La mattanza di cetacei alle Faroe ci inorridisce: siamo sicuri di essere migliori di loro?

di Rosalba Giugni e Ferdinando Boero

Non ci spaventiamo di fronte alla morte di 100 milioni di squali, né per i milioni di maiali, mucche, agnelli e polli che vivono in condizioni inaccettabili per essere poi macellati. Eppure ci sentiamo superiori ai “barbari” che hanno ammazzato brutalmente 1200 delfini per un rito.

“Quando ero ragazzo, a Genova, i filetti di delfino affumicato (il mosciame) erano un ingrediente raffinato della cucina ligure, con usi simili a quelli del tartufo – dice il Prof. Ferdinando Boero, vicepresidente di Marevivo –. Ho anche conosciuto l’ultimo cacciatore professionista di delfini, a Camogli. In Liguria era una tradizione uccidere i delfini e mangiarli. Poi si è capito che si può vivere bene anche senza questo tipo di ‘cultura’, la sensibilità ambientale è aumentata, e la cultura si è evoluta”.

Oggi non siamo più tanto convinti che sia “normale” gettare le aragoste vive nell’acqua bollente: la sensibilità verso gli animali è molto aumentata, anche per quelli che, un tempo, non evocavano compassione. Ai tempi di Melville, i capodogli come Moby Dick erano mostri cattivi che andavano uccisi.

La sensibilità verso i cetacei è quasi universale, ma in alcuni posti manca.

I giapponesi, ad esempio, continuano a cacciare balene per “scopi scientifici” e, se andate in Norvegia, per esempio al mercato del pesce di Bergen, troverete carne di balena. E la troverete anche nei menu dei ristoranti. Nei negozi si vendono graziose scarpette per bambini… fatte di pelliccia di foca.

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