La passeggiata

di Luigi Scorrano

I medici la suggeriscono come un buon rimedio naturale: una passeggiata. Si mette in moto il corpo ed anche (sembra) il cervello. Il passo possibilmente regolare, braccia e mani rilassate, occhio posato sulle cose che s’incontrano e possono destare in noi sensazioni piacevoli, talvolta sorprendenti: tutto questo entra nelle possibilità che una passeggiata offre. Non sono le sole. Chi dedica un ritaglio di tempo sufficientemente ampio ma da non stancare, a mettersi in  moto per i classici quattro passi valuta costi (la fatica) e benefici (i positivi riflessi che il camminare ha sul tono generale dell’organismo) e decide che, forse, vale la pena almeno di provare. E compie il primo passo: dubitoso nella fase iniziale, poi rinfrancato, poi intimamente goduto. Tutto dipende dal modo con cui si compie una passeggiata; e dalla disposizione di chi passeggia.

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Di solito, chi vuol godere di una passeggiata sceglie la sera per effettuarla. La sera può ritagliarsi il tempo necessario a un riposante diversivo dal lavoro quotidiano; la sera consente ai pensieri di affacciarsi alla mente con maggiore libertà che nelle altre ore del giorno. Con l’ombra che invade il cielo, con le prime stelle che sgorgano nell’azzurro che s’incupisce, il ritmo della passeggiata si adegua a quello di questi fenomeni: lenti, progressivi, riposanti.

La passeggiata serale sembra si addica all’ambiente urbano, con le luci che si accendono per le strade, le vetrine dei negozi trasformate in quadri dalla disposizione artificiale degli oggetti e delle lampade che danno loro rilievo. Non è più la luce naturale ad imporsi; l’artificio ha una sua magia che induce colui che passeggia a brevi soste davanti alle vetrine dei negozi, talvolta – si direbbe – davanti alle vetrine dei propri desideri. Da quelle vetrine scaturisce la magia di prodotti diversi, sistemati in modo d’apparire desiderabili, si tratti di festoni di salumi pendenti su placide forme di formaggi e sulla piccola selva di bottiglie di vino che si protende con i colli magri e lisci e splendenti verso un cielo più vicino di quello naturale, estraneo quasi a quello artificiale del quale la vetrina fa mostra. Ci sono poi altre cose ugualmente attraenti benché diverse: vestiti da uomo o da donna, graziosi suggerimenti per il vestiario dei bambini, e le camicie, e le cravatte che sembra non usino più se non in ambienti ufficiali ed in occasione di commemorazioni, di premiazioni, di occasioni di rappresentanza d’ogni genere, tutto ciò che viene ancora (forse), nell’era del pratico jeans, considerato elegante. Da quelle vetrine la moda lancia i suoi richiami. Si vive in una stagione in cui anche i giovani, per le occasioni eleganti, vestono di nero e, per quanto possa essere festosa la ricorrenza, a causa di tutto quel nero un velo di mestizia sembra prendere il sopravvento. Un’aria di lutto, si direbbe; che anche a una circostanza gioiosa come un matrimonio dà qualcosa di funerario. Bravi vetrinisti allestiscono, per la serale gioia del passeggiatore, composizioni che si potrebbero rubricare come tableaux mourants dal momento che anche le cose vive sono come immobilizzate in una dimensione di morte. Dove la vetrina ospita dei manichini, le sagome maschili e femminili rivestite di qualche indumento o nude sembrano calchi dissepolti da una chimerica Pompei della modernità che nel richiamo al benessere sembra presagire un disfacimento di  materiali da discarica.

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Passeggiare è, tra i tanti aspetti che una tale attività offre, aver la possibilità di osservare minutamente quello che cade sotto gli occhi d’un passeggiatore non distratto, ma anche quello che nasce nella mente. Passeggiare è un’ occasione offerta al fantasticare. Non si intitola forse Le fantasticherie del passeggiatore solitario un’opera incompiuta di Jean-Jacques Rousseau? Anche i filosofi fantasticano.

Quale sia il luogo per trarre dalla passeggiata i benefici o i piaceri che ci si attende, ciascuno lo scopre da sé, magari dopo aver saggiato percorsi diversi e paesaggi diversi. Non è la stessa cosa passeggiare per larghi viali di città, talvolta alberati ai bordi per dare un’impressione di natura là dove la natura è esiliata e costretta e quasi prigioniera delle esigenze urbane oppure scegliere una stradina di campagna, per godere il verde dei prati, i ben disposti quadri di terreno in cui l’insalata o altri vegetali sono stati allineati con cura in esatti filari e promettono buoni frutti a chi li coltiva. I percorsi di città sono monotoni, quelli di campagna sostengono l’immaginazione anche per la libertà con la quale si offrono alla vista e all’uso.

Dolci pomeriggi d’autunno o scintillanti tramonti di primavera: colori decisi o sfumati del cielo e della terra; siepi lasciate formarsi spontaneamente così che tutto ciò che vi cresce in maniera anarchica non perde la sua naturalezza, non denuncia l’artificio! La campagna è riposante: l’occhio si perde volentieri nel verde primaverile o nelle decise dorature dell’estate; ama le sfumature autunnali e il netto disegno contro il cielo dei rami che, abbandonata la veste delle passate stagioni dell’anno, attendono d’avvertire il fremito delle linfe nuove pronte ad entrare in azione al primo tepore dell’aria.

