’amore per arrivare a questo: magari anche d’amore sacrilego…”.

Questa sorta d’inno amoroso e ‘sacro’ alla vitalità in cinemi, sotto l’occhio e la penna di Nordio diventa tutt’altro: “…il regista non aveva intenti politici né tantomeno pedagogici, e nella sua esaltazione onirica mirava solo a baloccarsi delle stranezze della nostra imperfetta natura (c. m.). Fellini descrisse quella parte di società viziosa che appassiva nella stravaganza e nella noia”. Come ci si poteva aspettare sin dalle prime battute della “recensione-celebrazione-affossamento” nordiana ecco che troneggia la figura del Maestro, gran burattinaio che si balocca coi pupazzi viziosi nel suo teatrino bozzettistico-naturalistico capitolino, ormai pure demodé, sciorinando meschine ‘stranezze’ e mediocri ‘manie’, umane, troppo umane.

E la liquidazione è pronta per essere ammannita ai voraci lettori: “La Dolce Vita è troppo limitato per essere attuale, e oggi a stento arriviamo alla fine di un film che dura tre ore e a tratti è noioso e ripetitivo”. Con buona pace di Pasolini, di Cannes e del “capolavoro” celebrato” e riseppellito, si spera forse per sempre: “le sue ripugnanti caricature sembrano un sottoprodotto di Bruegel e di James Ensor, senza il tratto artistico del primo e le lugubri allegorie del secondo. Anche i vizi dei protagonisti sono fondamentalmente banali e mediocri, senza le pulsioni blasfeme di Baudelaire o l’erotismo esasperato di Georges Bataille”. Qui abbiamo l’immancabile – in ogni recensione tanto sepolcrale quanto esaltatrice che si rispetti – processione citazionale in cui si mettono sullo stesso piano un maestro pittore fiammingo del 1500 ed uno belga dell’Otto/Novecento; il più grande poeta francese dell’Ottocento (ed uno dei più grandi d’Europa), per finire con uno dei più radicali teorici del Novecento francese (peraltro noto solo a ristrettissime cerchie di cultori e specialisti), il cui tratto unificante dovrebbe essere la ‘satira’ e/o la ‘trasgressione’ delle convenzioni sociali.

Al confronto dei ‘grandi’ Europei, il Maestro Fellini viene seccamente ridimensionato a Mastro Puparo di provincia, of course – mentre la recensione sarebbe risultata di segno opposto, una recensione-resurrezione, se in Fellini avessimo ritrovato e tutti insieme i tratti dei precedenti ‘maestri’. I tabernacoli citazionali offrono l’indubbio vantaggio di poterne estrarre ‘reliquie’ di ‘saggezza’ buone per tutti i cieli e le stagioni – il solo problema è che dello “stile” di Fellini, di quello che caratterizza l’opera filmica di Fellini in quanto ‘creatore’, invece non ci dicono un bel niente: nulla del taglio delle inquadrature, nulla delle scelte ‘espressive’, nulla della poetica sottesa ai movimenti di macchina o alle scelte scenografiche – tutti elementi essenziali dell’opera filmica sui quali, sia pure per cenni, si sofferma Pasolini: incluso il trattamento ‘figurale’ degli attori e delle attrici.

Coerentemente alle premesse, il verdetto finale nordiano è impietoso:

“Se dunque [cfr. notare il dunque ‘logicamente’ risolutivo] l’opera ha ancora una sua certa universalità, è perché tutti noi ci riconosciamo in alcuni di quei peccatucci [cfr. ne ha fatto prima l’elenco: omossessuali untuosi e travestiti, aristocratiche decrepite e pedofile, arrivisti ruffiani e ambigui, e tutta una serie di caricature circensi…nei quali e nelle quali dubito fortemente si riconosca Nordio, ma sono certo non si riconosca “ognuno di noi” e tanto meno ogni omosessuale], che sono, appunto modesti ed emendabili [cfr. la pedofilia?]. Ma l’ossessionante insistenza con la quale Fellini ritorna sull’aspetto caricaturale dei burattini di un teatro decrepito, si rivela alla fine inconsistente e stucchevole”.

