Di alcune parole stravolte in tempo di guerra

di Antonio Prete

Pace. Una parola che, adoperata dalla mia generazione e da quella successiva come segnavia per un cammino, per un orientamento nel cammino, appare ora desueta o è trascinata verso significati impropri o è persino irrisa. Dinanzi alla guerra spaventosa portata dalla Federazione russa in Ucraina, con un’aggressione all’integrità territoriale e alla storia e alla cultura di un Paese,  la pace appare risospinta verso una sua  dimensione utopica, riconsegnata a ingenui spiriti che si rifiuterebbero di leggere la lezione del realismo tragico della guerra in corso, rifugiandosi in un sogno, in un’astrazione, o in una lettura impolitica di quel che accade. Certo, tutti ritengono giusto dire della pace come necessità, ma la intendono come un fatto prospettico, non da costruire prima che una guerra si annunci o si imponga e sin dal primo giorno in cui una guerra si scatena.

La pace, si pensa da più parti, è il punto d’arrivo, un’invocazione, un augurio: invocarla mentre un conflitto va perpetrando stragi ed eccidi distrae dal primo dovere, che è quello di condannare l’aggressore. Laddove sono le armi a parlare – si pensa o si dice ancora – la parola pace è distraente da quel che più conta: che è scendere in campo, almeno per via indiretta, attraverso aiuti anche militari. Quanto alle insistenze sulla necessità, da subito, della pace, che il Papa esprime in ogni occasione, esse sono rinviate alla loro fonte: il testimone primo di una religione che riconosce anche nel nemico un prossimo a sé non può agire diversamente.

Le bandiere arcobaleno che un tempo garrivano al vento sopra balconi  e finestre appartengono a una stagione che aveva altri teatri di guerra, teatri lontani, non questo che è geograficamente e culturalmente così vicino a noi. Quanto al legame tra la Costituzione italiana e la pace, che il dettato dell’articolo 11 accoglie, affidandolo a un’affermazione un po’ eccessiva – “ripudia la guerra” – un’interpretazione all’altezza dei nostri giorni e degli eventi in corso  lo deve ricollocare, quel monito,  solo sul piano di una calda raccomandazione, e nient’altro, e soprattutto deve congiungerlo con l’urgenza della difesa, prevista costituzionalmente, eccome…

Sono alcuni esempi di un ragionare che giorno dopo giorno toglie alla parola pace la sua forza, sgretola la sua necessità, rende fioco il suo grido. Così una tradizione italiana, consolidata dopo il tragico della seconda guerra mondiale, dopo l’abisso dei suoi orrori – da Aldo Capitini a Giorgio La Pira a Gino Strada – è sospinta verso la soglia di un dire che è annodato più all’ordine della buona volontà che al gesto politico, e lo si attribuisce più al candore di qualche anima bella che a un ragionare politico e insieme umano.

Questa sottrazione alla pace della sua più propria pulsione la si può scorgere se si osserva quanto scarse e incerte siano state le iniziative fin qui messe in atto per aprire tavoli di negoziazione, tentativi di accordi, incontri internazionali intesi a far pressione sulle due forze in campo perché decidano una tregua e intraprendano, insieme con altri Stati chiamati a mediare, un disegno di pacificazione. Quel che doveva essere insonne e assidua e immediata reazione politica a una guerra, cioè il tenere aperte a ogni costo tutte le forme di una trattativa, e da parte in particolare dell’Europa, si attenua fino a dileguarsi. Quanto poi alla lettura in chiave solo difensiva dell’articolo 11 della Costituzione italiana, essa subisce già una prima smentita quando è pronunciata in presenza del  dichiarato obiettivo ultimo occidentale: “indebolire” la Russia. Il passaggio dalla difesa di un popolo alla cobelligeranza è già in atto.  E, dati gli arsenali chimici e atomici che sono stati collocati in questi anni lungo varie linee strategiche, un altro passo folle verso il delinearsi dell’apocalisse è compiuto.

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