La libertà è il maggior bene che ci si aspetta da una passeggiata in campagna. Si può dare qualche calcio alle sparse pietre disseminate per i viottoli; si può immaginare di altalenare tra i rami di fichi maestosi, si acuisce l’odorato a captare nell’aria il profumo dei fiori degli agrumi che resiste alla rovina delle corolle. Forse ci si ricorda di altre stagioni della vita, quando era possibile correre spensieratamente per le strade di campagna e, ragazzi, lanciare richiami nel silenzio di meriggi ardenti come ardente fu la vita dei nostri giovani anni.

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Non è una cosa da niente scoprire la bellezza del passeggiare! Si alimentano le impressioni, si ritrovano ricordi non totalmente corrosi dal tempo, si confrontano situazioni d’oggi con quelle di altri tempi, si interroga un tempo mai del tutto perduto, mai del tutto restituito alla nostra gioia o alla nostra malinconia.

Camminiamo per le strade dei nostri paesi. Ci sono luoghi in cui a chi ha voglia di passeggiare è impedito di farlo. In strade strette in cui le case sui due lati del percorso quasi si toccano, s’infilano auto a tutta velocità a dire che il tempo delle fantasticherie dei passeggiatori, solitari o accompagnati, è concluso. La velocità decide tutto in un mondo sempre più frenetico. Non c’è spazio per la serena conversazione, per una comunicazione riposata: il ritmo nevrotico di quella che chiamiamo la vita moderna ci travolge e la contemplazione quasi amorosa delle piccole mille particolarità sui nostri percorsi non si ha quasi più tempo per accorgersi che vi siano. La ‘modernità’ negatrice di ogni riflessione che non sia riferita al mondo dell’economia impone la sua presenza dai muri delle vie cittadine, dagli spazi espositivi della propaganda elettorale o da quelli della pubblicità per ogni sorta di elettrodomestici o degli ultimi ritrovati di largo consumo dell’universo informatico. Fa sorridere, di fronte a tutto questo, il modo in cui un estroso Aldo Palazzeschi registrava una passeggiata. Nella poesia La passeggiata, i due personaggi (quasi due fantasmi tanto sono sfuggenti) sono soverchiati dalle proposte che dalle vetrine gridano l’imporsi dei prodotti sul tentativo di dialogo tra esseri umani. Quanto è più corrispondente alla umanità, se ancora se ne cerchi una qualche essenza, la narrazione di un’incantevole scrittore svizzero, Robert Walser:  il libro, che si intitola La passeggiata, apparve nel 1919, in un’Europa martoriata ed appena uscita dalla grande guerra. Nel libro si fanno compagnia, nella cornice appunto del passeggiare, ironia lieve e riflessione profonda, casualità e ordine rigoroso, personale e collettivo, dialogo con gli amici e interrogazione del proprio spirito. Un panorama che cambia di continuo poiché cambia continuamente il punto di vista di chi procede nella sua passeggiata che gli offre un’inquadratura sempre  nuova e sorprendente.

Nella storia della poesia, la passeggiata non è un semplice fondale: è, si direbbe, l’aura nella quale sono immersi i fatti narrati. Due opere narrative del nostro Novecento si potrebbero ricordare in proposito, esempio minimo in una vasta catalogazione: di Giorgio Bassani, La passeggiata prima di cena; di Luigi Bartolini,  Lapasseggiata con la ragazza. Nel testo di Bassani la passeggiata propizia l’incontro di una ragazza inappariscente con un dotto professore sullo sfondo di una Ferrara in cui si avvertono le avvisaglie dell’antisemitismo; nel libro di racconti di Bartolini, la passeggiata è un momento di contemplazione d’una natura ricca e sollecitatrice di umori carnali: l’eros si esprime in libera espansione e senza pastoie moralistiche, la riflessione morale si intreccia alla polemica estrosa.

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La passeggiata più memorabile nella letteratura italiana non è però quella di Bassani, non quella di Bartolini: è un’altra. È quella che il parroco di un villaggio lombardo compie abitualmente verso sera tornando a casa e recitando una parte del suo breviario. Il parroco è don Abbondio, che molti incontrano tra i banchi di scuola leggendo parti del romanzo in cui egli è il primo personaggio mandato in scena dall’autore: I Promessi Sposi. Di quella passeggiata l’autore del libro, Alessandro Manzoni, ci fornisce puntuali ragguagli: quando fissa l’immagine del curato che tornava bel bello dalla passeggiata verso casa si preoccupa di dirci la data, che è quella del giorno 7 novembre 1628. La passeggiata del curato lombardo viene inscritta con grande puntigliosità prima dentro un ameno paesaggio di natura, poi dentro le coordinate ‘legali’ (giorno, mese, anno) e, prima ancora, dentro un dato temporale che ha una sua precisa rilevanza nel racconto (la sera). La sera, apparentemente serena, prelude all’agitata notte e ai terrori del povero curato al quale due ceffi briganteschi ordinano perentoriamente di non celebrare, l’indomani, le nozze tra Renzo Tramaglino e Lucia Mondella: ne va della stessa vita.

