Baudelaire, l’infinito nelle strade

di Antonio Prete

Duecento anni fa, il 9 aprile, nasceva Baudelaire. Duecento anni: un tempo in cui la presenza del poeta è via via diventata più intima a quelle che oggi chiamiamo ragioni della modernità, ma anche più intima alla nostra lettura del mondo, dei suoi enigmi, delle sue ferite. La poesia di Baudelaire è il pentagramma su cui molta poesia venuta dopo di lui ha scritto la propria musica: dopo Baudelaire è un’espressione che può comprendere Rimbaud e Valéry, Trakl e Eliot, Whitman e Pasternak e moltissimi poeti. 

Per questo riaprire I Fiori del male è ritornare a un principio in cui temi e figure, accenti e registri di tutta la poesia che diciamo moderna sono come raccolti, o annunciati. 

I Fiori del male sono un libro poetico che si può collocare nel cuore della nostra epoca. Come per la Commedia di Dante, quella poesia non ha mai cessato di interpretare un tempo successivo a quello in cui il suo autore è vissuto. Anche Baudelaire ha compiuto una peregrinazione, ma nell’inferno della metropoli, che è ancora la nostra metropoli. Lungo questa peregrinazione, l’invisibile si è mostrato nelle vesti del visibile. L’estremo nel ritmo del quotidiano, l’infinito nelle strade. L’infinito nelle strade: così sottointitolavo anni fa un mio saggio sui Fiori del male. Nel rumore della città il poeta avverte il suono di quel che è lontano, o cancellato, o perduto, oppure sacrificato sull’altare dei miti di questa nostra civiltà. Nell’anonimato della folla ecco il passo solenne di una bellezza fuggitiva, e con quell’apparizione il dischiudersi di un incantamento che cerca un altro tempo per dirsi: come il lampo impressiona la macchina fotografica, così uno sguardo impressiona la lastra del tempo interiore.

L’éclair di quello sguardo consegna la certezza di un amore non vissuto che è più forte di un amore vissuto. Nella città, dietro i fantasmi che fendono la nebbia, il grottesco implode nel misterioso, oltre i corpi corrosi dall’età prendono forma figure splendenti di donne innamorate, gli stracci della povertà nascondono una bellezza regale. Sotto i cieli della città – cieli tersi o lividi, funambolici o solenni, viola o rosati – prende figura l’essenza stessa della modernità: l’illusione del nuovo nel sempreguale. I tropici della malinconia, e le immagini della lontananza, i suoi bagliori, passano per la città metropolitana. E la poesia diventa la lingua di una inattesa ospitalità. Ospitalità per coloro che la città non accoglie, come la ragazza nera che, immigrata, è diventata tisica e continua a vedere dietro la muraglia della nebbia la sua Africa grandiosa. Ospitalità per coloro che sentono l’ansia dello spaesamento, o la ferita dell’esilio, o il morso del dolore. La lingua della poesia è la foresta dove il ricordo-personaggio, le Souvenir, chiama a sé tutto quello che la nuova città, – la “vie moderne” – lascia fuori dal suo recinto, o condanna all’esclusione, o all’oblio. Una resistenza all’oblio è la poesia di Baudelaire. 

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