Enzo Fasano prezioso intarsiatore della Grotta delle Veneri di Parabita (Lecce)

Ecco. Questo è lo sguardo artistico che più mi ha affascinato di Enzo Fasano, cioè quello rivolto al mondo del lavoro salentino, dando un ulteriore soffio di vita e speranza a chi da millenni è nato qui e qui ha vissuto: i contadini, le donne raccoglitrici di olive durante gli inverni oppure vendemmiatrici durante le afose estati salentine. Questo è stato ed è il suo e nostro mondo di riferimento. Nelle tarsie o nei disegni di Enzo Fasano non ci sono nebbie, né sagome d’industrie, né grattacieli, né architetture avveniristiche. Ci sono invece pajare, muretti a secco, contadini che zappano la terra o che con la falce mietono il grano. Ci sono donne curve nella raccolta dei frutti della terra. Ci sono villaggi agricoli con le loro casette dipinte col bianco della calce viva. Ecco. Questo c’è nell’opera artistica dell’intarsiatore parabitano. Forse un mondo e un Salento pietroso non più esistenti, ma che resistono ormai solo nella sua e nostra mente di umani radicati nelle profonde radici della storia di questa terra.

Di questa storia di vita millenaria fanno parte le quattro tarsie raffiguranti una delle più importanti scoperte archeologiche che siano state fatte sul territorio italiano. Non solo su di esso, ovviamente, perché la scoperta delle due statuine muliebri paleolitiche (12.000-14.000 anni del Paleolitico superiore, cioè della terza e ultima suddivisione dell’era tra 40.000 e 10.000 anni), scolpite in osso bovino o equino, rilevate nella ormai famosa Grotta delle Veneri di Parabita, è patrimonio dell’umanità, non ancora purtroppo riconosciuta dall’Unesco. Oggi le due Veneri trionfano in bella mostra all’ingresso del Museo Archeologico Nazionale di Taranto.

Le Veneri parabitane furono rinvenute nella grotta in contrada “Li Monaci” nel 1966/69 da Giuseppe Piscopo (Galatina, 1915 – Parabita, 2015), docente e pittore-scultore, dedito all’esplorazione di grotte e antri rocciosi del Salento. Nello stesso periodo, l’archeologo accademico dei Lincei Antonio Mario Radmilli (Gorizia, 1922 – Pisa, 1998) e, poco dopo (1969) il paletnologo Giuliano Cremonesi (Pisa, 1939-1992) diedero loro una prima dimostrazione scientifica. Più recentemente esse sono state dettagliatamente descritte dall’archeologa Renata Grifoni Cremonesi:

