Di mestiere faccio il linguista 16. Il politically correct

Comunque sia, è fondamentale usare la lingua in modo appropriato, cercando le parole giuste senza offendere e senza cadere nel ridicolo, mantenendo il senso della misura. Dobbiamo accettare la realtà per quella che è, senza insultare e senza irridere, senza fingere ingenuità (cosa che mi pare di rilevare nell’articolo di Bocca), ma anche senza buonismi dolciastri. Definire “spazzino” una persona che si guadagna con dignità da vivere pulendo le strade non è insultante, preferire “operatore ecologico” non cambia la sostanza delle cose. Vale lo stesso per “becchino” (mi riesce quasi incomprensibile “operatore cimiteriale”) e per “bidello” (a me suona sforzato “operatore scolastico”). Se diciamo “non vedente” invece di “cieco” o “non udente” invece di “sordo” non miglioriamo la vita delle persone in difficoltà.  La ricerca delle parole giuste, lo sforzo di essere politicamente corretti e di non offendere possono provocare effetti ridicoli. Non arriveremo mai al punto di definire “verticalmente svantaggiato” un individuo basso, “diversamente pigmentato” chi è nero o giallo, “non crinito” un uomo senza capelli, “non masticante” chi ha perso i denti.

Torniamo all’inizio di quest’articolo. Il politicamente corretto, importante conquista della nostra società, nelle ultime settimane è stato da più parti contestato per alcune manifestazioni giudicate eccessive. In una «Lettera sulla giustizia e sul dibattito aperto» pubblicata su «Harper’s Magazine» da 150 famosi intellettuali di tutto il mondo (Noam Chomsky, linguista e teorico della comunicazione; Salman Rushdie, scrittore indiano naturalizzato britannico; Margaret Atwood, poetessa; Reginald Dwayne Betts, autore di libri di memoria e di poesia, ecc.) lanciano un grido d’allarme: il sacrosanto percorso verso la giustizia sociale e razziale non può avvenire a scapito della libertà d’opinione. Tutte le opinioni, anche quelle più controverse, perfino quelle che giudichiamo non condivisibili, antitetiche rispetto a quello che pensiamo e in cui profondamente crediamo, hanno il diritto di potersi esprimere.

È un portato della civiltà illuministica su cui l’Occidente ha fondato i propri ideali. «Non condivido le tue idee, ma mi batterò fino alla morte affinché tu possa esprimerle». Attribuita a Voltaire, autore del celebre «Traité sur la tolérance» («Trattato sulla tolleranza»), ipercitata, inflazionata, forse questa frase non fu mai effettivamente pronunziata dall’illuminista francese (fu coniata, pare, dalla scrittrice britannica Evelyn Beatrice Hall, autrice del romanzo  «Gli amici di Voltaire»). Vera o apocrifa che sia, la frase esprime  un valore a mio parere fondamentale e irrinunciabile. Dobbiamo consentire senza batter ciglio che venga ristampato il «Mein Kampf» («La mia battaglia»), libro nel quale Adolf Hitler  espose il suo pensiero politico che avrebbe generato il nazionalsocialismo e, in prospettiva,  l’antisemitismo e lo sterminio degli ebrei? O dobbiamo invece censurare la diffusione di quelle idee atroci? Tra le due scelte preferisco la prima, fidando nell’intelligenza, etica e ideologica, di chi legge o ascolta.

L’uccisione di George Floyd e di altri afroamericani ha dato enorme visibilità alla battaglia contro il razzismo, e ha sollecitato in molti l’obbligo morale di schierarsi per i diritti della comunità nera. Ma l’indignazione e l’orrore per quegli omicidi non possono tradursi nella tendenza a rigettare aprioristicamente il passato che ci appare non condivisibile, dalle statue alle idee, mettendo in discussione la linfa stessa della società occidentale, che deve essere tollerante senza essere indifferente. È un sentiero strettissimo, si corre il rischio di precipitare nel vuoto. Dobbiamo essere capaci di analizzare episodi o fatti dei tempi andati con criteri adeguati, non possiamo trasferire meccanicamente all’indietro il nostro modo attuale di giudicare. Colpiscono le notizie sull’abbattimento delle statue di Cristoforo Colombo e di altri personaggi della storia (tutti etichettati come razzisti, senza sottigliezze), sul boicottaggio di film come  «Via col vento» e di romanzi come «Le avventure di Huckleberry Finn» di Mark Twain (che Ernest Hemingway collocava all’inizio della letteratura americana moderna) perché usano la parola “negro” e descrivono l’atroce schiavismo, sulla cancellazione del nome «Redskins» («Pellerossa») e sulla rimozione del logo (con il volto di profilo di un capo pellerossa) di una famosa squadra di calcio americana, sull’annullamento del nome «Eschimese» con cui la Nasa aveva comunemente etichettato una nebulosa (ora si chiama NGC 2392) .

Il politicamente corretto designa un’attitudine giustissima. Tuttavia, se sfugge di mano, può portare a reazioni esagerate, come alcune che ho elencato prima. Impariamo a riflettere. Conoscere i flussi della storia aiuta. Non possiamo cancellare il passato, ma possiamo analizzarlo per evitare di ripeterne gli errori. Le aberrazioni finiranno quando dalla nostra società spariranno razzismo, discriminazione, sopraffazione di gruppi o di individui deboli. L’uso accorto della lingua contribuisce ad affrontare i problemi della società.  

            [“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 27 settembre 2020]

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