La descrizione nordiana non potrebbe risultare più stridente, a contatto con quella pasoliniana. Beninteso, non si deve per forza concordare con la “visione/concezione” di un autore, e dei suoi critici ‘favorevoli’ – quale forgiata nell’opera – ma per criticarla in parte o in tutto, e dunque rifiutarla, sarebbe forse utile prima ‘vederla’ e dunque ‘comprenderla’, cosa che nello specifico caso sembrerebbe Nordio non abbia avuto intenzione di fare – non potendo certo imputargli l’incapacità di farlo – e ci saranno stati dei buoni motivi per questo, ma qui non ci riguardano.

Ancora non abbiamo detto, però, quale sia la rilevanza dell’ambiente storico-sociale nell’opera, né quale sia per noi, qui ed ora, la valenza dell’opera filmica in sé.

Torniamo a Marcello/Marcello. A ben guardare la sua “funzione” nel film è almeno doppia – come già doppio è lo sguardo del regista-narratore, poiché egli è – allo stesso tempo – partecipe degli “eventi” che si succedono nella Capitale del cinema mondiale (all’epoca quella italiana era la seconda industria cinematografica per volumi produttivi dopo Hollywood, e almeno in Occidente, senz’altro la prima per prestigio culturale) e loro “descrittore/narratore”. Noi quindi vediamo il mondo come lo vede Marcello, attraverso gli occhi di Marcello, in una “doppia” modalità: quella del Marcello “partecipe”, quella del Marcello “descrittore per altri”. Cosa differenzia e cosa hanno in comune questi due mondi-modi d’essere? E soprattutto qual è il momento del mondo che Marcello vive e descrive?

Sotto un certo riguardo la “storia dell’anima” di Marcello è molto semplice, forse potrebbe apparire addirittura “semplificata”: è un capace, ma anche semi-insignificante, lavoratore della comunicazione mediatica; scrive cronache di eventi mondani presenziati da stelle del cinema o da personaggi del jet-set, ed i suoi occhi sono potenziati e resi invadenti, e del tutto impudichi, dagli onnipresenti “paparazzi”, più molesti, con gli scatti incessanti delle loro macchine fotografiche, di un nido di vespe aizzate: a volte assiste solo, a volte organizza anche. Ma Marcello non è soltanto questo. Coltiva, all’inizio, l’illusione di incontrare qualcosa di autentico ed “assoluto”, pur lasciandosi portare dalla corrente degli eventi di cui non è che un tassello ‘opportunista’, se non parassitario; nelle ‘pause’ dei vortici mondani cerca spiragli di “trascendenza”, magari con aspettative ridicole, nella esuberante Ekberg, un inno alla somma ed al sommo della vitalità (non del solo sesso, mai del solo sesso); in Maddalena, la ricca “figlia” alto-borghese annoiata, che si autodefinisce [pardon] “puttana” e si dà a Marcello nel letto, affittato per una notte, di una passeggiatrice di borgata che abita in un seminterrato semi allagato; in una giovanissima cameriera di una trattoria in riva la mare, dove si è ritirato per scrivere “seriamente”, scorge in un attimo di inattesa sublimazione, sembianze angeliche…Marcello, lo scribacchino mondano, aspira, a diventare scrittore “autentico”, e coltiva un rapporto a distanza, ma rispettoso e confidente, con un grande intellettuale ‘laico’ – figura, anche luciferina, della conoscenza, che nel film ha il “nome” del grande studioso tedesco fondatore, tra altro, dell’Antroposofia, Steiner [cfr. Rudolf, quello storico, le cui ricerche sono alla base, tra altro, dell’agricoltura biodinamica e delle scuole Waldorf]. Attraverso Steiner, Marcello si avvicina – fortemente attratto e turbato, senza però una salda determinazione, alle sfere dell’alta cultura: la musica per organo di Bach, le visioni antropologico-sessuali dell’Oriente, la poesia come inno ermafroditico alla natura [archetipicamente l’ermafrodito è il simbolo della compiuta perfezione umana]; la “musica” dei rumori naturali, la contemplazione dell’innocenza dei fanciullini [i due figli di Steiner], ed anche insieme una certa malinconia [ombra che sempre accompagna il “genio”, come già sapeva Aristotele e incideva Dürer] di fondo, che rampolla come disincanto ed autoironia. Tutte ‘topiche’ dell’alta cultura metropolitana e cosmopolita, che non hanno smesso, nell’ultimo mezzo secolo, di riversarsi, magari attraverso i canali della contestazione del “sistema”, nella cultura di massa alimentando mode e commerci; se ne potrebbe forse trarre un catalogo ragionato, o un manuale per giovani apprendisti… ‘cultuali’.

