Dimenticare il superfluo per preservare l’essenziale

di Antonio  Errico 

Probabilmente Eugenio Montale è stato uno di quegli intellettuali capaci di vedere oltre: indagando nella dimensione interiore, ha configurato fisionomie di esistenze che avrebbero abitato i paesaggi del futuro, intuito fenomeni che sarebbero accaduti, previsto espressioni culturali che sarebbero maturate. Ha percepito concretamente, e attraverso il suo linguaggio di poesia ha concretamente rappresentato, che la cultura del tempo stesse mutando rapidamente e che ancora più rapidamente sarebbe mutata tra il tramonto del Novecento e l’alba del secolo nuovo.    

Allora una volta disse che la cultura vera è quello che rimane nell’uomo quando ha dimenticato tutto quello che ha appreso. Ma forse la conoscenza che rimane quando se si  dimentica tutto quello che si è appreso, è la conoscenza che si è assorbita, impastata, confusa con l’esistenza: forse è quella conoscenza che si è fatta esistenza stessa. Senza separazione, senza differenza. Forse è quella conoscenza che consente di riconoscere gli elementi imprescindibili delle cose dell’inizio e della fine, di attribuire importanza e valore ad alcuni accadimenti che hanno una rilevanza essenziale e di trascurarne altri senza rilevanza o dalla rilevanza superficiale. Forse è la conoscenza che insegna ad operare sottrazioni oltre che addizioni, a ricordare ma anche a dimenticare. Perché bisogna saper levare e saper trattenere. Se ciascuno di noi provasse a domandarsi che cosa vorrebbe ricordare dopo aver dimenticato tutto quello che ha appreso, che cosa considera essenziale ricordare, sicuramente si avrebbe un numero di risposte corrispondente al numero delle domande. Anche questa civiltà probabilmente se lo chiede. Anche questa civiltà avverte la necessità di individuare i significati essenziali di quello che ha appreso, per poterli ricordare e per poter fondare su di essi significati nuovi,  prospettive diverse.

Forse si potrebbe pensare che quello che diceva Montale possa valere sia per un uomo che per una civiltà.

Se quello che rimane è l’essenziale, se è la sostanza che serve a generare un altro apprendimento, una nuova conoscenza, allora ci si potrebbe domandare che cosa resterà di quello che la nostra civiltà ha appreso e apprende, a condizione che la risposta escluda qualsiasi cosa prodotta in modo superficiale e finalizzata esclusivamente al superficiale, che scarti la moda, il modello, l’imitazione, la contraffazione, la copia. A condizione che riguardi l’essenziale, il sostanziale, appunto, che in qualche modo possa servire anche solo come suggestione che conduce verso il  sapere di un nuovo tempo, che di questo sapere sia il fermento, il lievito.

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