Il mio amico Gianni Celati

Non voglio dire, evocando camminate, che non mi tornino alla mente incontri in luoghi diversi dai paesaggi, cioè in sale, interni di alberghi o di abitazioni o di pubblici palazzi o di caffè. Eccone alcuni. Una grande stanza a Cortona, quasi tutti quelli che erano autori di un racconto nel libro voluto e curato da Gianni I narratori delle riserve intorno a un grande tavolo: un raduno di due giorni per un seminario libero, divagante e bizzarro, e Gianni che aveva affidato a me l’introduzione ai lavori, se ne stava in ascolto, e lì voleva restarsene, poi invece molti interventi lo chiamavano in causa, ed era bello seguire quel fluttuare nella stanza di idee diverse sul narrare, sulla voce, sul legame tra il corpo e il narrare, tra la conoscenza di sé e il raccontare, tra le ferite nel mondo e il tono del dire: nessun documento di quell’incontro, credo, ma forse già nell’aria prendeva forma una rivista che si sarebbe chiamata “Il semplice”. O ancora altre stanze: la sala di un palazzo storico di Frascati, e le discussioni e conversazioni con i giovani amici che avevano avviato una rivista on-line, Zibaldoni e altre meraviglie; un caffè di Parigi dove, lasciando il frastuono del Salon du Livre, un pomeriggio ci eravamo rifugiati, Gianni, Erri De Luca ed io; il cortile quattrocentesco della Facoltà di Lettere a Siena, in via Fieravecchia, dove una sera era stato allestito in gran fretta lo spettacolo: l’attore Vecchiatto, cioè Gianni stesso, recitava i suoi sonetti e amici e studenti intorno, tra le colonne del portico e sotto le fioche luci che illuminavano il dicitore; e ancora scene didattiche, quando per tre e più giorni Gianni parlava a miei studenti di traduzione e leggeva sue pagine, con gli strascichi serali sulle lunghe panche di un ristorante (un flash: stiamo ascoltando Colbert Akieudi, giovane allievo camerunense, che ci racconta di usanze del suo paese: Colbert è studioso di “sguardi incrociati” – gli sguardi di scrittori africani sull’Italia e di scrittori italiani sull’Africa – e avrebbe di lì a qualche anno dato grande rilievo, nella sua tesi di dottorato parigino, ai libri di Gianni). Ma un’altra stanza, senza pareti, e tuttavia piena di voci, in cui ci siamo incontrati, è la rivista “il gallo silvestre”, per la quale due numeri con una larga sezione intitolata Etnografie (con testi di antropologia immaginaria e non solo) sono stati suggeriti e seguiti da Gianni. Gli incontri che ho lasciato da parte sono quelli di cui dirò in una nuova sequenza, che prossimi incontri potranno arricchire di immagini, e di pensieri in quelle immagini.

Una divagazione, come vedete. Per giungere a quello che doveva essere l’inizio e forse la sola cosa che volevo dire. Per chi ha avuto modo di conoscere o ha occasione di frequentare o incontrare Gianni Celati, la lettura di libri come la trilogia poi chiamata Parlamenti buffi, o Quattro novelle sull’apparenza o Verso la foce, o Cinema naturale o Fata morgana, o Avventure in Africa e così via, o anche i saggi, o le pagine corali da lui animate del seminario bolognese su Alice (con quelle pagine ha origine la mia fedeltà alla sua scrittura) non è separabile dal volto dell’autore, dal movimento del suo corpo, dalla sua voce. Pochi scrittori, inoltre, hanno una corrispondenza così forte tra il carattere – intendo il modo d’essere, i gesti e gli sguardi e gli affetti – e la scrittura, tra il bonheur dell’affabulazione orale e le forme narrative. Di riflesso, il piacere dell’ascolto corrisponde al piacere della lettura. Laddove il raccontare più s’avventura nelle volute d’aria del fantasticare, là più forte è l’acquisto di conoscenza.

Viene in mente una notissima espressione di Vico (scrivere, insieme, sul nesso Vico-Leopardi resta uno dei nostri incompiuti progetti): “conoscenza per via fantastica”. È naturale richiamare questa espressione mentre si leggono i libri di Gianni Celati. Una conoscenza fantastica che è poetica. Una conoscenza poetica , cioè morale, nel senso in cui il Leopardi delle Operette faceva dire al personaggio di Eleandro: “Se alcun libro morale potesse giovare, io penso che gioverebbero massimamente i poetici : dico poetici, prendendo questo vocabolo largamente; cioè libri destinati a muovere la immaginazione; e intendo non meno di prose che di versi”.

[“Doppiozero” del 16 febbraio 2016]

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