La questione del latino

di Gianluca Virgilio

“En un mot, les vivants sont toujours, et de plus en plus, dominés par les morts.”

Auguste Comte, Système de politique positive.

Da ragazzo non provavo una gran simpatia per lo studio del latino, una lingua morta che, come tutti i morti, mi sembrava inutile. Ma non era tanto la presunta inutilità a tenermi lontano dal latino. Ricordo di aver provato gli stessi sentimenti che provò Renzo Tramaglino dinnanzi a Don Abbondio e ai suoi “impedimenti dirimenti” (Error, conditio, votum, cognatio, crimen, cultus disparitas, vis, ordo, ligamen, honestas, si sis affinis), a cui risponde: “Che vuol ch’io faccia del suo latinorum?”. Come Renzo, anch’io mi sentivo vittima di una sopraffazione e di un raggiro da parte di chi voleva farmi sacrificare un pomeriggio all’aria aperta per le cinque declinazioni. Non voglio dare la colpa a nessuno, ma è certo che ho vissuto il mio rapporto con la lingua latina come un rapporto basato sulla costrizione e sull’inganno. L’apprendimento delle nozioni di base della lingua, pur essendomi proposto nella prospettiva di una futura più larga e piacevole conoscenza, che però tardava a venire, era arido e mnemonico. Neppure lo studio della letteratura, inteso come storia letteraria, e degli autori, inteso come traduzione di alcuni brani tratti dalle loro opere e molto spesso decontestualizzati, valsero a farmi cambiare idea. Giunto all’università, le cose cambiarono del tutto quando ebbi l’occasione di seguire le lezioni del professore di latino Cesare Questa. Con lui non c’era nessun inganno e nessuna sopraffazione, la lingua latina diventava finalmente quello che era stata e che continuava ad essere, una lingua di cultura (e che cultura!), intorno a cui ruotano molti saperi, quello storico, antropologico, retorico, politico, e financo, come nel caso degli studi di Questa, quello relativo alla storia del melodramma. Solo allora mi fu chiaro che non avrei perso tempo a studiarla, apprenderla e insegnarla  a mia volta. Solo allora capii la sua utilità, che nulla ha a che fare con l’utilità immediata derivante dall’apprendimento di poche frasi in lingua inglese che permette allo studente liceale di sopravvivere a Londra per qualche giorno; un’utilità per così dire differita, perché consente non solo di conoscere il mondo antico, ma anche quello nel quale oggi viviamo, che non è altro che la prosecuzione di quello antico; sicché studiare oggi Plauto e Terenzio, Cicerone e Virgilio, Seneca e Petronio, mi sembra non più un umiliante atto di sottomissione ad un sapere a me estraneo, bensì un’occasione unica di conoscenza di ciò che siamo stati e di quel che siamo diventati; il che mai avrei potuto comprendere se mi fosse mancato questo straordinario strumento di confronto e di orientamento, che mi è dato dall’aver appreso la lingua e la cultura latina. Vogliamo privarne gli studenti delle future generazioni?

Questa voce è stata pubblicata in Quel che posso dire di Gianluca Virgilio, Scolastica e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *