Profilo di Mario Marti decano degli italianisti nel mondo  (1914-2015)

di Antonio Lucio Giannone

Dopo una lunga vita dedicata allo studio e all’insegnamento della letteratura italiana, si è spento nella sua casa di Lecce, nella notte tra il 3 e il 4 febbraio scorso, Mario Marti.  Era il decano degli italianisti nel mondo con i suoi cento anni, compiuti il 17 maggio del 2014. In quella occasione gli venne tributato un omaggio presso il Comune di Lecce, di cui era cittadino onorario, e qualche giorno dopo  presso l’Università del Salento, della quale è stato anche Rettore. Marti era nato a Cutrofiano  il 17 maggio 1914, anche se all’anagrafe venne registrato due giorni dopo (il 19 maggio). Trascorse la sua infanzia a Lecce, poi la sua famiglia si trasferì a Soleto, dove visse durante gli studi superiori al Liceo “Colonna” di Galatina. Qui ebbe come docente di italiano Raffaele Spongano, importante filologo, che doveva diventare uno dei suoi maestri. Si laureò nel 1938 in Letteratura italiana presso la Scuola Normale di Pisa con un altro famoso critico letterario, Luigi Russo, discutendo una tesi su Leopardi, che pubblicò nel 1944 col titolo La formazione del primo Leopardi, con la casa editrice Sansoni di Firenze.

Presso l’Università di Roma è stato assistente straordinario di Alfredo Schiaffini, illustre storico della lingua italiana. Nel 1956 è diventato professore incaricato di Letteratura italiana presso l’Università di Lecce, dove nel 1963 è stato nominato professore di ruolo presso la Facoltà di Lettere e filosofia. Qui ha ricoperto vari incarichi istituzionali, percorrendo per intero le varie tappe della carriera accademica: Direttore d’Istituto e poi di Dipartimento, Preside della Facoltà di Lettere e filosofia e infine, come s’è detto, anche Rettore dal 1978 al 1981. È stato professore emerito dell’Università del Salento e inoltre cittadino onorario, oltre che  di Lecce, anche di Martano, Mesagne, San Donato e Soleto, nonché condirettore del “Giornale storico della letteratura italiana”, la più antica e gloriosa rivista di italianistica, dove ha pubblicato il suo ultimo intervento nel 2011. Nel corso della sua attività ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti che sarebbe lungo ricordare in questa sede.

Mi proverò ora a delineare un profilo dello studioso, anche se non è impresa da poco. Si pensi solo infatti, per avere un’idea della produzione scientifica di Marti, che la sua bibliografia conta oltre millecento titoli tra volumi, edizioni critiche e commentate, studi e saggi, articoli, rassegne, recensioni, schede critiche, voci di dizionari e di enciclopedie. D’altra parte, questa imponente messe di scritti copre un arco di tempo di oltre settant’anni. La sua prima pubblicazione risale infatti al 1943 e l’ultima è il volume pubblicato nel 2014  dalle edizioni Congedo di Galatina, Recuperi, in occasione del compimento dei suoi cento anni. Ovviamente è impossibile dar conto di tutto, perciò mi limiterò a indicare le principali linee di ricerca seguite da Marti, gli autori e gli argomenti sui quali egli ha offerto contributi ritenuti, ancora oggi, fondamentali.

E il primo filone che bisogna indicare è sicuramente quello che riguarda Dante e la letteratura dei primi secoli. In quest’ambito, secondo l’ordine cronologico delle pubblicazioni, il primo volume che  deve essere menzionato è quello sui Poeti giocosi del tempo di Dante (1953), dei quali Marti curò anche l’edizione dei testi, nel 1956, nella collana  “I classici Rizzoli, diretti da M. Vitale”. Segue La prosa del Duecento, in questo caso prima con la pubblicazione dei testi, in collaborazione con Cesare Segre, nel 1959 nella collana “Letteratura italiana. Storia e testi” della Ricciardi  e  poi nel 1966 con lo studio apparso nella Storia della letteratura  italiana, diretta da E. Cecchi e N. Sapegno per la casa editrice Garzanti; ancora, l’edizione dei Poeti del dolce stil nuovo nella collezione “I grandi classici della letteratura italiana”, diretta da V. Branca e S. Pasquazi (Le Monnier, 1969) e La storia dello Stil nuovo (1973, 2 voll.), forse il suo capolavoro critico. Fin dall’inizio della sua attività,  insomma, Marti procede  parallelamente prima all’accertamento filologicamente corretto dei testi e poi alla loro interpretazione secondo una sua fortunata formula critica: “dal certo al vero”.

D’altra parte, Marti ha riflettuto anche, in varie occasioni, sui metodi della critica, raccogliendo i suoi interventi nei volumi Il mestiere del critico (1970) e Critica letteraria come filologia integrale (1990). Qui ha delineato anche il suo percorso, che ha inizio presso la scuola di Luigi Russo, un maestro dello storicismo crociano, per poi proseguire con l’apertura ai metodi della critica stilistica di Spitzer, Auerbach e  Dàmaso Alonso, che si diffonde in Italia negli anni Cinquanta. Notevole su di lui è stata anche la lezione di Schiaffini, e quindi l’attenzione alla lingua letteraria, e quella di Spongano col suo rigore filologico.