            «1. Statuina in osso/ H. 9, larg. 2, spess. 2.1/ Ricavata da scheggia ossea di diafisi di Bos primigenius o Equus caballus, colore biancastro a patina lucente, conserva sul fianco destro zone di tessuto spugnoso che determinano alcune irregolarità nella tornitura del fianco. Sulla testa non appaiono lineamenti e la parte superiore è allungata, mentre la regione del mento e il collo recano una fascia nella quale sono profondamente incisi due solchi curvilinei, a guisa di collare o cappuccio. Dal collo partono le spalle spioventi che continuano con le braccia realizzate mediante un solco profondo: esili fino alle anche, si ingrossano e si congiungono sotto il ventre preminente che indica la gravidanza. Le mammelle sono rese con due solchi e sono di tipo “ad otre”, ma non pendule. La regione pubica è anch’essa ben evidenziata e un solco profondo divide le cosce nella parte anteriore. La parte posteriore è resa con realismo e sono evidenziati i glutei. Le gambe sono troncate all’altezza delle ginocchia. Reca residui di terra rossa del deposito interno nelle zone di tessuto spugnoso./ Gravettiano evoluto/ epigravettiano antico./ Radmilli 1966, Id. 1969; Cremonesi 1987a./ Cfr. per la posizione delle braccia Kozlowscki 1992, tavv. 17-20.// 2. Statuina in osso/ H. 6.1, larg. 1.5, spess. 1.2/ Ricavata da scheggia di diafisi, ha profilo fusiforme e l’esecuzione sommaria dà l’impressione che si tratti di un abbozzo. La testa è tondeggiante, senza indicazione di lineamenti, ed è separata dal corpo da un solco che si allarga nella parte posteriore. Le spalle larghe formano un contorno ellittico con le braccia che, a loro volta, congiunte sotto il ventre, si sovrappongono e recano l’indicazione generica di alcune dita. Le mammelle, separate da un lungo solco, sono pendule e ovali, il ventre è piatto. La parte inferiore della statuina è affusolata e termina con una specie di uncino, per cui potrebbe trattarsi di un pendaglio. La parte posteriore ha evidente solo il braccio destro e i glutei sono appena accennati. Gravettiano evoluto/ epigravettiano antico./ Radmilli 1966. Id. 169; Cremonesi 1987a./ Cfr. per la posizione delle braccia e la testa tondeggiante: Kozlowscki 1992, tavv. 17-20» (v. Renata Grifoni Cremonesi, Grotta delle Veneri. Le Veneri, in La passione dell’origine. Giuliano Cremonesi e la ricerca preistorica nel Salento, a cura di Elettra Ingravallo, Conte editore, Lecce, 1997, pp. 165-166).

Ecco. Mi è sembrato utile dare queste annotazioni sulle due statuine per poi dire delle tarsie di Enzo Fasano. Ebbene, tutte e quattro le tavole mostrano le Veneri viste dall’interno della grotta, posizionate sull’ingresso della stessa con squarci che si aprono all’esterno. Le loro silhouette hanno posture a volte di “fermo immagine” altre, invece, quasi di movimento danzante. Tale scelta dell’artista gli è servita per mostrare quello che poteva essere il probabile ambiente esterno del territorio circostante. Vediamo così campiture completamente rossastre e inanimate (una tavola), altre, invece, dove le campiture hanno terreni dai colori variegati smossi e ondulati, sui quali danzano ominidi in una sorta di cerchio magico-religioso con movimenti di pizzica. Nelle stesse campiture svettano i megaliti (dolmen e menhir), preziosi tesori di pietra del Salento.

Le Veneri invece sono state “costruite” dall’artista così come la letteratura scientifica le ha descritte: longilinee e dal ventre gravido, ora che sembrano guardare le radiose albe adriatiche, ora che sembrano osservare i rossi tramonti ionici. Ce n’è una assai cara allo stesso Enzo Fasano eppure a noi stessi. Si tratta della Venere collocata all’ingresso della grotta. La sua silhouette è armoniosa con quel ventre ultra gravido. Sembra guardare la parete dell’antro ma, allo stesso tempo, al suo sguardo di sbieco sembra non sfuggirle quanto le sta intorno. Dietro di lei lo squarcio dell’esterno rivela un paesaggio che oserei dire fantastico e che vale la pena descriverlo. Un ruscello scorre ai piedi della Venere e lì, nel mezzo della rossastra campitura, svetta un colossale menhir, attorno al quale due coppie di ominidi danzano la pizzica.

Riprendo, parafrasandolo, quanto scritto da Mario Marti e qui riportato in incipit. I legni laminati, usati dall’artista parabitano, sono stati da lui scelti con una cura quasi maniacale. Si tratta di un’infinità di legni provenienti da ogni parte del pianeta che, a volte, Enzo Fasano, per rendere quanto più realistica possibile la scena, ha sminuzzato e levigato fino a raggiungere una velatura quasi pittorica. La resa ovviamente è strabiliante e affascinante.

Non faccio nessuna eresia se scrivo che con le tarsie di Enzo Fasano le Veneri di Parabita sono tornate a vivere dopo 13.000 anni. 

[“Presenza taurisanese” a. XXXIX n. 1-2, gennaio-febbraio 2021, p. 10]

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