È Steiner a proporre a Marcello di metterlo in contatto con un editore ‘serio’, in modo che Marcello metta alla prova il suo indubbio talento, a fini più alti, che non i pur buoni articoli per rotocalchi.

Una delle tante maestrie di Fellini, è che nessuno di questi ‘episodi’ della storia dell’anima marcelliana è didascalico, o dichiarato – e ad una prima e forse anche seconda visione del film potrebbe non diventare percepibile, immerso com’è nel “bizzarro”, e apparentemente slegato andamento degli avvenimenti, apparentemente ripetitivi. Ma ogni ripetizione è una variazione, peraltro nettamente scandita – ancora una volta senza alcuna segnaletica – da un’invenzione, forse non nuova già al tempo di Fellini, ma da questi “utilizzata” in modo magistrale e che verrà poi replicata in innumerabili composizioni filmiche. Motivo per il quale può sembrarci persino scontata, ma così non era sessant’anni fa. Ogni stacco narrativo è scandito dall’irrompere di un differente “genere musicale” – dai più convenzionali a quelli che di lì a poco domineranno per decenni, e sino ad oggi, il mercato musicale mondiale: la “musica classica”; le “musiche esotico-etniche”; il Jazz, il Rock ‘n Roll/Rock [incarnato nel film, come annota anche Nordio, dal diciottenne urlatore e ‘scuotitore’ Adriano Celentano], il genere “musica da cabaret”; la canzonetta italiana.

Queste ‘tappe’ dell’itinerarium animae è rafforzato e amplificato da un altro elemento d’importanza antropologica, sociale e rituale pari a quello della musica, la danza: ed in realtà è nella danza che la prorompente vitalità della Ekberg si manifesta in tutta la sua travolgente intensità, e non nella scenetta del bagnetto nella fontana di Trevi, diventata l’immaginetta planetaria del film. Ma le danze, la massima interazione tra i corpi umani e tra questi e lo ‘spazio’ (incluso l’alleggerimento della più invisibile e per noi inaggirabile ‘legge di natura’, la legge di gravità) scandiscono tutto l’attraversamento dei gironi del cinismo capitolino tentato dal Marcello–novello-Dante: l’itinerario dell’anima attraverso le anime è anche sempre itinerario del corpo attraverso i corpi.

Nella tipica irresolutezza esistenziale ed esperienziale che marca la nostra condizione di ‘moderni’, ‘abbandonati dal Dio’, per cui alla fine sembra che tutto possa co-esistere con tutto, e, per così dire, niente coniugarsi con niente, Marcello non riesce a fare a meno, nonostante i tormenti, di un rapporto “autentico” o almeno “duraturo”, anche se votato alla “mediocrità”, con la donna – Emma, gelosa e possessiva più di una madre, e che fa la sua prima apparizione nel film in un tentativo di suicidio – con la quale convive e che afferma, verso la fine del film, di amarlo sino al punto che darebbe per lui la sua stessa vita…….Anche la ricorrenza di Emma, è funzionale alla storia della trasformazione dell’anima, e le sue apparizioni seguono un crescendo di contrasti, teneri e laceranti, tra loro.

Quello di Marcello sembra quindi essere il dramma – molto attuale – dell’irresolutezza: vuole e disvuole, cerca ma quando trova non tenta, per quanto sia continuamente tentato – né la Venere Ekberg, né la perduta Maddalena, né la pittrice d’aristocratici, non la sua aspirante ‘sposa eterna’, non l’incanto dell’angelica sembianza giovanile, tralasciando le avventurette piccanti ed effimere che s’indovinano dalle frecciatine rivoltegli da altre donne, avranno un qualche esito “costruttivo” – cosa, allora, imprimerà la svolta decisiva alla vita di questo contemporaneo Dante a rovescio?

L’atto “medeico” del grande intellettuale Steiner.

Non per vendetta dell’infedeltà di un qualche Giasone al femminile, ma come Medea, Steiner uccide nel sonno i suoi figli, il tenerissimo fanciullino e la sorella più grandicella, e si uccide egli stesso, all’apparenza senza motivi, e senz’altro senza pretesti immediati.

Marcello, avvertito forse dai paparazzi, “irrompe” tra i primi, trafelato, sulla scena della strage e ne rimane sconvolto [intanto mi domando se anche l’infanticidio rientri per Nordio tra i peccatucci modesti ed emendabili…una domanda ovviamente retorica, ma anche sul padroneggiare le retoriche dell’argomentazione…] e come annichilito, mentre i paparazzi-vespe impazzano intorno alla ancora ignara neo-vedova, cui Lui ed un poliziotto sono andati incontro, mentre Lei rientra a casa.