Innumerevoli poi sono gli studi su Dante raccolti in vari volumi, a cominciare da Realismo dantesco e altri studi (1966) e proseguire con Studi su Dante (1984) per finire con Su Dante e il suo tempo, con altri studi di italianistica, apparso nel 2009.

Ma nell’ambito dei primi secoli della letteratura italiana, non si possono non citare ancora gli studi su Boccaccio, Bembo e Ariosto, anche in questi casi con relative edizioni delle opere. Di Boccaccio, ad esempio, ricordo l’edizione del Decameron (“I classici Rizzoli”, 1958, poi riproposta nella BUR, 1974), nonché l’edizione commentata in quattro volumi delle Opere minori in volgare, pubblicate nella collana “I classici Rizzoli” tra il 1969 e il 1972. Di Pietro Bembo, l’edizione delle Prose della volgar lingua presso la Liviana di Padova nel 1955 e poi quella delle Opere in volgare, nella collana dei “Classici italiani” della Sansoni (1961). Sull’Ariosto, il profilo nella collana dei “Maggiori” della Marzorati (1956), poi ampliato e ripubblicato in un volumetto di Congedo dell’89. Ma dell’Ariosto Marti ha curato anche un’edizione scolastica dell’ Orlando furioso (Roma, Signorelli, 1955) e rivolta alla scuola  era anche una Storia e antologia della letteratura italiana, Problemi e testimonianze della civiltà letteraria, tre volume in 6 tomi, da lui redatta con Giorgio Varanini e la collaborazione di E. Boldrini e G. Viti (Le Monnier, 1976).

Un altro fondamentale filone di ricerca riguarda Leopardi. A questo proposito, si può parlare di una “lunga fedeltà” di Marti per il grande poeta di Recanati, come d’altra parte per Dante. Come s’è detto, a Leopardi è dedicato il suo primo volumetto, del 1944, che deriva dalla sua tesi di laurea. Ma poi lo studioso ha affrontato tanti altri aspetti dell’opera leopardiana in numerosi saggi e alcuni volumi, fino a I tempi dell’ultimo Leopardi (1988) e  Amore di Leopardi (2002). Anche su Leopardi, come su Dante, Marti ha operato a tutto campo, compiendo raffinate analisi stilistiche e linguistiche, affrontando questioni esegetiche, filologiche, cronologiche, intervenendo sulla fortuna critica del poeta e sui suoi interpreti più recenti.

Un filone particolare di ricerca che ha impegnato Marti a partire dalla seconda metà degli anni Settanta fino all’inizio del Duemila  è stato quello relativo alla cultura letteraria che si è sviluppata nel Salento o ad opera di autori salentini fuori dalla loro regione. Il frutto principale di questa indagine, a cui Marti si è dedicato con la stessa passione e lo stesso impegno che ha messo per studiare i grandi classici della letteratura italiana (appena nominati) è stata, com’è noto, la “Biblioteca salentina di cultura” (Milella) poi diventata “Biblioteca di scrittori salentini” (Congedo). Si tratta di una imponente collezione di testi (sono usciti in tutto 22 grossi tomi) con cui lo studioso ha inteso rifondare la cultura salentina, esaminata con rigore metodologico e messa costantemente in rapporto con la cultura nazionale in una concezione policentrica della letteratura (“dalla regione per la nazione”, secondo il titolo di un suo volume). In questa impresa Marti ha avuto come  collaboratori alcuni studiosi che gli furono vicini e che mi piace ricordare: Donato Valli, Antonio Mangione e Gino Rizzo, suo allievo scomparso prematuramente. Marti, in particolare, per la Biblioteca, si occupò di autori “minori” e dimenticati, come Rogeri de Pacienza, Antonino Lenio e di argomenti trascurati come la poesia dialettale settecentesca. A tutti riuscì a conferire quasi una nuova vita, pur trattandosi a volte di testi particolarmente ostici.

Nel corso della sua attività critica Marti non ha trascurato nemmeno il Novecento, nonostante non apprezzi certe espressioni della modernità letteraria, soprattutto quelle di carattere più avanguardista. In questo campo ricorderò gli studi su Girolamo Comi e Vittorio Bodini, i maggiori poeti salentini di livello nazionale e respiro europeo, che Marti ha contribuito, insieme a Oreste Macrì, Donato Valli e qualche altro, a valorizzare e a imporre all’attenzione generale. Con Comi Marti ebbe anche un rapporto diretto di conoscenza e di amicizia. Egli infatti fece parte dell’Accademia salentina, fondata dal poeta nel 1948 a Lucugnano, e poi collaborò alla rivista “L’Albero”, sia nella prima che nella seconda serie, curata da Macrì e Valli dal 1970. Di Comi, Marti dimostra di apprezzare soprattutto la raccolta Canto per Eva (1958), dove il tema dell’amore prende il posto di quello ‘cosmico’, che aveva caratterizzato tutta la fase precedente, antologizzata  in Spirito d’armonia(1912-1952), apparsa nel 1954. Più complesso e tormentato il rapporto con Bodini dal quale, pur essendo coetaneo (entrambi sono del 1914), è stato piuttosto lontano per sensibilità, formazione, esperienze biografiche e culturali. Ciononostante  Marti ha cercato ripetutamente di penetrare nel complesso mondo dello scrittore leccese, del quale ha privilegiato la poesia della Luna dei Borboni rispetto a quella di Metamor, verso la quale ha manifestato apertamente le sue riserve.

