Riportiamo alla luce l’anfiteatro di Taranto

di Francesco D’Andria

Nella recente pubblicazione sulla Mostra “Mitomania”, organizzato dal MaRTA, Luca Di Franco dedica un interessante contributo a Monsignor Capece Latro, arcivescovo di Taranto, figura notevole di ecclesiastico antiborbonico, aperto al vento dell’Illuminismo, il quale, alla fine del Settecento, mette la città bimare in contatto non solo con la capitale del Regno, ma con la realtà europea rappresentata da sovrani come Cristiano Federico di Danimarca e Ludwig di Baviera. Al re danese egli cede gli splendidi ritratti marmorei di Druso e Germanico, in eccezionale stato di conservazione, ora esposti al Museo Nazionale di Copenhagen, rinvenuti con tutta probabilità all’interno della proprietà dei monaci Teresiani, in contrada Montedoro, un nome allusivo certamente di ricchezze nascoste. Il Convento passò poi ai Fatebenefratelli, ordine ospedaliero fondato da S. Giovanni di Dio, che lo tennero sino alla costruzione del Nuovo Ospedale. Da quest’area, ricchissima di ritrovamenti, proviene anche la lastra di bronzo con l’iscrizione dei Neptunalia, le feste in onore del dio del mare, che aveva dato anche il nome alla colonia graccana del 123 a. C., fondata per rafforzare l’antica metropoli della Magna Grecia. Poi, nel 1881, gli scavi di Luigi Viola portarono alla luce muri in opera reticolata che vennero riconosciuti come i resti dell’anfiteatro. In quest’area della nostra città sorgeva dunque la piazza principale sia nel periodo greco (agorà) che in quello romano (foro) e in questo spazio libero dalle abitazioni fu costruito, a partire dall’età augustea, il grande edificio per gli spettacoli dei gladiatori e per le cacce (venationes), grande polo di aggregazione della comunità tarentina per un lungo periodo di tempo, sino al momento in cui il potere cristiano proibì questo genere di intrattenimento che intanto si era arricchito di spettacoli d’acqua, con ballerine in abiti succinti e pose lascive, contrari alla nuova sensibilità.

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