Sorrisi e risate

Che cosa è successo, a un certo punto, che ha rotto l’incantesimo e spento il sorriso? Come ho detto, non saprei essere preciso a questo proposito, perché nella mia memoria non è rimasto segnato un evento drammatico o un fatto scioccante, ma solo il ricordo generico e un po’ confuso di un periodo nel quale mi era divenuto chiaro che qualcosa era cambiato rispetto al passato; e la novità era che avevo perso il sorriso. Facevo brutti sogni, da cui mi svegliavo di soprassalto, piangendo e invocando la presenza dei miei genitori; a cui chiedevo che mi raccontassero una storia; e quando questo accadeva, interrompevo il narratore sempre con mille perché, disturbando il racconto e facendo perdere a mia madre o a mio padre il filo del discorso. La mia vita non era cambiata in nulla, sennonché ora frequentavo l’asilo infantile, dove ogni mattina mi trascinava la Maria, una donna a cui i miei genitori mi affidavano e con la quale, a piedi, attraversavo la piazza del paese verso il tetro edificio abitato da austere suore per nulla tenere con i bambini: dovevano insegnarci la disciplina! Circolavano storie orribili, di punizioni dentro una stanza buia, dove si veniva rinchiusi se non si era buoni, cioè zitti e fermi, due condizioni che io non avrei mai saputo rispettare. Tuttavia, non credo di esserci mai finito in quella stanza buia, sebbene ancora oggi saprei localizzarla nella mia mente. Fu questa la causa della perdita del sorriso? Credo di no. Forse fu una delle tante cause, ognuna delle quali corrispose ai miei contatti col mondo, quell’ignoto che si trovava al di là della cintura di sicurezza dei miei genitori e che, piano piano, giorno dopo giorno, diveniva noto in maniera direttamente proporzionale alla mia consapevolezza. Ero fuori dal giardino dell’Eden, pur senza avere mai peccato. Del resto, non avvertivo nessun senso di colpa, ma solo una strana paura. Piangevo, come fanno i bambini, e, dopo il pianto, scoprivo di non saper più riacquistare il sorriso, capivo che un cambiamento ero avvenuto dentro di me. Infatti, il mio volto si ricomponeva, ridevo come uno sciocco, quando un adulto, non sopportando il mio pianto, mi incoraggiava a ridere, ma il sorriso… era perduto per sempre.

***

Quando facevo la scuola elementare, il giorno prima delle vacanze pasquali si saltavano le ultime ore di lezione. Per dire che si usciva prima del solito, cioè verso le undici, si usava il latino ecclesiastico: lectio brevis; ed infatti, non si era liberi di andare a casa, ma si era precettati dalla scuola, ovvero si doveva partecipare al precetto pasquale, messa che ci introduceva ai misteri della settimana santa. Tutti in chiesa, dunque, in fila per due.

Seduti sui banchi di legno, sei per banco, prima che iniziasse la funzione, sgomitavamo e scalciavamo come tanti puledri riottosi, cercando tuttavia di non farci riprendere dalla maestra. Inizia la messa: tutti in piedi. Poi, rispondendo all’ordine del celebrante, tutti seduti. Qualcuno fra i compagni del mio banco dice una parola, una parola che oggi ho dimenticato, ma che dà la stura a non so quale sentimento represso: ci mettiamo a ridere, a ridere a crepapelle, di una risata isterica e nervosa, che sembrava non poter essere frenata. Mi sembra di vederli questi sei compagni di banco piegati su sé stessi – per fortuna non eravamo tra le prime file -, qualcuno si appoggia all’inginocchiatoio antistante la panca, il che poteva apparire come un atto di contrizione, e cerca in ogni modo di soffocare dentro di sé una risata che non voleva finire e che si rivelava solo in singulti (ma potevamo essere così contriti?); se solo ci fossimo levati dritti a sedere, i nostri volti sarebbero apparsi paonazzi. Furono minuti di vero terrore perché ciascuno di noi aveva paura di essere scoperto e cacciato fuori dal tempio. Ridevamo terrorizzati, ma ridevamo; sicché da allora ho imparato che la più grande paura può sempre essere accompagnata dalla più grande risata. La nostra risata era irrefrenabile. Cessò solo quando l’officiante ordinò di alzarci in piedi, secondo quanto prevedeva il rito. Allora fu giocoforza smettere di ridere e ritrovare la calma. Il nostro volto doveva ancora avere i lineamenti contratti come quelli d’una maschera carnevalesca, ma probabilmente il prete, preso com’era dal suo ufficio, non se ne accorse o fece finta di non accorgersene perché la cerimonia non fosse turbata. Chi invece se ne accorse fu la maestra che, tutta corrucciata, all’uscita dalla chiesa, ci chiese che motivo avessimo di fare delle gran risate durante la messa. Noi non avemmo il coraggio di guardarla in faccia e, a testa bassa, mortificati, non fummo in grado di fornire nessuna spiegazione. Ella ci rimproverò severamente, ma poi forse si ricordò che, almeno per pochi giorni, stavamo per andare in vacanza, e allora ci diede gli auguri, fummo congedati e il nostro precetto pasquale ebbe termine.

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