Ma una menzione particolare va fatta verso gli amati poeti dialettali, Albino Pierro, Pietro Gatti e Nicola G. De Donno, che gli sono stati anche amici e sodali e che ha seguito da vicino con numerosi interventi critici. Ma a proposito della poesia dialettale salentina,  non posso non accennare a uno studio che per la prima volta ne delineava lo svolgimento, dal titolo appunto Nicola De Donno e Pietro Gatti: per una linea della poesia dialettale salentina (1984), dove Marti partiva dalle prime testimonianze di poesia dialettale riflessa nel Salento e poi soprattutto da Francesc’Antonio D’Amelio, l’iniziatore di questo genere, per arrivare a De Dominicis, il maggiore esponente tra ‘800 e ‘900, e poi ancora a Giuseppe Susanna, Chimienti, Marangi, Bozzi, Pagliarulo, Oberdan Leone e gli altri più significativi, fino appunto a Gatti e De Donno. Sempre per restare in questo campo, Marti, come s’è detto, nel 1994 ha curato anche il volume sul Settecento della Letteratura dialettale salentina, che fa parte della già ricordata «Biblioteca di scrittori salentini» da lui diretta, mentre nel 2005 è tornato a occuparsi di Giuseppe De Dominicis (il Capitano Black), in occasione di un Convegno di studi a lui dedicato, con un ampio e analitico studio sulla sua opera più famosa, i Canti de l’autra vita.

E infine, per restare sempre al Novecento, vorrei ricordare il suo memorabile saggio sulla Cultura, apparso nel terzo volume, curato da Mariella Rizzo, della laterziana Storia di Lecce, diretta da Bruno Pellegrino, dal titolo Dall’Unità al secondo dopoguerra (1992). In questo saggio egli tracciava un panorama completo della vita culturale a Lecce dalla fine dell’Ottocento fino agli anni Cinquanta del Novecento, non trascurando alcun elemento che potesse in qualche modo illuminarla; dallo sviluppo urbanistico della città alle istituzioni culturali, dalla pubblicistica alla fioritura di studi giuridici, economici, scientifici, oltre che alla produzione letteraria, in lingua e in dialetto, con i principali esponenti e le riviste più significative.

Ma, per concludere, mi soffermerò  brevemente su un aspetto particolare della attività critica di Marti, quella di carattere, per così dire,  ‘militante’. Tra i periodici ai quali ha collaborato,  spiccano il settimanale leccese “Voce del Sud” e il quotidiano di Taranto “Corriere del Giorno”. Sulla ‘terza pagina’ di  quest’ultimo, in particolare, tra il 1980 e il 1985 e tra il 1991 e il 1994, puhblicò numerosi articoli. Ebbene, in questa fitta e varia produzione giornalistica, in parte raccolta in alcuni volumi, Marti interviene su diversi aspetti dell’attualità culturale: recensisce opere di critica ma anche testi creativi di autori contemporanei; offre vivaci resoconti di convegni di studio (su Fenoglio, Scotellaro, ecc.); affronta problemi di carattere sociale, che riguardano, ad esempio, la scuola e l’università; traccia dei penetranti profili di scrittori, editori, artisti; fa delle puntualizzazioni di carattere linguistico; prende in esame aspetti storici, artistici antropologici del ‘suo’ Salento. Tutti questi scritti, che si possono considerare ‘minori’ nell’ampia produzione critica e filologica dello studioso, sono spesso ricchi di spunti, osservazioni, proposte, suggerimenti. Anche qui, insomma, sia pure in maniera più leggera e quasi dissimulata, si rivela la lezione perenne di Mario Marti, il suo ineguagliabile magistero.

Per quanto riguarda il suo rapporto con l’ambiente tarantino, infine, merita di essere ricordata anche la collaborazione a “L’Arengo. I Quaderni”, la rivista del Liceo classico statale  ‘Quinto Ennuio’ e del Centro studi di Italianistica, dove pubblicò, fra l’altro,  contributi su Carducci, sull’idea dell’Unità d’Italia e su Nicola De Donno, a dimostrazione del suo costante interesse per la cultura del territorio.

[in “L’Officina. Laboratorio delle culture e delle storie”, a. I (2015), n. 2, pp. 97-103]

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