Nell’armonia del latino si ritrova la delicatezza della lingua

di Antonio  Errico


Pietro Paolo Rubens, Seneca morente, 1612-15 – olio su tela – Madrid, Museo del Prado

“Sto rileggendo Seneca”, mi dice. “Non so per quale motivo mi succede, ma ogni volta che l’estate comincia a declinare, mi viene il desiderio di riprendere le lettere a Lucilio”. Così mi dice.

“Le leggo in latino direttamente. Per non perdere questa lingua che è una meraviglia, quest’armonia di suoni, questo movimento d’onde sereno, regolare. Se il latino lo lasci anche solo per un poco, si sottrae alla tua conoscenza, alla tua memoria, si rifiuta di continuare il dialogo con te. Così rileggo direttamente in latino, in modo da non perderlo, finchè posso”.

Si è messo su una panchina in faccia al mare, al riparo di un’ombra di oleandro, mentre un tramonto  “da bestia macellata”, scivola dietro un abbozzo di collina, e l’afa si fa anche più densa, più opprimente,  e l’aria sembra che sia quasi  cagliata. 

Passano tre moto, una dietro l’altra, rombano come  tuoni di un’apocalisse. Lui ripiega la testa sul petto, stringe gli occhi.

“Si è perduta ogni delicatezza”, dice. “Si è perduta ogni delicatezza per il principio e per la fine delle cose. Si è perduta quella delicatezza leggera, sottile, quella delicatezza che serve a capire il senso delle  stagioni che vengono e che vanno, quella delicatezza che ti fa soffermare sulla soglia ad aspettare un passaggio di colori, oppure niente a volte, soltanto per assaporare un pensiero incerto e vago. Mi sembra che non ci sia più delicatezza”, dice.  “Quella  delicatezza che serve per andare verso un luogo, per tornare verso un luogo, finché c’è un luogo verso cui partite, finchè c’è un luogo verso cui  tornare.

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