Quella passeggiata dà l’avvio alla narrazione e ne racchiude i drammatici (e talvolta comici) sviluppi.

Che tipo di passeggiatore è don Abbondio? Lo si capisce da quello che fa. Di tanto in tanto chiude il breviario, ma con un dito infilato tra le pagine mantiene il segno alla pagina alla quale è giunto: recitare il breviario è uno dei doveri del suo ufficio e va rispettato senza interruzioni. Una piccola distrazione, in realtà, don Abbondio, passeggiatore solitario, se la concede: guarda a terra e col piede spinge verso i muri che costeggiano il sentiero i ciottoli che fanno inciampo. Si direbbe che compie una minima azione a beneficio anche di altri camminatori, Tuttavia a quella di rimuovere i ciottoli che potrebbero costituire un inciampo, don Abbondio aggiunge un’altra distrazione: quella, di tanto in tanto, di levare gli occhi dal breviario e di volgerli in giro oziosamente (l’avverbio è del Manzoni!). Mal gliene incoglierà, perché a una levata d’occhi si accorgerà di essere atteso. Con quello che, nel romanzo, segue.

Le passeggiate, però, nel romanzo del Manzoni non finiscono qui. Ce n’è un’altra, ancor meno riposante di quella di don Abbondio: quella che il povero padre Cristoforo, su ordine del suo superiore, compirà dopo che tra il suo superiore, il padre provinciale dei cappuccini, e il conte-zio di don Rodrigo si sarà svolto un discorso ambiguo, tortuoso ma a tratti molto esplicito; un colloquio, scrive il Manzoni, che «riuscì a far andar fra Cristoforo a piedi da Pescarenico a Rimini, che è una bella passeggiata.»

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Le passeggiate stimolano l’immaginazione, danno all’occhio la sensazione che tutto quel che si vede sia stato preparato affinché l’occhio ne colga relazione inedite, immagini che si formano da angolature diverse dello sguardo vagante sugli oggetti…

Passeggiare non risponde a regole fisse, a dettami rigidi. Piacere o necessità che ne suggeriscano l’abitudine, esso chiude, come in un scatola magica, quel tanto di sorpresa che il passeggiatore si aspetta di trovarvi.

Provate a passeggiare dentro una fiera di paese; di quelle che una lunga tradizione intitola a santi patroni nel giorno della loro festa! Vi troverete quella confusione affannata e dolce che prova chi cerca di districarsi da una aggrovigliata matassa d’incontri, di fermate, di oggetti esposti che attirano la vostra attenzione. Non meno suggestivi di questa allegra confusione vi giungeranno all’orecchio suoni diversi, ora incerti ora distanti: una piccola babele sonora che al clima di festa aggiunge una supplementare misura d’allegria. Sono i suoni delle bande, tradizionali, o quelli più moderni della musica rock sparata nei vostri orecchi da implacabili altoparlanti.

Dentro una fiera, coloratissima ma non fragile come una iridescente bolla di sapone, si ha il piacere di passeggiare. Si è costretti a fermarsi quasi ad ogni passo, ma questo procedere a singhiozzo, con lunghe soste davanti alle bancarelle sulle quali ciascuno cerca di trovare un suo bene, non sono vane. Ciascuno cerca di scoprire (e trovare) l’oggetto che gli sta a cuore. Il pezzo di antiquariato forse falso ma seducente, la cartolina mancante alla propria collezione, il lampadario da altri smesso perché troppo complicato da pulire: queste, e tante altre cose, rendono il passeggiare in una fiera una sorta di avventura senza rischi, nella percezione visiva di un caleidoscopio nelle cui figure e nei cui colori trova appagamento un polverio di meraviglia. E poi si procede, tra sorrisi complici, e si fanno compere, si cerca di ottenere del buon materiale a prezzo accessibile. Una passeggiata  dentro una fiera è anche un rilevante (anche quando non sembri) atto economico. Certo, una fiera grande offre molto di più; ma la vecchia buona fiera di paese conserva un fascino indistruttibile.

E poi ci sono le giostre! Salire in un antiquato sedile in ferro verso il cielo ed avere l’impressione di avvicinarsi alle stelle è un momento della passeggiata estremamente emozionante. E ci libera da quel tremore oscuro che per un momento fa correre un brivido in tutto il nostro corpo.

La passeggiata! Un’esperienza ricca, un sogno che non costa quasi nulla. O costa solo avere delle gambe che ce la fanno ancora bene a reggersi. Comunque si configuri, è ancora un’esperienza ricca. Vale la pena di farla. Se proprio credete di non farcela fisicamente, mettete in moto l’immaginazione. Chi sa che non ve la caviate brillantemente come ‘creativi’!

[“Il Titano”. Supplemento economico de “Il Galatino” n. 12 del 26 giugno 2014, p. 42-44]

 

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