Non sono un “felliniano”, né uno specialista in Fellini, e posso presumere che quest’osservazione sia stata fatta e discussa più volte, tuttavia mi pare qui “utile” osservare o ricordare come l’atto ‘medeico’ di Steiner – che Italo Calvino aveva duramente criticato come meramente ‘ideologico’, e quindi arbitrario – abbia la sua probabile ispirazione e plausibile motivazione in una delle Operette Morali di Giacomo Leopardi, La Scommessa di Prometeo. Nella quale, la scommessa è se si trovino o no “manifesti argomenti che l’uomo sia la più perfetta creatura dell’Universo”, in tutti i cinque luoghi abitati della terra, visitati dagli scommettitori, lo stesso Prometeo, e il dio della maldicenza, Momo. Mentre i due stanno disputando della perfezione ‘naturale’ e della perfettibilità del genere umano nella civiltà, e secondo civiltà, atterrano nel terzo dei luoghi, nel cuore stesso delle nazioni civili:

“…in questo medesimo punto si trovarono sopra alla città di Londra: dove scesi, e veduto gran moltitudine di gente concorrere alla porta di una casa privata, messisi tra la folla, entrarono nella casa; e trovarono sopra un letto un uomo disteso supino, che avea nella ritta una pistola; ferito nel petto, e morto; e accanto a lui giacere due fanciullini, medesimamente morti. Erano nella stanza parecchie persone della casa, e alcuni giudici, i quali le interrogavano, mentre che un officiale scriveva.

Prometeo. Chi sono questi sciagurati?

Famiglio. Il mio padrone e i figliuoli.

Prometeo. Chi gli ha uccisi?

Famiglio. Il padrone tutti e tre.

Prometeo. Tu vuoi dire i figliuoli e se stesso?

Famiglio. Appunto.

Prometeo. Oh che è mai cotesto! Qualche grandissima sventura gli doveva essere accaduta.

Famiglio. Nessuna, che io sappia.

Prometeo. Ma forse era povero, o disprezzato da tutti, o sfortunato in amore, o in corte?

Famiglio. Anzi ricchissimo, e credo che tutti lo stimassero; di amore non se ne curava, e in corte aveva molto favore.

Prometeo. Dunque come è caduto in questa disperazione?

Famiglio. Per tedio della vita, secondo che ha lasciato scritto”.

Salvo il fatto che i tre corpi, nell’opera filmica, non sono nella stessa stanza, e che l’appartamento di Steiner brulica solo di poliziotti e non di curiosi, ed è il poliziotto che cerca di capire i moventi, interrogando lo sconcertato Marcello, le ‘scene’ sono per così dire sovrapponibili.

E la motivazione ‘misteriosa’ nel caso dell’atto di Steiner potrebbe affiorare dalla comparazione con la “soluzione” leopardiana: il sommo della “civiltà” – e della cultura – può finire col coincidere con il sommo disinganno e con la distruzione del vivente: della sua riproduzione e della sua ‘innocenza’. Tesi di Leopardi che si presta ad ampi approfondimenti ed approfondite indagini, e non sappiamo sino a qual punto condivisa da Fellini, il quale sembra, però, almeno averla voluta riecheggiare.

Ma nella ‘logica’ dell’opera filmica l’atto di Steiner ha conseguenze “catastrofiche” per l’anima dell’irresoluto giunco pensante protagonista: Marcello ha perduto il suo, sia pur discreto e schivo, ‘Virgilio’, la sua guida verso la ‘trascendenza’, attraverso e fuori dagli infernali gironi mondani romani.

