La scuola meridionale ha bisogno di più finanziamenti, non della propaganda di Valditara

a) Non vi è nessuna garanzia che questa politica attragga i migliori e, dunque, non vi è nessuna garanzia che a stipendio più elevato al Nord corrisponda una migliore qualità media degli insegnanti. Il meccanismo immaginato da Valditara è semplicistico e sembra ignorare le reali motivazioni delle emigrazioni. E’ spesso, quasi sempre, la condizione di disoccupato o di sottoccupato a spingere ad andarsene, ma con il presupposto di avere già una rete di conoscenze nelle città del Nord che consenta un minimo di integrazione iniziale in quei luoghi. Conta, dunque, la conoscenza di persone (spesso parenti) più che il differenziale di reddito per spingere a emigrare: inoltre, se non si può scegliere dove lavorare – come accade spesso a seguito di concorsi pubblici – questo fattore osta, in molti casi, rispetto a scelte di cambiamento di residenza. In più, l’eccesso di insegnanti al Sud dipende fondamentalmente dall’assenza sostanziale del tempo pieno a sud di Roma: se ci fosse quest’ultimo (e andrebbe incentivato con adeguato finanziamento delle politiche formative, anche per accrescere l’occupazione femminile nel Mezzogiorno), la numerosità di docenti meridionali non sarebbe eccessiva. Vi è di più. La ricerca scientifica più aggiornata mostra anche che, nel settore pubblico, esiste un fenomeno rilevante di dimissioni volontarie, o great resignation, che riguarda soprattutto i giovani. Il puro aumento (si può immaginare, marginale) degli stipendi non dovrebbe produrre afflussi elevati di giovani alla professione – dal momento che si rifiuta in toto il posti fisso nel pubblico impiego – e, però, dall’altra parte, potrebbe demotivare ulteriormente chi resta a Sud, impoverendolo anche per via dell’ulteriore peggioramento qualitativo dell’istruzione pubblica.

b) Dal 1945 al 1972 erano in vigore, in Italia, le cosiddette gabbie salariali, ovvero differenziazioni degli stipendi su base regionale (14 aree prima e 7 poi, dal 1961), sulla base della contrattazione sindacale – molto più presente al Nord – sui minimi salariali. Come ben sanno gli statistici e gli addetti ai lavori – ISTAT incluso – non vi è nulla di oggettivo nel calcolo del costo della vita in macroregioni e, infatti, ISTAT lo rivede periodicamente. L’argomento leghista, che vien fuori periodicamente, a favore di salari più bassi al Sud perché minore è lì il livello generale dei prezzi, trova un solo riferimento in letteratura, molto discusso e peraltro superato, ed il c.d. metodo Moretti, dal cognome dell’economista italo-americano che lo ha proposto. Si tratta di un metodo basato sul calcolo del solo prezzo degli immobili per determinare i differenziali di prezzo fra Nord e Sud del Paese. Con ogni evidenza, e come si sa, i più bassi prezzi al Sud riflettono una più bassa dinamica del Pil e peggiore qualità dei servizi (si pensi ai trasporti).

Alla scuola meridionale servono semmai più finanziamenti per stipendi più alti e migliore motivazione degli insegnanti. E’ una strategia che si può realizzare impegnando una parte aggiuntiva della spesa pubblica dalla tassazione degli incrementi di rendite finanziarie, come peraltro previsto dalla campagna “Tax the rich” (https://sbilanciamoci.info/tax-the-rich/), per uniformare la nostra spesa pubblica per welfare a quella delle migliori esperienze europee (e alla nostra stessa esperienza, almeno negli anni migliori dello sviluppo economico del Paese).

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