Manco p’a capa 125. Il cappotto del Re d’Inghilterra

Ne ho comprate altre di quel tipo (un paio marrone scuro, un paio nero e un paio scamosciate, che ho appena fatto risuolare) e le ho tutte, dopo decenni. Se faccio la somma di quel che ho speso in scarpe a buon prezzo in tutti questi anni mi rendo conto di aver speso molto di più. I pantaloni non mi durano altrettanto: si consumano nel punto di attrito tra le cosce. Li porto a rattoppare ma alla fine mi arrendo e li butto. Le giacche no, e anche l’unico cappotto che ho. È di Armani. Lo comprai vent’anni fa, quando si passò dalla lira all’euro. Il negozio che lo vendeva, in saldo, aveva lasciato il cartellino col prezzo in lire: un milione. Andai alla cassa e dissi: a metà prezzo fa mezzo milione, cambiando a duemila lire per euro (mi voglio rovinare) fa 250 euro. Un milione per un cappotto era un’enormità, e la commerciante si sentì defraudata a darlo via per 250 euro. Anche quello è come nuovo e “fa la sua figura”, tanto per lodare anche la sartoria italica.
Capisco che il mio comportamento regale non favorisca l’economia che, infatti, spinge l’industria dell’abbigliamento a “creare” capi stravaganti che, nella stagione successiva, sono ridicoli. Creando la necessità di cambiarli. Il capo più duraturo, in termini di stile, sono i blue jeans, ma ce ne sono di tanti tipi. Negli anni 70 c’erano quelli a zampa d’elefante, poi quelli strettissimi, poi a vita alta, poi a vita bassa. Quando impera una moda, però, si trovano solo jeans di un certo tipo. C’è stato un periodo in cui andavano di moda i pantaloni a vita bassa, anzi: bassissima. Se ti piegavi, mettevi in mostra il di dietro. I pantaloni si usurano rapidamente e, in quel periodo, trovarne di mio gusto era un’impresa. Ma non li avete con la vita più alta? Chiedevo. Eh no, ora la moda vuole questo. La moda… ma io non voglio questo. Poi qualcuno ha schiacciato un bottone e ora c’è di nuovo la vita alta. La vita bassa fa ridere… come si fa a vestirsi così?
L’obsolescenza programmata domina anche altri settori, dagli elettrodomestici alle auto. Le cose devono esaurire rapidamente il loro ciclo di vita, in modo da poterne vendere altre.
Il che ha un senso. Se nessuno ha la lavatrice e all’improvviso tutti la comprano, il mercato delle lavatrici ha uno sviluppo prorompente, ma quando tutti hanno la lavatrice che fa l’industria? I grandissimi numeri di vendita dell’inizio non ci sono più, e la produzione dovrebbe soddisfare solo le nuove famiglie. Se si ripara la lavatrice quando si rompe l’industria degli elettrodomestici si ridimensiona, si perdono posti di lavoro, l’economia non “gira”. Costa più ripararla che comprarne una nuova, ti dicono. Buttala via e comprala nuova, ti conviene.
L’economia dell’obsolescenza programmata produce quantità immani di rifiuti e ha costi ambientali spaventosi. Dovremmo smetterla, ma come impiegare le masse di operatori che lavorano nelle industrie che producono beni a rapida obsolescenza? L’Italia produceva mine antiuomo. Aver smesso di produrle ha tolto il lavoro a chi le produceva. Ma non possiamo continuare con un’economia folle con la giustificazione del ricatto occupazionale: o continuiamo così o ci saranno sempre più disoccupati. La transizione ecologica richiede che si passi ad altri modi di produrre e consumare. Situazioni paradossali… Le macchine ci libereranno dal lavoro, si diceva. Ma se ci liberiamo dal lavoro restiamo senza lavoro! I sistemi economici e l’organizzazione sociale vanno ripensati e non starò certo a farlo io, in un post. Il messaggio di re Carlo III, però, è chiaro: il consumismo è insostenibile. Anche lui, come Francesco, chiede la conversione ecologica. Estremisti gretini, ovviamente.

[Il blog di Ferdinando Boero ne “Il Fatto Quotidiano” online del 29 gennaio 2023]

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