Cosa accadrà ora della sua “anima”? Siamo al passaggio finale, alla trasformazione irreversibile: neanche questo mutamento – che ‘rivela’ retroattivamente la direzione dell’apparentemente discontinua, e solo apparentemente monotona successione di episodi, irrelati soltanto apparentemente – è stato rilevato dal Nordio: l’ultimo passo è il traboccamento dell’anima di Marcello nel più volgare, nel più sguaiato cinismo metropolitano; la catarsi si compie a rovescio: invece della liberazione dell’anima, si compie la liberazione dall’anima. Marcello non tornerà a riveder le stelle ma precipiterà nel gelido Cocito dei traditori del genere umano, quelli che perpetrano il tradimento della propria “anima”, che la vendono a “Mammona”. Marcello sprofonda nella feccia amara della produzione “marchettara” – diventa un abile e avido “agente pubblicitario”, e per combattere il “tedio della vita” orchestra festini sadico-orgiastici, forse più immaginati che reali nel film… mentre la “cronaca”, o la “giustizia”, spesso hanno rivelato quanto “reali” e venali possano essere stati ed essere ancora oggi. Ed il segno certo della caduta di quest’anima, che per non poter o saper ‘trasumanar’, finisce col disumanarsi, è che Marcello non riconosce più, nella sequenza finale, il richiamo del volto sorridente della fanciulla-angelo, che un tempo, e sia pure per qualche attimo, l’aveva incantato.

Una parte di Marcello è morta, forse proprio la sua ‘anima’: storia della morte di un’anima, potrebbe essere il sottotitolo del film; e avverto che, qui, il nome di ‘anima’ non rimanda immediatamente alla fede cristiana, quanto piuttosto a quel quid incircoscrivibile – come già avvertiva Eraclito “per quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo intera la via, tu potresti mai trovare i confini dell’anima: così profondo è il suo logos” – che – potenzialmente – può motivare (per passione mai scissa dal corpo o per fede) ognuno ed ognuna di noi ad affrancarsi dalle convinzioni e convenzioni ereditate e date, per rimettere in questione e gioco la propria stessa vita e il mondo, rimodellando anche sempre le relazioni ed i legami con gli altri.

Ma neanche la morte dell’anima di Marcello è il carattere determinante per noi, dell’opera filmica felliniana, qui ed ora, almeno se non diventiamo in grado di vedere che cosa ha ucciso quell’anima, di cosa è realmente morta.

Con queste domande ci allontaniamo anche noi dal nostro splendido Virgilio-Pasolini, che in qualche modo ci ha guidato – sia pure da lontano – nella lettura del film di Fellini, e ne è stato senz’altro l’incitamento; ed in certa misura anche contestiamo parte della sua interpretazione dell’opera come inauguratrice di una nuova stagione ‘culturale’ (non solo cinematografica) all’insegna di una sorta di neo-decadentismo, tendenzialmente estetizzante [cfr. dove ‘decadentismo’ non ha accezione ‘negativa’ ma indica, per Pasolini, l’apogeo delle produzioni ‘simboliche’ delle società borghesi].

Che cosa sembra anticipare lo sguardo di Fellini, su ed attraverso quello di Marcello/Marcello?

Quel mutamento sociale, allora appena cominciante, che troverà una formulazione ‘filosofica’ radicale, soltanto più di dieci anni dopo, in Francia, in un densissimo testo teorico, che ha ancora oggi un altissimo potenziale critico:

  1. Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione (evidenza mia).
  2. Le immagini che si sono staccate da ciascun aspetto della vita si fondono in un corso comune, in cui l’unità di questa vita non può più essere ristabilita. La realtà considerata parzialmente si afferma nella sua propria unità generale in quanto pseudo-mondo a parte, oggetto della sola contemplazione. La specializzazione delle immagini del mondo si ritrova, compiuta, nel mondo autonomizzato dell’immagine (…).
  3. Lo spettacolo si presenta nello stesso tempo come la società stessa, come una parte della società, e come strumento di unificazione. In quanto parte della società, esso è espressamente il settore CHE CONCENTRA OGNI SGUARDO E OGNI COSCIENZA [maiusc. mio].
  4. Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale tra individui.
  5. Lo spettacolo non può essere compreso come un abuso del mondo visivo (…). È una visione del mondo che si è oggettivata.
  6. Lo spettacolo compreso nella sua totalità, è nello stesso tempo il risultato e il progetto del modo di produzione esistente. Non è un supplemento del mondo reale, la sua decorazione sovrapposta. È il cuore dell’irrealismo della società reale (evidenza mia). In tutte le sue forme particolari, informazione o propaganda, pubblicità o consumo diretto di distrazioni, lo spettacolo costituisce il modello presente della vita, socialmente dominante (…).
  7. (…) Il linguaggio dello spettacolo è costituito da dei segni della produzione imperante, che sono nello stesso tempo la finalità ultima di questa produzione.
  8. (…) la realtà sorge nello spettacolo, e lo spettacolo è reale.
  9. Nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso.
  10. (…) Considerato secondo i suoi propri termini, lo spettacolo è l’affermazione di ogni vita umana, cioè sociale, come mera apparenza (…).
  11. (…) lo spettacolo non è nient’altro che il senso della pratica totale di una formazione economico-sociale, il suo impiego del tempo. È il momento storico che ci contiene (evidenza mia).
  12.  Lo spettacolo si presenta come un’enorme positività indiscutibile e inaccessibile. Esso non dice niente di più di questo, che «ciò che appare è buono, ciò che è buono appare» (…).
  13. (…) Esso [cfr. lo spettacolo] è il sole che non tramonta mai sull’impero della passività moderna. Esso copre l’intera superficie del mondo e si bagna indefinitamente nella sua gloria.
  14. La società che riposa sull’industria moderna non è fortuitamente o superficialmente spettacolare, è fondamentalmente spettacolista. Nello spettacolo…il fine non è niente, lo sviluppo è tutto. Lo spettacolo non vuole riuscire a nient’altro che a se stesso.
  15. …lo spettacolo è la principale produzione della società attuale.

