La penna, il computer e la sostanza della scrittura

di  Antonio Errico

Probabilmente non è più il tempo di dire quello che sto per dire. Perché è superato, improbabile, anacronistico.  Eppure c’è chi lo dice e lo fa. E’ notizia di questi giorni che otto fra le maggiori università australiane, che si distinguono per il livello della loro ricerca, stanno valutando  di introdurre carta e penna per gli elaborati degli studenti, in quanto l’impiego di strumenti e programmi che consentono di sviluppare testi per tesi e prodotti vari è diventato pratica comune. In termini diversi si potrebbe anche dire che usano la tecnologia per copiare.

Ma si deve considerare che la  prima e ultima opera originale della storia dell’umanità è rappresentata da quelle Tavole della Legge che Mosè portò giù dal monte Sinai.

Una volta la copiatura era anche un’arte, una manifestazione dell’ingegno, un’espressione di creatività. Si copiava dai libri, cercando di cucire frasi recuperate da fonti disparate; si copiava dal compagno un po’ più bravo, adottando metodi che andavano dalla cartuccella che riassumeva la poetica dell’Ariosto, occultata tra la mortadella nel panino, al lancio degli esercizi di algebra da una sponda all’altra dell’aula, effettuato con un  traversone che poteva far crepare d’invidia anche Mariolino Corso, al deposito del tesoro con le formule di fisica in bilico sui bordi della vaschetta dello scarico del bagno.

Nell’istante in cui si passava o si riceveva il bigliettino c’erano occhi che sfavillavano di sollievo, come quelli del condannato a morte che si vede arrivare  il dispaccio della grazia quando il plotone di esecuzione ha già avuto l’ordine di puntare.

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