Graziano Gala, “Sangue di Giuda”. Nel nome disumano del Padre

di Adele Errico

Sangue di Giuda

Lui è Giuda. Solo Giuda e nient’altro.

A volte Giudariello, Giudariè, ma sempre Giuda. Con tutto il peso che questo nome si porta dietro, un nome infame che gli è impresso addosso come il marchio di una bestia pronta per il macello. È Giuda perché un altro nome non ce l’ha, il suo nome di battesimo è finito chissà dove, perduto in un passato squallido, in cui l’identità gli è stata cancellata da una valanga di botte e tutto quello che di lui è rimasto è quel nome che nasce dall’imprecazione urlata da una bocca distorta dalla rabbia. Quella di suo padre che lo insegue per frantumargli le ossa e lo vuole sporcare, gli vuole sporcare l’anima già da bambino, stordendolo di botte e infangandogli le mani dell’orrore di un mondo che Giuda è troppo piccolo per conoscere.

Giuda traditore, Giuda dei trenta denari. Ma lui non è un traditore, è un Giuda senza denti che vive con un gatto che si chiama Ammonio perché il nome richiama il puzzo del piscio che gli lascia in giro per casa. Nella vita di Giuda si entra passando per un televisore: “L’altra sera s’hann arrubbato ‘o televisore” è l’incipit del romanzo di Graziano Gala, edito da “Minimum fax”, che introduce al racconto che l’apostolo traditore inizia a fare con le parole più vere di cui dispone. Il racconto inizia come una deposizione in un commissariato “che è ‘stu teatro ‘e marionette senza voce e senza interprete”. Ma la deposizione sembra trasformarsi in confessione, come quando si va dal prete o, forse, ancor di più, come quando si parla da soli di fronte allo specchio e la denuncia del furto diviene, per Giuda, pretesto per affrontare il proprio inferno e narrarlo ad alta voce, per raccontarsi come scarto di un’umanità reietta e disperata. E lo fa nel modo più semplice che ha, stando al mondo come può, a volte provando vergogna, a volte accartocciandosi su se stesso, usando l’ironia per rendere la sua disperazione più lieve.  Ma per farlo, per raccontarsi, Giuda si serve della lingua della rabbia, del dolore, della vergogna, la lingua dei sentimenti che si infiammano, quelli che accecano e non c’è tempo per pensare a come tradurli in parole: Giuda parla in dialetto. Ma questo suo dialetto – il dialetto di Giuda, il dialetto di Gala – è una lingua nuova. Inizi a leggerlo ed è come se quel dialetto diventasse il tuo, fosse il tuo, la lingua della culla, la lingua della madre, la lingua del ribollire del sangue e del palpitare del cuore. Giuda parla a te. Proprio a te. E racconta a te, nel tuo orecchio, tutte le sue sventure, e i suoi pensieri e le sue paure, con un dialetto che diventa simbolo di tutti i dialetti del Sud, che racconta un Meridione che non è sulle mappe, ma un Meridione che solo chi ci è nato può conoscere, è un luogo che è nella pelle e negli occhi, è un Sud dell’anima.

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