Così suonano i frammenti delle prime 15 tesi del primo capitolo del libro La società dello spettacolo, di Guy Debord, la cui prima edizione è del 1971.

Tutti i tratti salienti rilevati da Debord, caratterizzanti la società spettacolista, sono stati antiveduti da Fellini – dalla ‘posizione’ dell’individuo – e intellettuale – in lotta con essa, e proprio in quanto lavora per essa.

E questo emerge con grande forza in uno degli episodi all’apparenza più scollegati dalla trama, in cui la parte stessa del protagonista è minima, quasi da puro osservatore, che è anche una delle parti più filmicamente rilevanti e più ‘spettacolari’ in quanto rappresentazione filmica della preparazione e dell’allestimento di una rappresentazione filmica: l’episodio del “miracolo” dell’apparizione della Madonna a due fratellini (un maschietto ed una femminuccia), con un finale tragico, innescato peraltro dal più banale e incontrollabile dei fenomeni naturali, lo scatenarsi di un temporale. Nell’episodio, in certo modo grandioso, per movimenti di macchina e di comparse, per il gioco di  luci (poche) e ombra (densa), per il trapassare dall’attesa sospesa del miracolo ‘salvifico’ al trapestio frenetico di corpi e masse calpestati e calpestanti, è dato intravvedere il potere, al tempo stesso, dissacrante e ‘risacralizzante’ della società spettacolista dell’immagine; nonché forse l’incapacità delle Chiese nel resistere alla spettacolarizzazione della ‘fede’. E sempre e ancora attraverso i famelici occhi fotografici degl’immancabili cacciatori d’immagini sensazionali, in questo caso, ‘autenticamente patetiche’; che quasi materializzano davanti agli occhi quella tesi di Walter Benjamin, la cui rimozione permette di credere alle “vite in diretta” e alle dirette dalla vita: “[l’] aspetto della realtà che rimane sottratto all’apparecchio [cfr. da ripresa] è diventato così il suo aspetto più artificioso e la vista sulla realtà immediata è diventata una chimera nel paese della tecnica”.

Le implicazioni e applicazioni di questa tesi sono articolate nel libro di Debord, nel tentativo di mettere in rilievo i tratti determinanti della società spettacolista, collegandoli in una strutturazione dinamica unitaria. Mostrare tali collegamenti e la corrispondenza tra quelli e l’opera filmica felliniana, richiederebbe un volume a parte, anche trascurando il rimando, valido solo per gli ultimi, rari, amici della “metafisica” al saggio di Martin Heidegger L’Epoca dell’Immagine del Mondo, e magari al tanto celebre quanto impervio ‘frammento’ della Dialettica dell’Illuminismo di Horkheimer e Adorno, L’industria culturale.

Lo stesso Nordio – ed innumerabili altri – se mai dovesse capitargli di leggere queste pagine troverebbe, peraltro, l’accostamento tra l’opera filmica felliniana e la teoresi debordiana un’indubbia forzatura interpretativa, ed anche cronologica (d’altronde tipica dell’heideggerismo di provincia, al quale potrei essere ascritto): un maldestro tentativo alchemico di trasformare il piombo “bozzettistico” felliniano in oro, addirittura “metafisico-epocale”. Mentre a ‘mio’ modesto avviso si tratta di una prova del potere anticipante dell’arte, proprio riguardo alle forme determinanti delle realtà storico-sociali, ed individuali, ed ai mutamenti di tali forme: «L’opera d’arte ha valore soltanto in quanto sia traversata dai riflessi del futuro». Fellini, che l’abbia fatto con un progetto teorico esplicito, o che piuttosto ci sia arrivato, quasi inconsapevolmente, ma scavando e lavorando a fondo, sino in fondo, i ‘materiali’ della sua opera, anticipa uno dei nodi metapolitici, se non il nodo metapolitico stesso, delle società contemporanee, la produzione ‘spettacolare’, la produzione e riproduzione del mondo stesso, e quindi di tutti i rapporti sociali, come ‘rappresentazione totale’.

Ma ciò, beninteso, non fa affatto di Fellini uno che vuole o tende a “rovesciare l’ordine esistente della cose”, fine che si propone esplicitamente Debord, né si tratta qui di “demonizzare” apriori la “società spettacolista”, moralisticamente additandola come ‘sterminatrice d’anime’.

Così non è la denuncia degli ‘scandali morali’ in cui affondava già una parte della società italiana che fa attuale l’opera; anche se tutto sommato, e contro ciò che argomenta Nordio – il film avrebbe “nascosto” l’Italia migliore di quegli anni, quella produttiva e competitiva a livello internazionale, evidenziando abnormemente solo i vizietti dell’Italietta – si potrebbe riconoscere che l’impietoso ritratto di una parte della “classe dirigente” italiana – cinica, corrotta, parassitaria, irrimediabilmente provinciale e culturalmente succube – se magari fosse stato preso un po’ più sul serio – cosa che farà da lì a pochi anni quasi soltanto Pasolini – ci avrebbe senz’altro privato di quella sorta di remake de La Dolce Vita che è stato La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino – visivamente immaginifico ed elegantissimo e tanto più pretenzioso dell’originale, quanto meno incisivo, perché troppo ‘cattolicamente’ conciliatore, al punto di risultare ‘redentivo’; e magari ci avrebbe privato anche delle durissime critiche ‘costruttive’ mosse da Pasolini alla classe dirigente politica ed intellettuale del Paese – ma forse non ci avrebbe condotto all’attuale condizione di subalternità economica alla Germania, culturale alla Francia, e geo-politica ad esclusivi interessi nord-atlantici.

Ma le opere non sono fatte per “salvare il mondo”, né i peccatori, a questo provvedono gli “eserciti delle salvezze”.

Marcello/Marcello è, vichianamente, un universale fantastico, che incarna in celluloide – le aspettative, i dilemmi, i dolori, i piaceri, le scelte che ogni “intellettuale” alle prese con le società spettacoliste potrebbe dover affrontare – e la storia della trasformazione desublimante (dal cielo dell’innocenza angelica agli inferi della feccia mondana) della sua “anima” – forse mostra ad ognuno quali sono i limiti – in questo tempo, qui ed ora – che non si possono varcare, pena il perdersi irreversibile dell’«Anima» stessa.

Per concludere: le tre ore dedicate al film, più volte, non sono affatto sprecate, né noiose – ho cercato mostrarne qualche motivo – anche se sono tra quelli cui l’opera filmica di Fellini in generale non piace particolarmente – pur ammirandone la vastità e forza delle volute immaginali, e la potenza di costruzione – ma chi pensa che per la “valutazione” delle opere d’arte abbia un qualche peso il “mi piace/non mi piace”, ha una concezione dell’arte alquanto incondita. E se proprio una lamentazione, che in Italia è immancabile, va fatta, è che non dovremmo, mai, – affannandoci soltanto dietro le ultime e poi le ultimissime ‘novità’ o consolandoci con le celebrazioni una tantum, cioè in entrambi i casi consumando solo prodotti spettacolistiintermettere il rapporto vitale, un legame amoreo ed attivo, ad opere di tale forza e levatura – intensità e livello per mostrare i quali Pasolini non temeva di comparare il lavoro di Fellini – congelato dall’immaginario collettivo nella statuaria Ekberg a bagnomaria – al lavoro di alcuni tra più grandi scrittori europei del Novecento come Marcel Proust e Carlo Emilio Gadda – pena il precipitare nello stitico, asfittico, e da ultimo cachettico stato “creativo” medio, contemporaneo.

16-22 Maggio 2020

Galatina Terra d’Otranto

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